Cosa celano le immagini? Quali simboli, allusioni, metafore contengono? Quante chiavi di lettura esistono per accedere al loro significato? Un’opera d’arte visiva, per esempio, può essere interpretata attraverso la lente dello storico dell’arte e quindi commentata, storicizzata, analizzata stilisticamente. Oppure può essere tradotta in un’altra lingua, trasformarsi in qualcosa d’altro, diventare un punto di partenza per costruire una narrazione, un racconto.
Assumere le immagini, anche quelle dei dipinti più famosi, come suggestioni per scrivere delle storie, come “sintomi” per capire cosa c’è sotto, è ciò che da anni propone Giulio Mozzi nei suoi corsi alla Bottega di narrazione. Il 25 febbraio 2023, alla Stazione Leopolda di Firenze, all’interno dei tre giorni di TESTO – una «gigantesca officina di produzione di contenuti», secondo i curatori Pietro Torrigiani e Maddelena Fossombroni della Libreria Todo Modo – tra i tanti appuntamenti aperti al pubblico, il laboratorio L’annuncio delle storie di Giulio Mozzi sulle Annunciazioni di Beato Angelico è stato tra i più appassionanti.
Quale occasione più propizia, mi sono detto iscrivendomi, per valutare da vicino quanto la pittura di questo artista, al netto della sua ormai acclarata fortuna critica storica e figurativa, possa ritenersi oggi usabile come uno strumento di lavoro, come una fonte di ispirazione, e non solo contemplabile passivamente. Cioè, quanto la sua apparente semplicità, la sua luminosa propaganda del Paradiso, la cantabilità popolare delle sue narrazioni, possano offrirsi a cause non necessariamente legate al consumo culturale dei visitatori di un museo. Detto più brutalmente: Beato Angelico può fare testo?

L’annuncio delle storie si è svolto nella Sala Munari, una piccola auletta all’interno della Stazione Leopolda dotata di tavoli e un proiettore. Su Bruno Munari e la sua incomparabile sensibilità per tutti i campi dell’espressione visiva sarebbe lungo scriverne qui, e lasciamo al lettore il piacere di trovare le connessioni che crede tra un laboratorio su come immaginare le storie e il dedicatario della sala che lo ha ospitato.
Conosciamo Giulio Mozzi dal suo folgorante esordio nel 1993 con Questo è il giardino, una raccolta di racconti cui ne sono seguite altre; nel 2021 è stato finalista al premio Strega con il romanzo Le ripetizioni; nel 2011 ha fondato a Milano la Bottega di narrazione, una scuola dove si insegna ad osservare oltre che a scrivere; nel 2022 ha scritto con Valentina Durante il prezioso manuale Immaginare le storie. Atlante visuale per scrittrici e scrittori.

Sul perché uno scrittore come Mozzi abbia scelto, tra tutti i soggetti possibili, proprio quello dell’Annunciazione, declinato in quattro versioni di Beato Angelico, ci siamo fatti qualche idea. Premesso che Mozzi, per sua stessa ammissione, è un collezionista di Annunciazioni – ne ha raccolte più di mille – non può certo essergli sfuggito il ruolo fondativo di un tale soggetto per la città di Firenze: da un punto di vista civile (il capodanno fiorentino cominciava il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione), e devozionale (si pensi al veneratissimo affresco della SS. Annunziata). Ma non è tutto. Scartabellando nella sua produzione letteraria, troviamo già dichiarato dentro la raccolta Questo è il giardino, nel racconto Tana, il suo interesse per gli angeli. La giovane protagonista, al ritorno da scuola in un freddo giorno di pioggia, ne trova uno quasi svenuto accanto alla vetrina di una latteria. Lo porta con sé a casa, lo lava, lo nutre e lo mette a letto. L’angelo sotto la tunica bianca ha un corpo glabro e maschile, benché dica di chiamarsi Roberta. I suoi capelli sono ricci e biondi. Le ali sono fatte di lingue di carne rosa, gli occhi appaiono completamente rossi. Questa strana creatura, così poco somigliante agli angeli del nostro frate pittore, sembra non avere alcun annuncio da dare. Forse è solo un’allucinazione della protagonista febbricitante. O forse, nel fracasso mediatico globale in cui siamo immersi, la voce degli angeli è troppo flebile per essere udita.
Infine – ma questo è un pensiero partigiano – è evidente che chiunque decida di esplorare l’immagine dell’Incarnazione del Verbo, non può non misurarsi con l’intero catalogo delle Annunciazioni di Beato Angelico. Alcune sono ormai diventate icone pop. Basti pensare a quanto è diffusa la riproduzione dell’Annunciazione di San Marco nelle case degli italiani.

Ma torniamo al laboratorio. Dopo una breve introduzione e un giro di parola dei partecipanti, interpellati dallo stesso Mozzi su come scrivano, se partendo da un’immagine o da una frase, si comincia con la lettura del passo del Vangelo secondo Luca in cui viene narrata l’Annunciazione. È possibile individuare almeno sette nuclei narrativi, per capire quale istante l’artista abbia scelto di mettere in scena volta per volta:
- L’angelo arriva e saluta
- Maria si turba
- L’angelo la rassicura
- Maria domanda come sia possibile quanto promesso
- L’angelo le spiega
- Maria si dà disponibile
- L’angelo se ne va
Per “vestire” le immagini, per renderle parlanti, Mozzi suggerisce di adottare almeno due movimenti. Uno è osservarle e interpretarle liberamente, anzi entrarci proprio dentro, magari cercando possibili risonanze con i propri vissuti; mi vengono in mente le modalità di narrazione autobiografica già sperimentate in molte realtà museali italiane (si pensi a Brera un’altra storia e #raccontamibrera, del 2014; o a Fabbrica di storie delle Gallerie degli Uffizi, del 2016). O anche considerarle ponendosi domande palesemente ingenue del tipo: siamo sicuri che Maria fosse la prescelta? E se invece prima di lei l’angelo avesse provato a convincere altre donne che terrorizzate gli hanno sbattuto la porta in faccia? Nell’iconografia tardogotica molte Vergini si ritraggono sgomente alla vista del messaggero alato piombato in casa loro. Qualcuno dei partecipanti cita la famosa scenetta della Smorfia, del 1979, in cui una madonna perplessa, ancorché iconograficamente plausibile (Massimo Troisi), sembra sorda all’annuncio dell’arcangelo Gabriele (Lello Arena), salvo scoprire, alla fine, che non si chiama Maria e che la casa è quella sbagliata.
L’altro movimento è quello di decifrare le immagini da un punto di vista iconografico, soffermandosi sulle posture, l’atteggiamento delle mani, gli sguardi, le vesti, i dettagli architettonici e le relazioni che i personaggi intrattengono con lo spazio: ossia recuperare la capacità di comprensione della pittura che avevano i contemporanei di Beato Angelico.
Due movimenti contrapposti eppure complementari.
Senza la pretesa di esaurire la complessità del soggetto o di stabilire delle sistematiche comparazioni tra le Annunciazioni proposte nel laboratorio, le annotazioni che seguono sono solo appunti messi in bella copia e libere divagazioni per descrivere quattro momenti dell’opera di Beato Angelico, attraverso quattro versioni di Annunciazioni.

La prima Annunciazione in ordine cronologico, l’Angelico la dipinse per la Chiesa del Convento di San Domenico sotto Fiesole, oggi esposta al Museo del Prado di Madrid (1425-26). La scena è divisa in due parti. A sinistra, sullo sfondo, distanti nel tempo e nello spazio, scorgiamo Adamo ed Eva cacciati da un Paradiso terrestre rigogliosissimo di alberi da frutto e piante officinali; a destra, in primo piano, l’arcangelo Gabriele saluta Maria all’interno del portico quadrato della sua abitazione. La sacralità dell’incontro è rafforzata dalla costruzione prospettica dello spazio; come se la prospettiva accidentale brunelleschiana, entro cui avviene, ne dimostrasse, alla stregua di un teorema matematico, la veridicità. L’architettura non è dunque un fondale inerte. Le volte a crociera dipinte come un cielo stellato in Technicolor, a rimarcare la dimensione cosmica della scena; il profeta Isaia nel tondo sul capitello centrale, a preconizzare il mistero illustrato («Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio», Is 7-14); la rondine sulla catena dell’arco che allude alla primavera; i pochi arredi bagnati da una luce mattutina all’interno della casa di Maria, fanno da contrappunto alla sacralità dell’evento. Sacra è la veste di Maria, sacro è il tessuto damascato e dorato che fodera la poltrona dove siede, e che scivola a terra, fino a farle da tappeto. A sinistra, da un raggio di luce splendente, sbuca la mano di Dio che proietta la colomba dello spirito santo sul petto della Vergine. Nella stessa direzione punta lo sguardo l’angelo, con il corpo circonfuso di luce. Maria non riesce a guardarlo negli occhi, sembra dubitare dell’annuncio («Come potrà essere questo? non conosco uomo» Lc 1, 34); ha intorno al capo una fascia che le raccoglie i capelli, il serto delle ragazze nubili, ci deve ancora pensare. La colomba dello Spirito Santo non l’ha raggiunta, è nella campata dell’angelo. La postura dei personaggi è speculare: l’atteggiamento delle mani, nell’iconografia medievale, è quello dell’umiltà, della sottomissione.

Anche nell’Annunciazione di Cortona, dipinta per la chiesa di San Domenico a Cortona, oggi al Museo diocesano della città (1430 circa), si vedono in alto a sinistra, lontanissimi, Adamo ed Eva scacciati dal Paradiso terrestre; qui, però, compare un angelo armato di spada a incalzarli. La vegetazione è ridotta; compare uno steccato a dividere l’Eden dal giardino dell’abitazione di Maria, l’hortus conclusus del Cantico dei Cantici (Ct 4-9, 12). Come nella tavola del Prado, è Adamo ad avere un’espressione addolorata, si tocca il viso con la mano, un gesto codificato nella pittura e scultura medievale. In primo piano l’arcangelo Gabriele entra da sinistra, come d’abitudine, per incontrare Maria all’interno del portico della sua casa; lui creatura eterea e luminosa, lei con la consueta veste blu lapislazzuli e rossa. Nel medaglione del portico, sulla colonna centrale, il profeta Isaia, con un cartiglio in mano sembra inviare la colomba dello Spirito Santo su Maria.

Cambiano le posture delle figure. Maria continua a esprimere il suo assenso incrociando le mani sul petto, questa volta però guarda dritto negli occhi l’angelo e porta il velo da sposa. L’angelo fa il suo annuncio con gesti eloquenti: con l’indice della mano destra indica il petto della Vergine, con l’indice della sinistra lo Spirito Santo, mentre dalla sua bocca zampillano parole d’oro in due fumetti. La risposta di Maria è capovolta, in modo da innestarsi esattamente tra le parole dell’angelo. Maria è pronta: il concepimento avviene contestualmente al saluto.
L’Annunciazione del corridoio nord di San Marco è, come già detto, la più iconica della serie. Accanto al David di Michelangelo e alla Venere di Botticelli, è senza dubbio tra le opere più amate dai turisti in visita a Firenze. È anche molto citata al cinema. Ripenso al film I fantasmi d’Ismael (2017) di Arnaud Deplechin, in cui l’affresco acquisisce un valore simbolico cruciale nella storia di Ismael (Mathieu Amalric), un filmaker diviso tra due donne, una proveniente misteriosamente dal passato e l’attuale compagna. C’è in particolare una sequenza in cui il protagonista, rifugiatosi tra i luoghi e gli oggetti della sua infanzia, viene raggiunto dal suo produttore esecutivo, che vuole capire perché non riesca a terminare il suo film. Ismael gli mostra gli schemi della prospettiva centrale brunelleschiana, confrontandoli con quelli della prospettiva fiamminga: la prima, perfettamente razionale; l’altra, polimorfa e ambigua. L’immagine su cui Ismael cerca di tessere la sua trama di ricordi, in una sorta di delirio della visione prospettica, è proprio quella dell’Annunciazione angelichiana del corridoio nord, contrapposta al Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck.

E ancora, ne Il secondo tragico Fantozzi (1976), potrebbe essere l’arcangelo Gabriele dell’Annunciazione di San Marco, con la sua tunica rosa e le ali variopinte e in più un giglio in mano (licenza poetica del costumista), che in una scena entra ad annunciare al povero ragioniere la sua prossima maternità, quando, assiderato dopo un viaggio sotto un treno, rinviene grazie agli impacchi bollenti della Pina. Due esempi che provano, se mai ce ne fosse bisogno, la straordinaria popolarità di questa Annunciazione, cui attingono immaginari anche molto diversi tra loro.

L’Annunciazione di San Marco (1440 circa) segna indubbiamente un punto di svolta nella pittura dell’Angelico. L’affresco si trova nel dormitorio di un convento, i destinatari sono i confratelli dell’artista domenicano, dunque dei persuasi cui può rivolgersi senza preoccupazioni didascaliche, con un linguaggio spogliato di qualsiasi artificio retorico. Maria non è più rappresentata nella sua gloria celeste. Non siede più su un trono pavesato d’oro, ma su un umile sgabello di legno. Scompaiono Adamo ed Eva dallo sfondo: del Paradiso terrestre resta un vago ricordo nel bosco al di là della staccionata, la quale delimita nettamente l’hortus conclusus, chiara allusione al Cantico dei Cantici. Dello Spirito Santo rimane una specie di simulacro, un cerchio bianco appena percepibile sul capo di Maria; il tondo sulla colonna del portico è liscio, senza profeti veterotestamentari a vaticinare l’evento.

L’incontro avviene dentro un portico classicistico su cui si apre la casa della Vergine, povera come la cella di un frate di San Marco. I protagonisti sono uno di fronte all’altra, in reciproca contemplazione, come se si rispecchiassero: hanno entrambi le mani incrociate in segno di sottomissione; quelle di Maria, però, si incrociano più in basso, sul ventre. Non siamo più così sicuri che sia Maria a sottomettersi, nonostante la mansuetudine trasognata del viso e l’umiltà della veste. Non è forse lei a dominare la scena, forte della sua disponibilità ad accettare un compito così grande come la gravidanza del figlio di Dio? Non è forse lei a liberare l’umanità dal peccato originale? In effetti la sua figura giganteggia all’interno del portico: se provasse a mettersi in piedi, batterebbe la testa nella volta.
Nel ciclo di affreschi di San Marco, anche San Domenico appare talvolta con le braccia incrociate, come segno di sottomissione e umiltà (umiltà, carità e povertà volontaria sono i fondamenti della regola domenicana); ma la postura corrisponde anche a uno degli atteggiamenti di preghiera prescritti dal De modo orandi, guida medievale anonima all’orazione per i domenicani tramandata da alcuni codici miniati.
Infine c’è l’affresco dell’Annunciazione della cella 3 del corridoio est, in cui il soggetto giunge a un grado di astrazione ulteriore, ormai metafisica. La scena è nuda. Non c’è più la colonna che tradizionalmente separava i due personaggi. Niente Paradiso terrestre, niente hortus conclusus, di cui rimane uno spicchio di verde su cui sosta un timido San Pietro martire in preghiera, a sinistra della composizione. Non c’è più nemmeno uno sgabello su cui sedersi, ma solo un piccolo inginocchiatoio per pregare. Il “cerchio magico” del portico, topos di tutta una gloriosa consuetudine iconografica, è ora riassunto in un’architettura a due campate voltate a crociera. Maria, quasi un’adolescente, senza velo, con il serto a raccoglierle i capelli come una nubile, è umilmente genuflessa, con le mani incrociate sul petto in segno di accettazione, con il libro in mano, simbolo di sapienza, non certo di istruzione. L’arcangelo è in piedi, può congedarsi da lei: ormai ha assolto al suo compito. Sul vuoto tra Maria e l’angelo si potrebbero scrivere interi trattati di teologia. Un vuoto in cui il nostro sguardo si perde. È lo spazio del silenzio e dell’ascolto. Maria è un corpo luce, materia trasparente, sembra priva di gravità: fluttua piuttosto che posare le sue ginocchia sul panchetto. Eppure, anche se sembrano incorporei, entrambi i personaggi proiettano una leggerissima vibrazione d’ombra: sono vivi, l’incontro è reale.

Quattro annunciazioni, quattro diversi modi di rappresentare il mistero dell’Incarnazione del Logos, che per un domenicano è anche il mistero della sua vocazione religiosa. Quattro variazioni sullo stesso tema. Quasi un’ossessione. Beato Angelico ne ha realizzate molte di più di quelle considerate nel laboratorio L’annuncio delle storie a TESTO. Ovviamente non è stato né il primo né l’ultimo artista a dipingerne: però la sua adesione autentica al soggetto, il suo ritornarci più volte nel tempo, in vari contesti e su vari supporti (pergamena, tavola, affresco), gli ha permesso di trovare una lingua, uno stile che gli restituisse davvero la sua voce. Ecco, in questo esercizio di scrittura e riscrittura, in questa strenua ricerca della forma, della misura, della tavolozza essenziale, in un lavoro inesausto eppure invisibile, sta tutto il senso dell’opera di questo artista. E, forse, anche il senso ultimo della scelta di Giulio Mozzi di partire dall’arte-preghiera di un frate pittore per parlare di scrittura.
Carmelo Argentieri

Per saperne di più:
Giulio Mozzi, Questo è il giardino, Theoria, 1993
Chiara Frugoni, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Einaudi, 2010
Giulio Mozzi e Valentina Durante, Immaginare le storie. Atlante visuale per scrittrici e scrittori, Johan & Levi, 2022
vedi anche gli articoli di Sergio Amato sull’Annunciazione nel blog: prima parte e seconda parte