Nei Paesi ricchi ci si permette immensi sprechi di cibo, mentre “sconfiggere la fame” è il secondo dei 17 obiettivi dell‘Agenda ONU 2030 per “trasformare il nostro mondo”. Il cibo è mezzo di sostentamento. Mangiare, per la ristretta popolazione fortunata di una piccola parte del pianeta, sembrerebbe oggi, però, qualcosa di più che una piacevole necessità: una sorta di religione, con proprie figure di riferimento, più o meno carismatiche o improbabili, propri rituali e un rassicurante senso di appartenenza a volte alla base di scelte alimentari sorrette dalle più varie motivazioni, non necessariamente etiche o salutari.
Nella mitologia e nella storia, attorno alla tavola imbandita si snodano le più importanti vicende che segnano il corso degli eventi. Il pasto condiviso, in ogni cultura, è sempre scandito da precise ritualità e adibito a momento fondativo della propria identità comunitaria.
Comportamenti e norme che lo regolano vengono stabiliti già nell’antichità con precisione e appositi manuali, e si possono oggi leggere come filtro e lente di ingrandimento per comprendere valori e timori costitutivi di ogni civiltà.
Con la nascita del Cristianesimo il tema eucaristico si impone nella sua assoluta centralità. Nasce l’Agàpe, che si declinerà poi a seconda delle forme di religiosità che si svilupperanno in Europa e nel mondo.
Con l’istituzione delle abbazie, dei conventi e dei monasteri, i refettori, dove i religiosi mangiano raccolti nella loro ristretta comunità o aperti nell’accoglienza dell’ospitalità, divengono luoghi in cui arte e spiritualità si rispecchiano una nell’altra, innalzando il desco a momento di intima e profonda sacralità.
A Firenze fiorisce e si sviluppa la tradizione dei cenacoli: ambienti in cui l’immagine della croce e dell’ultima cena affrescate sulla parete di fondo, concretizzano il legame strettissimo tra nutrizione del corpo e dello spirito, in un rimando palese al mistero eucaristico.
Per molti ordini religiosi durante il pasto vige ancora oggi il silenzio, mentre si ascolta la lettura di brani della Bibbia. Il refettorio è uno spazio di per sé quasi sacro e in quanto tale vi si accede dopo una purificazione del corpo e dell’anima.
Destinata a questo scopo, antistante al refettorio, si trovava quasi sempre la sala del lavabo, in cui si pregava e si procedeva al lavaggio, allora meramente rituale, delle mani.
In quest’ottica va vista la rappresentazione pittorica della crocifissione che campeggiava a parete in molti refettori nel XIV secolo, come a Firenze si può vedere sia nell’affresco di Taddeo Gaddi in Santa Croce che in quello di poco successivo dell’Orcagna in Santo Spirito.
In entrambi i casi, solo come scena minore, appare l’ultima cena, rimando sia all’istituzione dell’eucarestia che al luogo in cui ci si trova, in una sorta di invito a immedesimarsi nell’immagine rappresentata.
Bisognerà aspettare il 1447 per assistere al completo rovesciamento della gerarchia delle immagini. Verosimilmente, nel dicembre di quell’anno, nel refettorio del convento benedettino delle monache di clausura di Sant’Apollonia, Andrea del Castagno dipinge l’affresco che rappresenta uno spartiacque nella storia dei cenacoli e apre la strada ai grandi capolavori che seguiranno. Il soggetto dell’Ultima Cena è qui per la prima volta in primo piano, predominante su quelli dipinti nel registro superiore. La Crocifissione appare al di sopra della grande scena centrale. L’affiancano una Resurrezione a sinistra, e un Compianto sul Cristo morto a destra, che collegano esplicitamente L’ultima Cena non solo al sacrificio di Cristo, ma anche alla salvezza che, attraverso l’eucarestia, e quindi attraverso la condivisione di pane e vino, è offerta all’umanità.
La cultura umanistica e la renovatio spirituale che fiorivano in quegli anni a Firenze, unite all’erudizione delle monache che abitavano il convento, furono certamente alla base delle scelte iconografiche adottate da Andrea del Castagno per questo refettorio.
Vale la pena ricordare che questi dipinti, trovandosi in un luogo di clausura, non avevano altro scopo che amplificare la sacralità di un rito e quindi del luogo dove questo si svolgeva. In quest’ottica l’eccezionale impianto prospettico dell’ultima cena era funzionale a rendere teatralmente più efficace la compenetrazione delle monache con i personaggi della scena affrescata. Il momento dell’Ultima Cena, derivante dal Vangelo secondo Giovanni (13, 21-26), è quello di massima tensione emotiva, successivo alla dichiarazione di Gesù dell’imminente tradimento da parte di uno dei dodici. Gli apostoli sono ritratti come filosofi dell’antichità, e si rapportano l’uno all’altro in un gioco di sguardi e con posture che ce li restituiscono in tutta la loro solenne e drammatica umanità. Al centro della tavola, che si staglia orizzontale nel biancore della tovaglia, campeggia il gruppo di Gesù, con san Pietro che interrogativo si sporge a cercare con lo sguardo qualcuno dei commensali alla sua sinistra, Giuda di spalle, ritratto di profilo, unico al di qua della mensa, e Giovanni “in deliquio” (Acidini), accasciato sul braccio di Gesù. Il terzetto Gesù-Pietro-Giuda è incorniciato da una misteriosa macchia di colore che risalta nel finto marmo della specchiatura policroma di fondo, carica di angelichiane suggestioni. A significare che questo nucleo racchiude il presupposto necessario allo svolgimento della storia dell’umanità. Ai lati della scena due sfingi delimitano, proteggendolo, lo spazio dell’azione sacra.

Con i due grandi affreschi che Domenico Ghirlandaio dipinse agli inizi degli anni Ottanta del XV secolo, per il cenacolo del convento francescano di Ognissanti e per quello di San Marco, architettura, natura e pittura iniziano a dialogare. La scena della crocifissione resta solo in quello di San Marco, nel crocifisso dipinto a secco sul pennacchio della volta, oggi quasi impercettibile. Le volte architettoniche reali delle sale continuano in quelle dipinte nell’affresco. Si viene così a creare l’effetto illusionistico di un’apertura verso l’esterno dell’ambiente chiuso dei due refettori, dove l’artista rappresenta un cielo su cui svettano le fronde degli alberi e volano numerosi uccelli.

Se in entrambi i dipinti del Ghirlandaio l’intera composizione appare chiara e misurata, presso i domenicani di San Marco le posture degli apostoli sono ancora trattenute ed essi appaiono isolati, mentre in Ognissanti una maggiore ricchezza e libertà di movimenti, anche se in un ritmo sempre lieve e cadenzato, ce li mostra relazionarsi gli uni con gli altri a coppie, consolidando una fortunata tradizione iconografica derivante dall’uso dell’epoca di servire a tavola su taglieri da cui due commensali vicini prendevano il cibo direttamente con le mani. Possibilmente attenendosi a una serie di regole di buone maniere, codificate alla fine del Duecento in appositi trattati come nel De Quinquaginta Curialitatibus ad Mensam di Bonvesin da la Riva e in altri testi già scritti, sempre in ambito monastico, a partire dal XII secolo.

L’influenza dell’arte fiamminga permette a Ghirlandaio di dare, in questi due grandi affreschi, ancora maggior risalto al simbolismo religioso, riconoscibile in ogni elemento della scena. Nello sfondo, cipressi, palme, e agrumi, tanto amati dalla famiglia Medici, sono legati rispettivamente al tema della morte, del martirio e del paradiso. Presenti anche tanti volatili con simbologie diverse collegabili sia alla violenta iniquità della crocifissione, sia all’immortalità dell’anima, come il pavone a San Marco, e al nuovo patto tra Dio e l’umanità, come la colomba a Ognissanti.
In San Marco, un gatto, nemico per antonomasia dei Domini canes, appare come allegoria del demonio accanto a Giuda, raffigurato di spalle, senza aureola, vestito tradizionalmente di giallo, l’unico ad indossare i calzari.
L’elemento simbolico è riscontrabile anche negli alimenti sulla tavola, coperta da una candida tovaglia in tela di Pienza con grifoni in Ognissanti e un’architettura con aironi a San Marco, sempre ricamati in blu a punto Assisi.

Pane azzimo, agnello, erbe amare e salsa charoset, che compongono ancora oggi le pietanze per la Pasqua ebraica e verosimilmente dovettero costituire l’ultimo pasto di Gesù con gli apostoli, non appaiono nei due dipinti e verranno sostituiti di volta in volta – qui come negli altri cenacoli fiorentini – con elementi simbolici o in accordo alle tradizioni alimentari del contesto in cui vivevano il pittore e la sua committenza.
Nei cenacoli di Ghirlandaio, accanto a pane acqua e vino vediamo: a San Marco ciliegie, che rimandano simbolicamente alla passione di Cristo ma che pure vennero offerte nel 1238 nel convento minorita di Sens ad apertura del pranzo per Luigi XI (Grieco); agrumi e lattuga in Ognissanti. Sempre presente l’importantissimo sale, bottiglie e bicchieri in vetro con vino bianco o rosso e acqua con cui lo si diluiva.
Va ricordato che il cenacolo di San Marco, non a caso adiacente alla foresteria, era destinato al consumo dei pasti degli ospiti, anche laici, presenti nel convento. Possiamo ipotizzare, quindi, da parte del pittore, oltre ad un intento didascalico, anche qualche concessione a virtuosismi pittorici come quello della trasparenza dei vetri.
Con la costruzione di questo secondo refettorio, a San Marco, si permetteva ai domenicani di consumare i loro pasti in appartato raccoglimento, nell’altro più grande refettorio.
Seguendo il rigido cerimoniale scritto nel De mensa et eius servitio, suonata la campana, dopo il lavaggio delle mani, ancora nella sala del lavabo, i frati, seduti su di una panca, recitavano insieme il De profundis, per poi entrare ordinatamente partendo dai più giovani, in fila per due, nel refettorio dove potevano accomodarsi solo dopo essersi inchinati e essersi fatto il segno della croce davanti all’immagine sacra.
Qui nel XVI secolo i frati, volendo ingrandire il refettorio in ragione della crescita del numero dei novizi, fecero abbattere la parete di fondo, sacrificando la Crocifissione dell’Angelico, definitivamente perduta, e commissionarono nel 1536 a Giovanni Antonio Sogliani un nuovo, grande affresco. Stando alle indicazioni dei religiosi, Sogliani dovette attenersi ad una composizione con il tradizionale impianto prospettico dell’ultima cena. Le figure del Cristo e degli apostoli sono però sostituite da quelle di San Domenico e i suoi confratelli, nel soggetto de La provvidenza dei Domenicani derivante dal racconto di Jacopo da Varazze, di quando, dopo un’infruttuosa questua, san Domenico si pose comunque lietamente a tavola insieme ai confratelli, ed essi furono ricompensati dall’arrivo provvidenziale di due sconosciuti recanti abbondante pane.
Ritorna, in questo ambiente di stretta osservanza tridentina e di savonaroliano rigore, l’immagine della Crocifissione nel registro superiore, con santa Caterina da Siena e sant’Antonino ai lati, e Maria e san Giovanni, ai piedi della croce, immersa in una luce livida e incorniciata da un’architettura di un classicismo monumentale, con sullo sfondo un ampio paesaggio in lontananza. Nel registro inferiore, in primo piano, due angeli giungono a portare il pane e il vino ai frati seduti in fiduciosa attesa, lungo un tavolo totalmente sgombro da cibo e su cui i bicchieri rovesciati ricordavano ai novizi il precetto di non bere finché non si avesse prima mangiato.

L’apertura verso uno sfondo ricco di dettagli naturalistici dalla valenza chiaramente simbolica nel cenacolo di Ghirlandaio, si va allargando verso un vero e proprio paesaggio, nello sfondo de L’ultima Cena che Perugino dipinse alla fine del ‘400, nel refettorio del convento delle terziarie francescane di Foligno, che si erano insediate presso il convento di Sant’Onofrio. Circa quindici anni separano questo grande affresco dai due precedenti omologhi di Ognissanti e San Marco, ma osserviamo che la scena è attraversata da un respiro molto più ampio di movimenti e sentimenti. Gli apostoli sembrano disporsi più liberamente nello spazio, con gesti meno trattenuti. La luce chiara, che inonda la tavola e le figure, è naturale, e sembra provenire direttamente dal paesaggio retrostante, incorniciato prospetticamente da un porticato in pietra finemente lavorato a grottesche. Piccole figure del Cristo orante e degli apostoli addormentati appaiono sullo sfondo, mentre a destra, sull’azzurrata lontananza della collina, si staglia la figura di un angelo in volo, recante il calice, connotando di iconografia evangelica questo particolare scorcio di natura caratterizzato da alcuni diafani alberi.
Allontanandosi dal centro di Firenze si trova il cenacolo del convento benedettino vallombrosano di San Salvi con l‘affresco ultimato nel 1526 da Andrea del Sarto.
Qui la tensione drammatica di Andrea del Castagno si scioglie; scompaiono sia l’equilibrio pacato del Ghirlandaio, sia la serena ariosità del Perugino.
La scena si richiude interamente all’interno di una sala da pranzo, dove la tensione tra gli apostoli si libera dai classici schemi compositivi e diventa palpabile. Svaniscono dallo sfondo ulteriori rimandi alla vicenda sacra. L’attualità del momento rappresentato è scenograficamente amplificata da un dettaglio inusuale e quasi spaesante in un soggetto sacro. Mezzo secolo prima del processo che Paolo Veronese dovette subire per la sua Ultima Cena straripante di dettagli e figure che esulavano dal racconto evangelico, Andrea del Sarto introduce due personaggi completamente estranei alla vicenda e che a questa sembrano partecipare solo come casuali spettatori, affacciati a guardare dalla loggia la scena sottostante.

L’efficacia del gioco prospettico e dell’effetto di trompe-l’oeil rendono questo dipinto di una modernità suggestiva e drammatica. Non solo dal punto di vista della storia dell’Arte.
Lo spazio si dilata. La separazione tra sacro e profano si riduce. Le due figure dei servitori, visti dal basso, invitano ad un’immedesimazione tra dipinto e chi lo osserva, mediata qui dalla forza dello sguardo esterno.
Ed è qui, forse, ancor più che negli altri cenacoli ispiratori di pace e raccoglimento, che può nascere una riflessione sulla nostra contemporaneità.
Un monito e una speranza: di inclusione e di riduzione della distanza tra chi, anche vicino a noi, vive in condizioni di isolamento e privazione. Con l’idea che con una diversa e più responsabile produzione e ridistribuzione delle risorse alimentari nel mondo, il divario tra chi ha cibo in sovrabbondanza e chi soffre la fame, possa davvero finalmente annullarsi.
Silvia Andalò
Per conoscere gli orari di apertura dei cenacoli sotto la direzione del Museo di San Marco, si rimanda alle info presenti qui.
Per saperne di più:
Luisa Vertova, I cenacoli fiorentini, Torino, ERI,1965
Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1982
Cristina Acidini Luchinat, Rosanna Caterina Proto Pisani (a cura di), La tradizione fiorentina dei cenacoli, Firenze, Cassa di Risparmio di Firenze, 1997
Lauretta Colonnelli, La tavola di Dio, Firenze, Edizioni Clichy, 2015
Paolo Rumiz, Il filo infinito, Milano, Feltrinelli, 2019