Siamo giunti all’ultima tappa di questo viaggio in sette puntate, raccontato con le belle e antiche parole di Vincenzo Marchese (Genova 1808-1891), frate domenicano, erudito e appassionato cultore di arte e storia, a cui principalmente si deve la riscoperta moderna di Beato Angelico, degli artisti domenicani, di Savonarola e della storia di San Marco. Nel volume S. Marco Convento dei Padri Predicatori in Firenze del 1853, il testo di Marchese è accompagnato da quaranta preziose tavole incise in rame, eseguite da un gruppo di artisti dell’Accademia di belle arti di Firenze. Con queste incisioni, quando ancora non si erano diffuse le riproduzioni fotografiche, per la prima volta gli affreschi dell’Angelico nelle celle di San Marco fecero la loro comparsa nella storia dell’arte, svelandosi al pubblico degli studiosi e degli appassionati, italiani e stranieri. La nostra rassegna si conclude con le ultime incisioni del volume: la Deposizione di Beato Angelico dalla chiesa di Santa Trinita; quattro miniature da codici tutt’oggi conservati al Museo di San Marco; tre opere dell’altro grande artista di San Marco, Fra Bartolomeo; una veduta del chiostro grande, intitolato a San Domenico; l’Ultima Cena di Ghirlandaio nel Refettorio piccolo di San Marco.

La tavola della Deposizione di Croce, che dalla chiesa di Santa Trinita, per la quale era stata dipinta, passò negli ultimi tempi nella Galleria della fiorentina Accademia del disegno, è alta intorno a palmi sette (circa 2 metri), e larga presso che otto (circa 2 metri e 30 cm.); nella parte superiore ha forma di sesto acuto, ornata di tre cuspidi o triangoli, i quali sono divisi dalla tavola principale per una cornice dorata. Non pure (solo) le cuspidi, ma la cornice stessa che tutto ricinge il quadro, sono vagamente (con grazia) intagliate e dipinte, quelle (le cuspidi) a piccole storie, e questa (la cornice) ornata di molte e bellissime figure di Santi, alquanto maggiori nella dimensione, e certamente più perfetti di quelli che per un simile adornamento fece nella tavola perugina più volte ricordata (il polittico Guidalotti di Perugia, oggi alla Galleria Nazionale dell’Umbria).

Disegnò in questa (nella Deposizione di Santa Trinita) il monte Calvario, e, contro l’usato (la tradizione), con poetico e devoto concetto (idea), adornollo (lo adornò) di erbe e di fiori, quasi volesse dinotare (indicare) che al toccamento delle piante e del sangue preziosissimo di Gesù Cristo quell’infame ed orrida vetta si rivestisse bellamente della più ricca vegetazione. E che tale invero fosse la mente (l’intenzione) del dipintore si deduce da questo, che i monti che lo circondano, e che in lontana prospettiva formano parte del fondo del quadro, fece nudi di ogni ornamento, se ne togli a quando a quando alcuna pianta di palma. Dall’opposto lato ritrasse con non molto felice prospettiva la città di Gerusalemme, condotta e lavorata con incredibile diligenza.
Le figure dispose in tre gruppi. Nel mezzo due discepoli, poggiate le scale alla Croce, calano il corpo del Redentore; a’ piedi lo sorreggono tre altri discepoli, dei quali il più giovine e il più commosso è l’evangelista Giovanni; un sesto prostrato (inginocchiato) a terra l’adora; e portando la mano al petto sembra che dica: “per me sì ria morte!” (per causa mia questa morte crudele!)
Il gruppo a sinistra (a destra per chi guarda) offre sei figure, delle quali una tiene nella destra la corona di spine, e colla sinistra i chiodi, tuttavia (ancora) sanguinosi, che trapassarono le mani ed i piedi del Salvatore, e additali ad un vecchio che mestissimo li contempla. Pensiero con pari mestizia espresso da Donatello nei bassorilievi del pulpito di San Lorenzo; e da Pietro Perugino in quella stupenda Deposizione di Croce, che è uno dei più preziosi ornamenti della R. Galleria de’ Pitti. Due fra i discepoli affisano (fissano) lo sguardo nell’estinto maestro; di mezzo ai quali vedesi uno che, mal potendo reggere alla piena del dolore, e frenare le lagrime, nasconde il volto fra le palme, e piange dirotto. “E se non piangi, di che pianger suoli?…” (da Dante, Inferno, Canto XXXIII)


Il gruppo a destra (a sinistra per chi guarda) è composto delle pie femmine. Chi vuol rinvenire la tenera ed affettuosa Maddalena, la cerchi ai piedi di Gesù Cristo. Il pittore figurolla (la raffigurò) prostrata (inginocchiata) al suolo in atto di sorreggerli (i piedi) e imprimervi l’ultimo bacio. Dietro ad essa è la Madre. Oh quanto spietatamente la misera è straziata dal dolore! Sicché l’occhio del contemplatore di questa pittura erra (si muove) incerto or su l’esanime spoglia del Figlio, or su la mestissima fra le madri. Né è chi a quella vista non provi un fremito di pietà. Due femmine tengono i pannilini (panni di lino) onde involgervi l’estinto: altre due contemplano il crudele trambasciamento (dolore) di Maria. E quanto mai dir si possa bellissima è un’ultima, sol veduta di fianco, la quale avvolta in manto violetto, che tutta ne cuopre la persona, con molta grazia lo si stringe sotto del mento, onde ne appare il volto di lei tutto bellezza e leggiadria.
Ma come ché (sebbene) molti pregi si ammirino in queste figure, non pertanto (nondimeno) tutte, a mio avviso, son vinte da quella di Gesù Cristo; avendo l’Angelico espresso nel volto dell’estinto un meraviglioso affetto ed una serenità che la morte non avea potuto cancellare; e in tutta la persona si ammira una sì squisita nobiltà di forme, una dolcezza di linee, una morbidezza e trasparenza di mezze tinte, che colma di meraviglia. Il nudo, sul quale molto studiosamente segnò le tracce delle crudeli battiture, è più corretto di quanti altri l’Angelico facesse; meglio intesa la notomia (l’anatomia); né quasi vi ha traccia di quella durezza che troppo sovente ci offende nei giotteschi.
Nelle cuspidi superiori sono tre storie, che gli intelligenti di quest’arte giudicano di Don Lorenzo, monaco camaldolese (il pittore Lorenzo Monaco). In quella di mezzo vedesi la Risurrezione di Gesù Cristo; in quella a destra, la Maddalena e le Marie al sepolcro; e in quella a manca (a sinistra), il Noli me tangere. Nella cornice poi, parte intieri, parte in mezze figure, sono venti Santi di rara bellezza. A compiere l’effetto religioso del suo dipinto, e quasi ad associare lo spettatore a questa sua tenera e devota meditazione, scrisse dappiedi in lettere d’oro alcune sentenze della Santa Scrittura allusive alla morte del Redentore.
Come nel mirabile a fresco (affresco) della Adorazione dei Magi, ammirasi in questa tavola un corretto disegno, un vago (grazioso) e molto lieto colorito; nelle acconciature e nelle pieghe parmi meraviglioso; e nell’arieggiare dei volti, nobile, vario ed espressivo. Le estremità sono ben disegnate e ben disposte su i piani. Solo nella prospettiva aerea si desidera quella gradazione di tinte che allontana gli indietro col diminuire della luce e il crescere delle ombre. Arroge (Inoltre), che essendo nelle incarnagioni oltremodo languido e dilicato, e nel tinger dei panni brillantissimo, l’occhio è alquanto offeso dal disaccordo di questi (i panni) con quelle (le incarnagioni). Difetto non pur suo, ma di tutti di quella scuola. Non pertanto (nondimeno) credo non sia chi voglia dinegare all’Angelico quella lode che tributarongli (gli attribuirono) il Lanzi e il D’Agincourt (celebri archeologi e storici dell’arte del XVIII sec.): andare cioè innanzi a (che l’Angelico sia superiore a) tutti quei che dipinsero a tempera per la gaiezza del colore; e congiungere insieme due disparatissime e quasi opposte qualità di quest’arte, cioè il diligente e quasi leccato finire (minuziosa finitezza) dei miniatori, col libero e franco pennelleggiare dei frescanti. Per la qual cosa se tu consideri i suoi dipinti assai da vicino, e’ (l’Angelico) ti pare dei primi (i miniatori); ove tu li guardi da lungi, lo credi de’ secondi (i frescanti).
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Tempo è omai (ormai) si proceda a favellare (parlare) dell’altro convento di San Marco, ove la miniatura novera alcuni tra i più grandi cultori che quest’arte vanti in Italia (…) E qui per primo parmi (mi pare) doversi lode grandissima al beato Giovanni Dominici, dell’ordine di Predicatori, poi cardinale di S. Chiesa, il quale in tutti i conventi che egli o riformava nella regolar disciplina, o ergeva dalle fondamenta così degli uomini come delle donne, in tutti studiavasi (si impegnava a) introdurre quest’arte nobilissima, la quale mirabilmente giova a sollevare la mente ed il cuore a casti e santi pensieri.
Tre incisioni del volume S. Marco Convento dei Padri Predicatori raffigurano miniature, attribuite da Marchese a Frate Benedetto del Mugello, fratello di Beato Angelico. In realtà, si tratta di un errore interpretativo delle fonti, ripetuto, venti anni dopo, anche da Ferdinando Rondoni, autore della Guida del R. Museo fiorentino di San Marco (1872, prima edizione). Fra Benedetto, infatti, fu copista e scrittore, ma non miniatore. Le tre miniature provengono, invece, dai corali medicei di San Marco miniati tra il 1446 e il 1454 da Zanobi Strozzi e Filippo di Matteo Torelli.



Segue l’incisione di una miniatura di Frate Eustachio, al secolo Tommaso di Baldassarre (1473-1555). Nel 1496 ricevette l’abito di converso domenicano dalle mani di Savonarola e nel 1497 pronunciò i voti solenni. Nel 1505 completò un elaborato salterio per S. Marco (n. 529) che, al tempo di Marchese, era ancora in uso nel coro. Frate Eustachio fu una fonte diretta di Giorgio Vasari per la Vita di Fra Giovanni da Fiesole.

Nell’amenità di una ridente campagna, sotto un azzurro e limpido cielo, vedesi prostrato Davidde (si vede David inginocchiato), con le braccia conserte al seno, la corona deposta sul suolo, in atto di ascoltare la voce santissima di Dio, che dall’alto de’ Cieli si vede inviare al profeta il suo lume (luce) consolatore. Piena di maestà e di vita è la figura del David, e nel panneggiare ricorda il fare nobile e grandioso di Fra Bartolommeo della Porta. Non così mi appagano le estremità (braccia e gambe), forse non ben proporzionate, né bastantemente indicate; difetto comune alla più parte dei miniatori.
Tre incisioni sono dedicate a Fra Bartolomeo, che mezzo secolo dopo Beato Angelico, fu l’altro grande pittore e caposcuola di San Marco.

Sotto questa influenza “tenebrosa” ricorderò quelle due grandi e bellissime tavole colorite da Fra Bartolommeo per la sua chiesa di S. Marco, e delle quali una passò nella galleria Palatina. Rappresentano ambedue la Vergine seduta in trono, circondata da molti Santi, e segnano, per ciò che io stimo, il trapassamento di questo pittore dalla maniera antica alla moderna. (…) Favellando (parlando) poi della seconda tavola, la quale tuttavia (al contrario di quella trasferita a Pitti) rimane nella chiesa di S. Marco, così si esprime (Vasari): “fece poco tempo dopo un’altra tavola dirimpetto a quella, la quale è tenuta buona, dentrovi la nostra Donna (la Vergine Maria) ed altri santi intorno. Meritò lode straordinaria, avendo introdotto un modo di fumeggiare le figure, in modo che all’arte aggiungono unione maravigliosa talmente che paiono di rilievo e vive, lavorate con ottima maniera e perfezione”. In queste due tavole le teste virili sono tuttavia nobili, e nobilissima quella della Vergine; il disegno vi è castigato, e facile il piegare dei panni; ma il colore sì forte e sì fiero che poste a confronto con la bella tavola del duomo di Lucca, sembrano da due diversi artefici colorite. (…) Aggiungerò da ultimo, che se il primo di questi due dipinti appalesa un’arte grandissima e singolare perizia nel tocco del pennello; il secondo più semplice e castigato eziandio (persino) mi diletta meglio di quello.


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Da questa venuta del Vinci (Leonardo) avea colta occasione Fra Bartolommeo per meglio addestrarsi in quell’ardua carriera (di pittore); ond’è a credere che stringesse amicizia col pittore del Cenacolo, e da lui avesse consigli e indirizzamento nelle teorie del chiaroscuro e del colore. A dare un cotale saggio di stile lionardesco ne fece sperimento in un a fresco del suo convento di S. Marco. Entro un arcuccio sopra la porta del piccolo refettorio colorì in mezze figure di naturale grandezza Gesù Cristo risorto, il quale nel castello villaggio) di Emaus è da due discepoli invitato ad ospizio (a sostare). Quivi è tanto evidente la maniera del Vinci, e tanto felice la imitazione di quel sovrano maestro, che si stimerebbe la mano stessa di Lionardo avere dintornate (disegnate) e colorite queste tre belle figure. E vaglia il vero (Infatti), nella testa di Gesù Cristo, che il Frate ritrasse di profilo, è tanta nobiltà e tanta squisitezza di forme, e nelle altre due tanto evidente imitazione del vero, che non so qual altro tra i fiorentini pittori di quella età avria (avrebbe) potuto andare sì dappresso (così vicino) a Lionardo. Duolmi (mi dispiace) che quest’opera del Porta sia dalla più parte così degli scrittori come degli artefici (artisti) ignorata, tuttoché (sebbene) in luogo assai palese (visibile); ché certamente invece di scrivere o studiare altri dipinti di lui, a questo di lunga mano inferiori, avrian (avrebbero) dovuto concedergli luogo (importanza) principalissimo. Se ne eccettui (tranne) il Vasari, che appena il (lo) ricorda ponendolo fra le ultime cose del Frate, il Lanzi, il Rosini, ec. non ne fecero parola. Che poi debba collocarsi fra le opere eseguite in questo tempo, e quando Lionardo era in Firenze, si deduce facilmente da questo, che per detto del Vasari, ivi è ritratto il Padre Niccolò Scomberg; ed è quella prima figura a destra veduta di profilo, di pel rosso, piena e rubiconda. Questo giovine alemanno (tedesco) era succeduto al Padre Sante Pagnini nel priorato di San Marco, appunto nel giugno dell’anno 1506; e nel seguente, eletto Procurator generale dell’Ordine, partiva alla volta di Roma, ove in seguito per le sue virtù fu consecrato arcivescovo di Capua e poi decorato della sacra porpora (divenne cardinale). Stimo che l’altro discepolo ritratto in quell’affresco, alquanto più maturo di età, sia la vera effigie del Pagnini. Avendo alcune fiate (volte) interrogato me stesso qual dipinto di Fra Bartolommeo potesse invaghire siffattamente (così tanto) Raffaello per indurlo a prendere il Porta a modello nella sua seconda maniera, non ho saputo rinvenirne alcuno più di questo degno di cotanto onore. Nel 1872, la lunetta fu staccata dalla sua collocazione originaria (una porta di accesso al refettorio piccolo) e murata sulla parete sinistra della cappella del Giovanato.

Nella cappella del “Giovanato” è una Vergine col Figlio in braccio, crudelissimamente danneggiata, forse per opera di chi tentò segarla dal muro e trasportarla con altri simili dipinti del Porta nella Galleria dell’Accademia del disegno. L’affresco proviene dall’ospizio di Santa Maria Maddalena alle Caldine in Pian del Mugnone. Nel 1701 venne staccato e poi murato nella parete destra della cappella del Giovanato.
Fuori testo, all’inizio e alla fine del volume S. Marco Convento dei Padri Predicatori in Firenze , ancora due belle incisioni, con cui concludiamo questo viaggio: una rara veduta del chiostro grande di San Marco e l’Ultima Cena di Domenico Ghirlandaio.


a cura di Alessandro Santini
NOTA BIBLIOGRAFICA
Vincenzo Marchese O.P., Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani, con aggiunta di alcuni scritti intorno alle belle arti, Firenze, Presso Alcide Parenti, 1845 (Prima edizione). Edizioni successive: 1854 (Firenze, Le Monnier),1869 (Genova, Tipografia della Gioventù), 1878-79 (Bologna, Presso Gaetano Romagnoli).
Vincenzo Marchese O.P., S. Marco Convento dei Padri Predicatori in Firenze, illustrato e inciso principalmente nei dipinti del B. Giovanni Angelico, con la vita dello stesso pittore e un sunto storico del convento medesimo, Firenze, Presso la Società Artistica, 1853, in Prato coi tipi di D. Passigli
Carlo Milanesi, San Marco, Convento dei Padri Predicatori in Firenze…, in “Archivio Storico Italiano”, Tomo Ottavo, Appendice n. 25, Firenze, Gio. Pietro Viesseux, 1850, pp. 249-250.
Le 40 tavole incise in rame, qui pubblicate per la prima volta integralmente, provengono da S. Marco Convento dei Padri Predicatori in Firenze (1853), di proprietà dell’autore di questo articolo.
Il testo di Padre Marchese è frutto della comparazione fra S. Marco Convento dei Padri Predicatori in Firenze (1853) e Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani (si è tenuto conto della prima e dell’ultima edizione, 1845 e 1878-79). In caso di varianti si è scelto quella più vicina alla lingua corrente. Per aiutare il lettore, tra parentesi si sono aggiunti sinonimi o si è parafrasato il testo.
Prima puntata: La pala di San Marco
Seconda puntata: Gli affreschi del chiostro
Terza puntata: Gli affreschi della sala del Capitolo (prima parte)
Quarta puntata: Gli affreschi della sala del Capitolo (seconda parte)
Quinta puntata: L’Annunciazione e gli affreschi del dormitorio (prima parte)
Sesta Puntata: Gli affreschi del dormitorio (seconda parte)