Ammetto possa da parte mia esser stato un ingeneroso eccesso di zelo contestare alla quotidiana opera rischiaratrice delle guide turistiche un errore tanto poco sostanziale quale quello preso in considerazione la volta scorsa. In fondo, saper se lo scalone ci fosse o meno quando l’Angelico scelse dove dipingere la sua Annunciazione nulla toglie o aggiunge alla comprensione di quest’ultima né al piacere che se ne trae. Discorso ben diverso, tuttavia, laddove coloro improvvidamente si avventurino lungo i sentieri che conducono alla sostanza stessa dell’immagine o su per gli scoscesi terreni che introducono alla sua decifrazione. E proprio di questo ci occuperemo in questo secondo episodio del nostro viaggio attraverso i luoghi comuni che circondano il capolavoro del frate-pittore mugellano. Un viaggio – lo ricordiamo – che vuol essere anche, o soprattutto, una campagna contro quei luoghi comuni, in nome di quel vecchio adagio che diceva esser la conoscenza nemica acerrima così della facilità come dell’appagamento.
Ma basta con le ciance, prendiamo esempio dai dentisti e andiamo dritti al punto dolens. Dolens, sì. E badate che non è semplicemente una metafora. No no, giacché al sottoscritto vi assicuro che dolgono davvero diverse non ben identificate parti del corpo oltre che dell’anima a udire il ritornello cui immancabilmente – e ripeto immancabilmente – si affida chiunque si trovi dinnanzi all’incombenza di dover “descrivere” e “spiegare” alle poco elette ma assai fameliche schiere di turisti o di visitatori ciò che esse – cioè le schiere – hanno davanti agli occhi. Sarò pure esagerato ma, ogni qual volta l’ammannitor di lumi si piazza di tre quarti di presso alla parete su cui tanto si affaticò il buon Fra’ Giovanni e, il petto gonfio di missionario fervore, schiude le labbra rivolto al suo uditorio, io mi illudo e spero che stavolta… Dai, stavolta no, non lo dirà! Dai che non lo dice, dai dai dai…! E invece eccola, puntualissima, la solita inesorabile filastrocca: “Osservate dove l’Angelico ha ambientato questa scena. Guardate bene. Guardate le colonne. Allora? Non lo riconoscete? Di che luogo si tratta? Ma sì, certo: è il chiostro, è proprio lui, il chiostro di Michelozzo! L’Angelico ha immaginato la sua Annunciazione come se si svolgesse all’interno di un convento, e non di uno qualsiasi, ma proprio qui, a San Marco!”
Che dolore, che dolore! È come ascoltare un brutto, bruttissimo disco (me ne vengono più di un paio in mente, ma mi asterrò dal citarli) o come esser costretti ad assaggiare gli esperimenti culinari di quella vostra zia che vive da sola, poverina, e che, ogni volta che viene a pranzo, si ostina a sentirsi in dovere di far qualcosa con le sue mani. Che fare? Sperare che il disco cambi musica o che la zia si trasformi d’un tratto in Gualtiero Marchesi? Sperar non nuoce mai, tuttavia agire ha il più delle volte effetti più sicuri ed immediati. Sursum corda, pertanto: tiriamo fuori il discaccio e buttiamolo via (credo vada nell’indifferenziato) e regaliamo alla zia un bel libro di cucina! Dico bene? Siete d’accordo con me? Allora seguitemi, ché questo è quello che mi propongo di fare.
Andiamo con ordine. Primo: buttare via il disco (anzi, meglio romperlo, ché non si sa mai). Il che, fuor di metafora, significa demolire una moda interpretativa – una moda, sottolineo, non una modalità – nata chissà dove e chissà quando ed ormai imperante quasi fosse un’indiscutibile ovvietà fra i professionisti dell’accompagnamento. E fra costoro e basta, beninteso, ché a rovistar fra le pagine di un Longhi, di un Baldini o di un Bonsanti – pagine, detto per inciso, di cui i suddetti professionisti dovrebbero almeno aver sentito dire – di essa, in quelle pagine, non v’è nessuna traccia.
Trattasi infatti di una moda nata “sul campo” ed ammantatasi di verità con l’uso, o meglio con l’abuso, e tramandata di generazione in generazione senza curarsi mai di verificarne plausibilità e sostenibilità. Qualcuno, un giorno, trascinato forse dall’enfasi declamatoria o forse cedendo alla voglia di impressionare i propri ascoltatori o anche solo per scherzo o per non saper cosa diavolo dire, avrà magari trovato comodo accostar le volte a crociera dell’Annunciazione con quelle del chiostro sottostante. E poiché quell’idea, in sé senza dubbio assai suggestiva, deve aver incontrato allora come incontra ancora adesso un vasto e pronto gradimento – più o meno come tutti i chiari e facili parallelismi – colui o colei provvide a riciclarla e a propinarla ancora e col medesimo successo, finché, come accade ai pettegolezzi ed agli slogan, essa divenne, come si usa dire, un “must”.
Incontrastabile potere della semplificazione! Più convincente persino dell’evidenza sensoriale. Eh sì, perché altrimenti come si spiegherebbe l’incondizionato assentir di cappocce ed il compiaciuto mugolio che immancabilmente tengon dietro alla rivelazione che quello che fino ad un istante prima chiunque percepiva senza fallo quale un portico è in realtà un chiostro? E dire che se un architetto andasse a proporre ad uno qualsiasi di loro di farsi costruire dinnanzi a casa un bel chiostro, scommetto gli riderebbero in faccia e gli farebbero bonariamente presente che forse intendeva dire un portico. Perché lo sanno tutti che un chiostro è per definizione uno spazio chiuso. Non viene forse dal latino claustrum, il quale a sua volta deriva dal verbo claudere, che per l’appunto significa “chiudere”? Un portico invece è aperto, tanto aperto che, alla bisogna, ti ci puoi riparare dalla pioggia o passeggiarci a braccetto del coniuge guardando le vetrine, o fartene costruire uno davanti a casa, oppure sul retro, verso il giardino, e sedertici sotto a sorseggiare una limonata o a schiacciare un pisolino o a leggiucchiare un romanzo. Lo sanno tutti, anche senza aver consultato un manuale d’architettura o esser geometri. Eppure mai nessuno ha da obiettare nulla allorché il modesto portico retrostante la casa in cui Maria fanciulla viveva con la madre Anna e il padre Gioacchino viene con affabulatoria e dottorale sagacia miracolosamente trasformato in un chiostro.
Insondabili misteri dell’arte della persuasione! Ma non finisce mica qui. Eh no, perché, a corroborare la fantasiosa interpretazione con prove a dir poco schiaccianti, ecco che sul banco dei testimoni vengon chiamate a deporre le colonne cui l’Angelico ha affidato il compito di sorreggere le volte sotto le quali avviene il fatidico annuncio. “Vedete quei capitelli? Vedete come sono gli stessi identici capitelli del chiostro di Michelozzo? L’Angelico li ha dipinti avendo in mente quelli; anzi, copiandoli!”
Giuro che succede, l’ho udito io, con le mie orecchie. Non sempre, a onor del vero, ché la pudicizia – vivaddio – talvolta ha il sopravvento, ma succede, ahimè. Ma ciò che più profondamente scuote le mie certezze circa il genere umano ed i suoi destini è che, anche in questo caso, nessuno osi anche solo semplicemente domandare “quali capitelli, scusi?” E già, perché, a ben guardare, di capitelli ve n’è di due tipi e stili ben differenti: corinzio (o meglio ancora composito, che del corinzio è un’evoluzione) in primo, primissimo piano e ionico, che per l’appunto è lo stile utilizzato da Michelozzo per il chiostro, sullo sfondo, in scorcio.
In un vero tribunale una deposizione tanto imprecisa e confusa, oltre che in palese contrasto coi fatti accertabili e accertati, sarebbe stata di subito respinta e contraddetta, archiviata come “ininfluente” o “irrilevante”. In un film americano magari si sarebbe addirittura proceduto ad accusare il teste di falsa testimonianza. Ma un turista non è un giurista e San Marco non è Hollywood, ergo non c’è da sperare che qualcuno si erga eroico a confutar l’errore.
A pro dell’integrità della facoltà critica dei visitatori medi, va detto però che in genere, all’udir la succitata panzana, del disappunto vela i loro sguardi. Sarà in virtù dell’ancor troppo fresco ricordo del chiostro sottostante o del vago affiorar di rimembranze risalenti ad epoche liceali, fatto sta che da sparsi ma eloquenti indizi si evince che qualche dubbio tra gli astanti aleggia. Ma non si manifesta, non si manifesta mai, ché vorrei proprio vedere se si manifestasse cosa risponderebbe, su che specchi dovrebbe arrampicarsi il dotto cicerone! Invece, stante il principio del silenzio-assenso, costui, del tutto in buona fede e inconsapevole di averla fatta franca, si sentirà autorizzato a riproporre ad altri lo stesso dissonante ritornello. Fino ad oggi, almeno, ché voglio sperare che queste poche righe possano avere un effetto dissuasivo su chi di dovere, ché si sa: errare humanum est, perseverare…
È giusto però che, come si usava un tempo nelle dispute dottorali, ad una pars destruens segua una pars costruens. Ovvero è necessario, tornando alla nostra metafora iniziale, che, una volta liberata l’aria dalla note trite e ritrite di quell’inascoltabile disco, ci si ricordi di quella cara zia e delle sue fallimentari aspirazioni culinarie e si provveda a farle omaggio di un ricettario facile e svelto. Niente di che: giusto un manualetto per cuochi principianti.
Anche se di poche o pochissime pretese, un manuale tuttavia ha sempre la sua brava introduzione. E così anche il nostro, il quale principierà rammentando il fondamentale principio ermeneutico secondo cui interpretare significa sempre e innanzitutto ricondurre ad un determinato contesto. Il che equivale a dire che ogni atto comunicativo – ed un’opera d’arte è intrinsecamente e in primo luogo un atto comunicativo – non nasce nel vuoto, ma presuppone e rimanda ad un ambito condiviso di relazioni significanti entro il quale a suo modo quell’atto “avviene” e necessariamente si situa, ed in virtù del quale soltanto quello stesso atto può acquisire validità e riconoscibilità, ossia, in una parola, risultare comprensibile.

Traducendo, un artista opera sempre all’interno di un codice dato, o piuttosto all’interno di una rete di codici, ognuno con il proprio complesso di regole, di finalità, di convenzioni, e rispetto ai quali egli può scegliere di porsi in diverse maniere, ma dei quali in nessun caso può non tenere conto. Ciò non significa affatto che l’artista non sia libero – ogni norma è tale in quanto può essere infranta -, bensì che il suo procedere non è arbitrario, ma partecipa di un “gioco” più ampio, per dirla con Wittgenstein, che esso assume quale proprio orizzonte di riferimento ed in rapporto dialettico con il quale esso può autonomamente svilupparsi.

Semplificando, un artista parte sempre, in senso lato, da una tradizione, ossia da una costellazione di principi – anche tra di sé contraddittori – concernenti cosa è da intendersi per arte, a cosa l’arte serva e se serva a qualcosa, che soggetti essa debba trattare e come li debba trattare, quali siano i suoi propri strumenti, in che rapporto sia con gli altri aspetti della cultura e della vita stessa degli uomini, et cetera. Qualunque artista, anche il più dissacratore ed anticonformista. Persino un Picasso, o un Duchamp, o un Fontana.
Torniamo adesso al nostro caro Angelico e al suo famoso affresco. Abbiamo appurato che non è un chiostro bensì un portico quello sotto le cui volte il nostro artista fa che alla Vergine appaia Gabriele. Appurato, stabilito. Ma se qualcuno fosse ancora così affezionato alla romanticissima idea che il dipinto riproduca l’ambiente reale che lo ospita tanto da non volervi assolutamente rinunciare, allora dia un po’ un’occhiata a queste altre due Annunciazioni su tavola realizzate dall’Angelico qualche anno prima.


Vi ricordano qualcosa? Esatto, eppure non mi risulta che ad alcuno mai sia venuto in mente di definire anch’esse “di ambientazione claustrale”. Forse perché nessuna delle due proviene dal chiuso di un convento? Forse perché entrambe facevan bella mostra di sé ai fedeli in una chiesa? Ma allora c’è qualcosa che non torna. Eh, sì! Perché allora qualcuno dovrebbe spiegarmi la ragione per cui una stessa pressoché identica struttura architettonica ed una stessa pressoché identica disposizione spaziale dovrebbero esser state utilizzate dal medesimo artista nel giro di meno di dieci anni prima a significare una cosa e poi un’altra. Delle due l’una: o son tutti dei chiostri o non lo è nessuno. Ma poiché, dizionario in una mano e buon senso nell’altra, è risultato evidente che di chiostri non ve n’è nemmeno l’ombra…
Però queste altre due Annunciazioni da noi prese in considerazione ci tornano utili non solo in quanto ci aiutano a disilludere gli ultimi, più tenaci “claustrofili”. Il fatto che esse siano tanto simili fra loro ed a quella di San Marco e che insieme a quest’ultima le si possa disporre in una triade di “variazioni sul tema”, è infatti un chiaro sintomo di come l’Angelico, nell’idearle, avesse effettuato una precisa scelta iconografica, optando in tutte e tre le occasioni in favore di una specifica modalità rappresentativa fra quelle che la tradizione gli metteva a disposizione per quel soggetto.
Poiché non è stato certo il nostro buon fra’ Giovanni il primo a cimentarsi con l’illustrazione di quell’episodio. Anche se non mancano testimonianze risalenti al periodo paleo-cristiano, fu soprattutto a partire dal IV-V secolo – ossia in seguito al definirsi di un vero e proprio culto della Vergine – che la scena dell’annunzio dell’arcangelo divenne parte fondamentale del repertorio di scene tratte dalla storia sacra che gli artisti frequentavano. Tuttavia, la pagina di Luca (1, 26-38) – unico tra gli evangelisti a raccontare di quell’incontro – risultò fin da subito troppo stringata e povera di dettagli, e perciò insufficiente a soddisfare il nuovo e più largo interesse che il tema trattatovi incominciava a riscuotere. Fiorì pertanto tutta una letteratura apocrifa, in cui lo scarno racconto lucano fu arricchito di numerosi ed amenissimi particolari e dotato di un ampio e fantasioso antefatto riguardante la nascita e l’infanzia della madre di Gesù.

Nacque così la fortunatissima leggenda testimoniata dal cosiddetto Protovangelo di Giacomo (III-IV sec.) e dal Vangelo Armeno dell’infanzia (IV-V sec.), e ripresa poi dall’apocrifo Pseudo-Matteo (VII-VIII sec.) nonché da Radberto di Corbie nella sua Infanzia di Maria (IX sec.). In essa si narrava dell’immacolata concezione di Maria da parte di Anna sua madre e della successiva permanenza della piccola nel Tempio fino all’età della pubertà, per passare in ultimo a fornire una versione molto articolata dell’incontro fra il divino emissario e la Vergine. Secondo tale versione Maria, che a quel tempo trascorreva le giornate tessendo un velo di porpora per conto del Tempio, mentre si recava ad attinger l’acqua al pozzo dietro casa udì una voce misteriosa. Spaventata, corse a chiudersi in camera e si rimise al lavoro usato, quand’ecco apparirle il proprietario della voce di prima, ossia l’arcangelo Gabriele, il quale le annunziò che avrebbe concepito il Salvatore.

Ecco finalmente che gli artisti avevan qualcosa cui appigliarsi, un contesto nel quale inserire i protagonisti della scena, degli elementi con cui caratterizzarli! A differenza però dei loro colleghi bizantini, che non si peritarono di rappresentar la Vergine mentre filava o tesseva o cuciva, a quelli occidentali dovette sembrare poco decoroso ritrarre la futura madre di Gesù intenta a lavori manuali. Essi pertanto optarono il più delle volte per occupazioni di tipo intellettuale, raffigurando Maria assorta nella preghiera o nella lettura. E così infatti siamo in genere abituati a vederla, sia che stia inginocchiata e con le mani giunte, o che si ponga dinnanzi a un leggio, oppure – ed è la maniera forse più frequente – che sia seduta, un libriccino tra le mani.

Per quanto riguarda invece il luogo, laddove esso non venga semplicemente taciuto – pensate al fondo oro che si stende e circonda l’angelo e la Vergine di tante raffigurazioni, non ultima quella di Simone Martini -, il riferimento al racconto apocrifo tende ad essere più incerto. Esso si limita in principio a un vago accenno alla casa di Maria, senza specificare se se ne intenda raffigurare l’esterno – là dove l’arcangelo si è manifestato la prima volta – o l’interno – dove in realtà è avvenuto l’annuncio vero e proprio -. Ed è questa commistione interno-esterno, questo connubio tra due fasi e spazi differenti e opposti a imporsi in molti casi, fino a divenire una alternativa costante e quasi maggioritaria rispetto alla più aderente collocazione della scena dentro la casa di Maria. La forza evocativa di un luogo “a metà”, di uno spazio di passaggio, né dentro né fuori, consentiva infatti di richiamare simbolicamente la particolare qualità transitiva e intermedia dell’episodio illustrato.


Posto che i padri della Chiesa tesero ben presto ad interpretare il momento dell’annuncio di Gabriele come coincidente con quello dell’incarnazione del Verbo nel ventre di Maria e quindi del concepimento del Salvatore, l’annunciazione, da mero fatto aneddotico, aveva assunto una valenza cruciale ed epocale, chiamata com’era a rappresentare, come in un’istantanea, niente meno che il passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento. Ecco allora che la dialettica dentro-fuori tornava utile per manifestare visivamente ciò che l’annunciazione più profondamente era, significava e rappresentava: la chiusura, la conclusione e l’inveramento di un’era e, contemporaneamente, l’apertura, l’inaugurazione e la promessa di quella successiva.


Accanto al permanere di una modalità più narrativa, letterale e domestica, nella quale l’angelo si presenta alla Vergine mentre ella è nella sua stanza, si afferma quindi un filone iconografico in un certo senso più attento al rimando meta-testuale, nel quale si gioca sull’ambigua localizzazione fisica della scena per suggerire la non-localizzabilità storica dell’episodio, inteso come evento-cerniera tra due epoche definite all’interno del piano provvidenziale di Dio nei confronti del genere umano. Un filone che, documentabile già a partire dal V-VI sec., trova nell’Annunciazione a mosaico di Pietro Cavallini in S. Maria in Trastevere un’esemplare illustrazione, con la Vergine inserita in una struttura a forma di edicola che è il risultato della avvenuta sintesi tra la cattedra (elemento interno) ed il prospetto della casa (elemento esterno).

Progredendo lungo la stessa linea di ricerca, il desiderio di trovare una forma in cui quella tensione simbolica potesse concretizzarsi in maniera più esplicita porterà più tardi gli artisti ad individuare nel portico la struttura che meglio rispondeva alle loro necessità. Elemento per definizione di raccordo tra un dentro e un fuori, ed esso stesso in possesso delle caratteristiche sia di uno spazio interno (in quanto riparato e coperto) che di uno spazio esterno (in quanto libero e aperto), tra XIV e XV secolo il portico fu eletto da molti quale luogo privilegiato ove situare l’annunzio di Gabriele alla Vergine.

Se Giotto agli Scrovegni impiega tutta la concisa eloquenza del suo intuito spaziale per aprire l’interno della casa di Maria, Duccio di Buoninsegna è invece tra i primi a sperimentare le potenzialità sintetico-dinamiche dell’ambientazione in un portico nella tavoletta ora alla National Gallery, in cui il gioco di pieni e vuoti delle arcate e dei sottili pilastri disposti secondo improbabili scorci amplifica in modo poeticissimo la reazione sorpresa della Vergine.

L’esempio del senese verrà presto seguito da moltissimi altri, i quali, se da un lato provvederanno via via a normalizzare l’incoerente sua architettura, dall’altro sfrutteranno ed approfondiranno le variegate opportunità offerte da quell’ambientazione. Verrà quindi a stabilirsi uno schema o codice rappresentativo solido, riconoscibile ed efficace, in virtù del quale Maria – che sia seduta o inginocchiata o in piedi, e che sia intenta a leggere utilizzando un leggio o un libriccino, o che semplicemente stia pregando – viene raggiunta dal divino messaggero sotto il portico di casa sua.



Questa soluzione, oltre a rimandare in maniera diretta ed elegante a quel complesso meta-testuale cui si è accennato sopra, consentiva inoltre, da un punto di vista più strettamente pittorico, di allargare lo sguardo sia verso l’interno della casa di Maria – la cui camera da letto-cella è assai spesso se non sempre ben visibile dal portico stesso – sia verso l’esterno di essa, verso il giardino che la recinge, e ancora oltre. Ciò fece in modo che una nuova, diversa simbologia, incentrata sulla figura di Maria e riferentesi in modo particolare all’interpretazione di lei quale nuova Eva, si aggiungesse e coordinasse con la precedente, andando ad arricchire il contesto di riferimento dell’evento-scena dell’annunciazione. Non a caso il giardino, l’hortus, sarà accuratamente conclusus da una balaustra o uno steccato, al di là del quale diverrà usuale raffigurare la cacciata dei progenitori dal Paradiso terrestre, esattamente come fa l’Angelico nelle due Annunciazioni di cui sopra.
Ma questo è tutto un altro capitolo, al quale dedicheremo la giusta attenzione a tempo debito. L’importante, ora come ora, è l’aver fatto chiarezza – si spera in modo esauriente – sull’origine ed il significato dell’iconografia adottata dall’Angelico per dipingere l’opera sua più famosa. Certo, l’immagine di un Angelico che, ancora impresso negli occhi l’ampio e sereno disegno delle arcate e delle volte innalzate al pian terreno da Michelozzo, sale sul suo ponticello e, con vibrante veemenza, traccia sull’ancor nuda parete del corridoio nord del dormitorio di San Marco delle arcate e delle volte in tutto simili se non identiche a quelle, per rappresentarvi in modo mai visto prima l’incontro tra la Vergine e Gabriele, questa immagine è certo molto più suggestiva, allettante e “moderna” rispetto a quella di un Angelico che umilmente si attiene ad una tradizione rappresentativa collaudata e non originale, per di più riproponendo nelle linee generali qualcosa da lui già sperimentato con successo precedentemente. Ma, dinnanzi all’evidenza dei documenti, l’inclinazione personale ed il gusto del sensazionalistico devono cedere il passo alla constatazione della verità oggettiva, anche se questa può sembrar di primo acchito più prosaica.
Tuttavia, se è vero che sarebbe anacronistico, oltre che intellettualmente errato, cercare di rintracciar nel nostro un’avanguardistica volontà di rottura col passato, altrettanto e anche più vero è che sarebbe ingiusto misconoscere quanto di assolutamente nuovo, personale ed originale l’Angelico ha saputo infondere in quel soggetto, sia rispetto alla tradizione cui si ispirava che ai precedenti episodi in cui si era misurato con esso. E non intendo riferirmi alla palpabile autenticità di sentimento che promana dall’affresco in questione, né all’indimenticabile fascino della sua dimessa e sobria eloquenza, né al persuasivo e nitido equilibrio delle masse e dello spazio che lo contraddistingue. Tutto ciò è noto e arcinoto. Ciò cui intendo molto più modestamente riferirmi è invece un dettaglio apparentemente marginale e in genere molto trascurato, ma che ci dà la misura esatta dello spirito con il quale un grande artista come l’Angelico si pone dinnanzi alla tradizione, ovvero dell’attitudine per nulla passiva ma sempre consapevole e dialettica con il quale egli dialoga con il codice figurativo adottato declinandolo a seconda dell’occasione e dello specifico scopo che si è prefisso.
Vi ricordate dei capitelli inopportunamente chiamati in causa nel tentativo di corrobare la tesi della “michelozziana claustralità” dell’Annunciazione? Vi ricordate che si notò come non fossero tutti del medesimo stile, ma che quelli sul fianco laterale fossero ionici e quelli in prospetto compositi? Allora ci bastò questa semplice costatazione, ma adesso dobbiamo tornare sull’argomento e domandarci: perché l’Angelico li ha differenziati?
Perché una ragione deve esserci senz’altro. Il nostro fra’ Giovanni non è certo uno di quei capricciosi e cervellotici mestieranti che si dilettano a infarcire le proprie opere di stravaganti incongruenze solo per il gusto di strabiliare lo spettatore. E poi, a ben vedere, nell’Annunciazione del Prado e in quella di Cortona di codeste mescolanze di ordini non c’è traccia alcuna: lì i capitelli son tutti rigorosamente dello stesso stile su entrambi i fianchi del portico. E allora perché solo e proprio qui, a San Marco, solo e proprio in questa Annunciazione che, in confronto a quelle altre due, è sotto tutti i rispetti più semplice, austera ed essenziale l’Angelico ha sentito la necessità di mescolar le carte? Perché solo e proprio qui ha voluto azzardare una mossa che poteva costargli l’accusa di aver commesso un grossolano errore e che, a quanto ne so, non ha esempi che la precedano né che la seguano?
La risposta è già nella domanda, o meglio in quel “solo e proprio qui” che la accompagna. Perché, esattamente come solo e proprio qui, a San Marco, l’Angelico ha avuto la libertà di sfrondare il proprio linguaggio pittorico da ogni superfluo decorativismo e in genere da tutto ciò che non fosse strettamente necessario; esattamente come solo e proprio qui, dipingendo per i propri confratelli, egli si è potuto permettere di raffigurare la Vergine annunziata seduta su uno sgabellaccio degno più d’un ciabattino che della Madre di Dio e di osare, specie all’interno delle celle, delle soluzioni figurative così dense da risultare a volte quasi cifrate (penso al Cristo deriso); per la stessa ragione è stato solo e proprio qui che il nostro pittore teologo ha ritenuto possibile ed opportuno arricchire i rimandi metaforici già connessi alla figura-portico di più ampie e solide basi.
Facciamo un passo indietro. Gli ordini architettonici classici, in una scala che va dal più antico al più recente e dal più semplice al più complesso, sono il dorico, lo ionico ed il corinzio. A questi fondamentali vanno poi aggiunti il tuscanico (o toscano), che quanto a complessità precede il dorico, ed il composito, il quale risulta appunto dalla unione delle caratteristiche salienti dei due stili più alti ed evoluti – ossia lo ionico ed il corinzio – in un nuovo ordine, che va a completare e perfezionare l’intera serie.
Consideriamo adesso il portico nel valore che abbiamo appurato essergli proprio, ossia di spazio di comunicazione e di raccordo fra due luoghi definiti in sé. Vi sembra casuale che l’Angelico, lungo il fianco laterale, più arretrato, disponga delle colonne ioniche e che quello frontale, in primissimo piano, lo adorni invece con l’ordine ultimo e più perfetto, che dello ionico è una evoluzione ed un completamento grazie all’innesto in e su di esso delle grazie del corinzio? Non sembra anche a voi che in questo modo egli abbia voluto puntellare il rimando implicito nella struttura architettonica di nuovi e più espliciti richiami?
Così come lo ionico precede cronologicamente gli ordini successivi, così, in questo luogo di simbolico passaggio, le colonne in scorcio precedono visivamente quelle in prospetto, a dirci di come il passato, in questo momento presente in cui il Verbo si sta incarnando nel ventre di Maria, stia per cedere il posto al futuro del nuovo tempo della redenzione. E così come l’ordine composito conserva e al contempo supera lo ionico, così le colonne in primo piano concludono la fuga prospettica di quelle laterali e suggeriscono uno spazio che si distende oltre e al di fuori il portico stesso, verso lo spettatore, ossia verso noi tutti, a dirci come il tempo nuovo che adesso, tramite quell’annunzio, si inaugura sia la verità ed il perfezionamento del precedente e sia il nostro tempo, quello nel quale noi tutti possiamo beneficiare del nuovo patto stabilito tra Dio e gli uomini grazie al dono del Suo unico figlio.
Ecco un modo in cui soltanto un uomo – prima ancora che un frate – dotato di una autentica e genuina fede, oltre che di un genio pittorico fuori dal comune, avrebbe potuto re-interpretare il soggetto dell’apparizione di Gabriele alla Vergine seduta sotto il portico di casa sua. Ed ecco un modo di raccontar quel miracoloso incontro che forse solo dei frati avrebbero saputo apprezzare, avvezzi come avrebbero dovuto essere ad andare alla sostanza vera delle cose, senza badar tanto ai particolari accessori, come ad esempio che alla Vergine dipinta dal loro confratello mancava il fatidico libriccino tra le mani.
Questa è la magia di un luogo come San Marco. In barba a tutti i luoghi comuni.
Sergio Amato
Vedi L’Annunciazione dell’Angelico: qualche doverosa precisazione (prima parte)
Certamente molto interessante, ho solo una domanda molto marginale riguardo alla definizione del capitello, che lei considera come composito. Io l’avrei definito corinzio o corinzieggiante, visto che le volute nascono direttamente dal giro di foglie d’acanto; compositi mi sembrano semmai quelli che l’Angelico usa per l’Annunciazione ore al Prado o per l’affresco della cosiddetta Madonna delle Ombre. Detto ciò va certo considerato che a queste date siamo ancora in fase di ripresa e elaborazione dei moduli architettonici antichi.
Mi chiedo inoltre se non si possa azzardare l’idea che il dotto pittore abbia voluto qui nell’Annunciazione presentare due tipi di capitello anche per segnalare il problema che si presenta negli angoli quando si usi quello ionico.
la ringrazio ancora Luisa Strada
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Gentilissima sig.ra Strada,
la sua domanda circa la più corretta definizione dei capitelli in questione è tutt’altro che marginale. Quel che lei fa notare, ossia che le volute, piuttosto che sovrapporsi ai girali di foglie d’acanto, sorgono da essi, è incontrovertibilmente vero; com’è vero pure, aggiungo io, che non vi è traccia alcuna di echino, con ovuli o meno. Ciò detto – e considerando anche quanto labili e sfumati siano i confini di tali classificazioni – per conto mio continuo a non esser sicuro che possano propriamente indicarsi come corinzi, per la duplice ragione che il motivo delle volute angolari risulta assolutamente preponderante e che le elici sono pressoché inesistenti. Una loro attribuzione ad un meno rigido stile “corinzianeggiante” può rappresentare di certo un buon compromesso, valido però a mio avviso anche per gli altri esempi da lei citati, ossia i capitelli dell’Annunciazione del Prado e quelli della Madonna delle ombre. Se è vero, infatti, che in entrambi i casi si registra la dovuta indipendenza delle volute dal kalathos, mi sembra tuttavia che nessuno di essi – per un motivo o per l’altro – riesca a soddisfare per intero i criteri per essere a pieno diritto ammessi tra i “veri” compositi. E la ragione di tutto ciò sta appunto nel fatto, da lei stessa peraltro rammentato, che al tempo dell’Angelico la codificazione degli ordini classici era ancora ai suoi inizi e ben lontana dal rigorismo d’epoca successiva.
Quanto poi alla suggestione che il dotto frate possa aver optato per un duplice ordine onde aggirare il problema della soluzione d’angolo connessa all’uso dello ionico, devo ammettere che è molto affascinante, ma che mi trova piuttosto scettico. Mi viene infatti da domandarmi: era davvero tanto addentro il nostro buon Angelico a problemi tanto tecnici di un campo che non era il suo? ed anche ammettendo che lo fosse, allora perché non tagliare la testa al toro e ricorrere al solo composito o corinzio o corinzianeggiante, come aveva fatto in altre occasioni? Mi perdoni, ma trovo più convincente l’idea di un frate dotto sì, ma in teologia piuttosto che nell’arte della costruzione, che sceglie di differenziare i lati di quel portico per indurre i propri confratelli a meditare sul mistero dell’incarnazione piuttosto che a riflettere sul problema dell’angolo.
Spero di esser stato esauriente e non troppo prolisso e, ringraziandola dell’occasione di approfondimento che ha offerto a me ed ai lettori, rimango a disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.
Sergio Amato
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