Il gesto di Pollock e il respiro di Rothko. Due artisti astratti in dialogo con Beato Angelico nel libro di Gregorio Botta

Ci sono legami che superano il tempo e lo spazio; comunanze inattese tra artisti lontani per provenienza, formazione e stile. Esiste la possibilità di rintracciare, negli antichi maestri del passato, se non un modello formale, un metodo, una tensione etica. Perché, a ben guardare, un flusso creativo ininterrotto, intergenerazionale, attraversa sottotraccia, come un fiume carsico, la storia dell’arte.

Gregorio Botta, giornalista, ex direttore di «Repubblica» e artista visivo, nel suo Pollock Rothko il gesto e il respiro edito da Einaudi Stile Libero, ha il merito di rendere intellegibile questo flusso creativo. E di raccontare come due linee opposte dell’astrattismo americano, incarnate da Jackson Pollock (1912 – 1956) e Mark Rothko (1903 – 1970), possano dialogare con un artista come Beato Angelico. Un frate pittore che, in virtù della sua leggendaria “aureola sopraterrestre”, per dirla con la Morante, crederemmo completamente estraneo al loro orizzonte culturale, a meno di compiere un “viaggio di fantascienza”; e che invece, da vero classico, continua a sorprenderci per la vitalità della sua fortuna visiva. Non solo presso gli artisti che gli rendono omaggi palesi, attingendo forme e suggestioni dai suoi dipinti più celebri, come Richard Hamilton, David Hockney, e soprattutto mounir fatmi, per rimanere ai più recenti e interessanti. Ma anche presso artisti che, con più discrezione e sottigliezza, ne hanno saputo assimilare l’eredità profonda, come Wolfang Laib che ha portato le sue installazioni di polline a San Marco nell’ottobre del 2019.

Wolfang Laib, Pollen from Dandelion, 25, 26, 27 ottobre 2019, Cella 1, Corridoio est, Museo di San Marco, Firenze

Ma torniamo al viaggio che l’autore ci fa fare per raggiungere l’Angelico nei ritiri celesti dove lui, beato, risiede. Per guidarci nel suo procedere per accostamenti e filiazioni, Botta convoca testimoni e connoisseur, biografi e galleristi famosi. Tra tutti, vale la pena di menzionarne almeno due: Toti Scialoja, pittore e intellettuale, maestro di Botta all’Accademia di Belle Arti di Roma, amico e conoscitore di Rothko, dedicatario di questo libro; e Giulio Carlo Argan, lo storico dell’arte che ebbe il privilegio di traghettare Rothko verso la pittura di Beato Angelico.

Seguendo lo stratagemma narrativo di due trame che si sviluppano in parallelo, a paragrafi alterni, Botta ci racconta con la spigliatezza del giornalista culturale e la naïveté dell’amatore, le vite intrecciate di Mark Rothko e Jackson Pollock, definendole “divergenze parallele”. E così come nel gioco delle analogie e differenze, quando si confrontino due figure tra loro antitetiche, accade che le analogie spesso eguaglino le differenze e magari le superino, in questo agile libro di 194 pagine, i due dioscuri della New York School, coloro che spostarono l’asse gravitazionale delle avanguardie artistiche da Parigi a New York, finiscono per avvicinarsi come non era mai successo prima. Infatti, pur essendo partiti entrambi come membri del gruppo The Irascibles, gli artisti che nel 1951 contestarono le scelte del Metropolitan Museum of Art in materia di arte contemporanea, pur condividendo amici, estimatori, gallerie d’arte, giudizi critici, mostre collettive e destino tragico, Pollock e Rothko non si incontrarono mai veramente.

Jackson Pollok, Number 11, 1952, tecnica mista, Canberra, National Gallery of Australia

Scelsero due strade espressive e poetiche dichiaratamente diverse. Pollock quella del dripping (letteralmente “sgocciolatura” del colore) «l’apoteosi del gesto, del movimento, della materia, della densità», la celebrazione dell’io, del joyciano stream of consciousness; prediligendo l’uso di vernici industriali, date con pennellate larghe e cariche. Rothko, quella dei color fields, «un inno alla contemplazione, al silenzio, al vuoto. Alla sparizione dell’io dal mondo»; sperimentando una pittura liquida e trasparente, usando, come un pittore quattrocentesco, pigmenti in polvere, triturati con il pestello in un mortaio di marmo, diluiti con l’olio e mescolati con l’uovo, anziché con le resine moderne.

 

Mark Rothko, Untitle Blue Yellow Green on Red, 1954

 

Eppure, malgrado l’inconciliabilità dei temperamenti e delle visioni, Botta individua una scaturigine comune ai due artisti: il convento di San Marco a Firenze. Un luogo più che un museo, dove l’arte dell’Angelico, soprattutto nel ciclo di affreschi del Dormitorio, si fa più intima e assorta perché destinata alla contemplazione dei suoi confratelli domenicani.

Per Rothko il gioco di rispecchiamenti col frate pittore è facilmente dimostrabile (si veda a tal proposito il saggio di Lorenzo Canova La notte oltre la materia. Mark Rothko e Beato Angelico, che già nel 2008 chiariva l’affinità elettiva tra i due artisti). Diverso il discorso per la pittura di Pollock, per cui Botta, citando il densissimo Beato Angelico, figure del dissimile di Georges Didi-Huberman del 1990, immagina una sorta di premonizione del dripping da parte dell’Angelico: ma è più una suggestione che una discendenza vera e propria.

Rothko a San Marco, il miracolo della luce

Rothko, racconta Botta, visitò il convento tre volte nella sua vita. La prima nel 1950, quando la sua pittura stava compiendo il passaggio cruciale dalle forme irregolari e dai colori accesi dei Multiformi ai grandi rettangoli elementari, dove è la luce, attraverso una leggera tessitura di velature, a determinare il colore. In quella prima visita, Firenze non lo impressiona molto: il Rinascimento, con i suoi cicli narrativi e le sue prospettive, non gli è congeniale. Finché non giunge a San Marco. Nel convento lo sguardo di Rothko trova la quiete: «trova la radicale essenzialità della pittura, trova soprattutto la luce, che sembra uscire dalle pareti e far vibrar lo spazio di ogni cella. Come nei suoi quadri. Trova insomma un maestro» (Botta, p. 15).

E riconosce un principio che diventerà centrale nella sua esperienza artistica: la stesura dei colori per strati sottilissimi. Un principio che Rothko definirà breathingness, respirabilità dei pigmenti tra loro e tra essi e la superficie che li accoglie; il muro per Angelico, la tela per Rothko.

«Non è solo la meraviglia della pittura tonale, pura luce, dell’Angelico a colpirlo: è che qui ogni cosa è all’esatta misura d’uomo cui lui aspira. Nella piccola cella la pittura occupa la giusta porzione di muro. È il pittore che decide dove dipingerla, a quale altezza: la sinfonia dei bianchi è tale che persino la tintura della parete intonacata sembra far parte dell’affresco. Tutto l’ambiente della cella è illuminato dall’arte. Tutto lo spazio diventa pittura. Qui il patto non scritto tra l’opera e il suo osservatore è davvero garantito» (Botta, p. 137).

Coglie cioè il rapporto di stretta continuità tra la qualità metafisica della luce degli affreschi del Beato e la misura umana dell’architettura di Michelozzo.

Tornerà a San Marco nuovamente nel 1959 e nel 1966, accompagnato da Giulio Carlo Argan. Lo storico dell’arte aveva pubblicato nel 1955 per Skira, in francese, Fra Angelico, una monografia che ebbe molta eco nel mondo artistico statunitense (in italiano fu pubblicata nel 1965).

Forse è utile rileggere come Argan descriveva il “problema della luce” nell’Angelico. Non come un fenomeno ottico ma, in una prospettiva tomistica, come un concetto teologico: «la luce non ha origine terrestre, è emanata dai corpi celesti; come tale non ha quantità, ma è qualità pura; quindi non può né graduarsi né propagarsi. […] Più precisamente, la luce non si propaga per onde multiple e successive come il suono; ma passa da un oggetto colorato all’altro. Ogni variazione dipende dal diverso grado di diafanità dei corpi che la ricevono». (Argan, p. 20).

E ancora più avanti: «È chiaro infatti che, essendo la luce di origine celeste, la sua presenza sulla terra ha una sua ragione provvidenziale: è la luce che ci permette di vedere la natura, ma è anche la luce che purifica la nostra esperienza sensoria, restituisce alle cose create la loro originaria perfezione, ristabilisce una piena armonia tra ciò che è terrestre e ciò ch’è celeste. La natura perfetta, quella che Dio ha creato, non può che essere totalmente luminosa; e la pittura, che deve ritrovare la figura di quel mondo edenico […] non può essere se non il processo attraverso il quale la veduta oggettiva si trasforma in visione luminosa» (Argan, p.21).

Fu proprio grazie a questa monografia che Rothko volle conoscere Argan. L’incontro tra lo storico dell’arte italiano e Rothko ha un che di inevitabile, di karmico. Ma si fondava anche su solidi presupposti teorici: Argan considerava l’artista americano come uno dei maggiori interpreti contemporanei di una visione dell’arte in cui pittura e architettura potevano trovare una sintesi, mediante un continuo e reciproco scambio di esperienze. È Argan a spiegare a Rothko la complessità del pensiero tomistico e della disciplina domenicana. È Argan a insistere sul valore intellettuale, conoscitivo dell’arte dell’Angelico. La scoperta degli affreschi di San Marco, e cioè di un’arte che non deve produrre l’ammirazione di un pubblico indifferenziato, come una sacra rappresentazione di una Pala d’Altare, ma suscitare la meditazione di un interlocutore “iniziato”, lo confermerà nell’idea che «un quadro vive di compagnia, espandendosi e vivificandosi negli occhi di un osservatore sensibile» (Rothko su «Tiger’s Eye», 1947, cit. in Botta, p. 136).

In più la ricerca dell’essenziale, l’idea di una pittura spogliata del superfluo, di un’arte che rivendica la sua funzione “euristica” in senso platonico, cioè capace di reinventare la realtà più che imitarla, è esattamente nelle corde di Rothko: «Il percorso di un pittore deve essere verso la chiarezza, verso l’eliminazione di tutti gli ostacoli tra il pittore e l’idea, e tra l’idea e l’osservatore» (Rothko, cit. in Botta p. 105).

Botta si sofferma sull’Annunciazione della cella 3, come esempio di purezza e rarefazione. Al centro della scena non c’è più una colonna, non c’è più nemmeno un vaso di fiori. Nessun Paradiso terreste si intravede di lato, e l’hortus conclusus del Cantico dei Cantici è condensato in una macchia di colore verde, fuori dal portico. A sinistra, un discreto San Pietro Martire medita sul mistero dell’Incarnazione, proprio come era chiamato a fare l’abitatore della cella. Assistiamo a una rivoluzione iconografica: niente qui separa l’umano dal divino, l’Angelo e la Vergine condividono lo stesso spazio, «c’è solo un grande bianco fra di loro. È la luce che si sparge sulla parete di fondo, emanata dall’angelo per illuminare Maria. […] Qui la scena si svolge in silenzio, perché è la luce a parlare, protagonista assoluta in quanto segno inequivocabile della presenza divina: e fa lasciare una tenue ombra sul pavimento all’etereo corpo dell’angelo e un’ombra molto più scura al corpo fisico di Maria» (Botta, pp.13-14). Economia di mezzi, luminosità, ricerca dell’assoluto sono tutti temi angelichiani che Rothko assorbirà e declinerà secondo la propria sensibilità. Già nel 1947, in «Possibilities», Rothko scriveva: «Lo strumento più importante di un artista […] è la sua fede nell’abilità di produrre miracoli. I quadri devono essere miracolosi, […] devono essere una rivelazione, una risposta inaspettata e senza precedenti a un eterno bisogno umano» (Rothko in «Possibilities», 1947, cit. da Botta, p. 99).

La lezione di San Marco, connubio tra architettura e pittura, sarà un viatico per due progetti fondamentali della carriera di Rothko. Uno è l’ambizioso progetto dei Seagram Murals, una serie di quadri per il ristorante del Four Season all’interno del Seagram Building di New York; l’occasione della vita di creare con le sue opere un luogo. Progetto cui rinuncerà quando si convincerà che i ricchi clienti del ristorante, ricchi oltre ogni ragionevole decenza, non potranno mai comprenderne il senso (oggi, per volontà dell’artista, i Seagram Murals sono esposti nella Tate Gallery di Londra).

 

L’altro è la Rothko Chapel a Huston, commissionatagli nel 1964 dai coniugi francesi, trapiantati in Texas, John e Dominique de Menil. Un santuario in cui, come c’è scritto nel sito, ciascuno può trovare il suo posto (Find your place). Nato come luogo di preghiera cattolico è infatti col tempo divenuto aconfessionale. Nonostante per il progetto fosse stato incaricato l’archistar Philip Johnson, il tempio, a pianta ottagonale come il Battistero di Firenze, è a immagine e somiglianza di Rothko. Sui lati del poligono l’artista prevede di collocare quattordici grandi tele, nove delle quali compongono tre trittici monocromi. Ma solo apparentemente: in realtà, se osservate con attenzione e intenzione, le tele rivelano tutta la complessità di un tessuto cromatico ricco di sfumature di viola, rosso e nero. Rothko morirà suicida nel 1970, prima di vedere completata la Cappella che quest’anno, infatti, compie 50 anni.

Rothko Chapel, Huston

 

Pollock e San Marco, le macchie e la “semina”

Altro tipo di considerazioni, e un sforzo di immaginazione, richiede il rapporto tra Pollock e l’Angelico. L’artista non visitò mai l’Europa, nonostante le sue opere viaggiassero molto e venissero esposte in importanti mostre, personali e collettive. Eppure, scrive Botta, «se avesse messo piede a San Marco avrebbe potuto anche lui trovare un’ispirazione e una straordinaria sintonia con un maestro di seicento anni più vecchio di lui. Forse lui sarebbe riuscito a vedere cosa contenevano quei quattro marmi finti dipinti dall’Angelico sotto la Madonna delle ombre, l’altro grande affresco del corridoio del piano superiore» (Botta, p. 16).

 

Beato Angelico, Dettaglio dei finti marmi, Corridoio est, Museo di San Marco, Firenze

 

I quattro marmi finti cui si riferisce Botta sono uno degli enigmi più affascinanti del ciclo angelichiano di San Marco. Che in un convento di domenicani dell’osservanza, per statuto fedeli alla regola della “povertà volontaria” di San Domenico, compaiano dei finti marmi sotto una Sacra Conversazione, stupisce ma non deve farci trasalire. L’uso del finto marmo non poteva avere qui una funzione mimetica. Niente a San Marco, nell’etica domenicana come anche nell’estetica architettonica di Michelozzo, richiedeva il lusso di marmi preziosi. Va bene il patronato mediceo sull’intero complesso conventuale, ma qui non siamo nella Cappella dei Principi a San Lorenzo, completamente rivestita di marmi e pietre dure.

Allora perché il pio e devoto artista predicatore li dipinge proprio lì?

Riprendiamo Didi-Huberman, il primo a essersi interrogato seriamente su queste specchiature marmoree, indagandone i significati iconologici, laddove gli storici dell’arte si concentravano solo sulla Madonna con Bambino tra Santi del registro superiore.

«Sono dipinti a fresco, con un primo passaggio di colori dominanti effettuato con ampi gesti di spazzola e di pennello; è quello che si definisce il letto dei colori. Alcuni vaghi contorni, molto larghi, indicano un’idea di alveolazione, nemmeno di venatura. Al di sopra il pittore ha letteralmente proiettato, a distanza, una pioggia di macchie multicolori che formano sulla superficie non quello che i marmisti chiamano granitè una grana uniforme, bensì una disseminazione del tutto irregolare, una macchiettatura in cui si distinguono, qua e là, delle irregolarità, delle irruzioni di bianco puro […]. Se evoca un dripping alla Jackson Pollock più di qualsiasi altra costruzione narrativa o prospettica del Rinascimento, è perché tende a oscurare qualsiasi aspetto di mimesi dell’aspetto, del motivo, per mettere in primo piano, e con violenza, l’esistenza materiale dell’indizio, della traccia pittorica. Pertanto, quando la si guarda per più di un istante, quella vasta superficie variopinta che si estende su quasi tre metri di larghezza non rappresenta più finti marmi, ma si presenta piuttosto per quello che effettivamente è su quella parete: pittura pura, pittura non finta» (Didi-Hubermann, pp. 46-48).

Jackson Pollock, No 5, 1948

C’è un’immagine molto efficace nel libro di Botta che descrive il dripping: il gesto fluido, danzante di Pollock che dipinge in piedi, facendo colare il colore sulla tela adagiata a terra: «Sul pavimento mi sento più a mio agio, più vicino, più parte del quadro, perché in questo modo posso camminarci intorno» (Pollock in «Possibilities», 1947, cit. in Botta, p. 118). Non è tanto il gesto di uno sciamano – alla critica piace raffigurare Pollock come un artista sciamano – ma di un contadino che semina il colore sul campo. Un gesto che Pollock, secondo Botta, avrà visto fare innumerevoli volte a suo padre, che era agricoltore nel Wyoming.

 

Ebbene, lo stesso gesto della semina del colore ha un significato evangelico, nella pittura di Beato Angelico. Nel Vangelo secondo Giovanni, la semina e la mietitura, come accadeva in Palestina, sono azioni distinte nel tempo, ma la gioia dell’opera compiuta accomuna le due azioni, come a significare che il Regno è ormai in atto: «non dite voi: Ancora quattro mesi e viene la mietitura? Ecco, vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che biancheggiano per la mietitura. Il mietitore già riceve il salario e raccoglie il frutto per la vita eterna, affinché il seminatore gioisca insieme al mietitore. In questo è vero il detto: Altri semina e altri raccoglie. Io vi ho mandati a mietere dove non vi siete affaticati, altri si sono affaticati e voi siete entrati nella loro fatica». (Giov. IV, 35-42, trad. Giancarlo Gaeta). E, dunque, al netto di tutte le considerazioni che si possono fare sulle fonti di Beato Angelico, da Ambrogio Traversari allo Pseudo Dionigi l’Areopagita, fondamentali per l’iconografia dei finti marmi, perché non considerare quegli spruzzi di colore come l’immagine della presenza di Cristo, assolutamente disseminata, evocata nel Vangelo di Giovanni?

Chissà se Angelico si vedeva come un artista seminatore, come un action painter ante litteram, mentre proiettava il colore sulle pareti del corridoio est di San Marco.

Beato Angelico, Pala di Bosco ai Frati, Sala del Beato Angelico, Museo di San Marco, Firenze (in restauro)
Beato Angelico, Incoronazione della Vergine, Sala del Beato Angelico, Firenze

 

Comunque si vedesse, la rappresentazione del finto marmo attraversa tutta la sua pittura, non solo quella a fresco di San Marco. Si pensi alla Pala di Bosco ai Frati, o all’Incoronazione della Vergine del Louvre e del reliquiario di Santa Maria Novella a San Marco, fino al retro del dittico di Forlì con la Natività e l’Orazione nell’orto. In quest’ultimo, dietro ciascuna tavola, le immagini aniconiche dei finti marmi ritornano evidenti, in formato ridotto, opponendo alle chiare figure anteriori la stessa opacità misteriosa che i finti marmi di San Marco oppongono alle chiare figure della Madonna delle ombre. Come se il dripping fosse un modo di significare la trascendenza abbondantemente collaudato dall’Angelico. Come se l’artista non resistesse al piacere di concedersi, appena poteva, una pittura più astratta e gestuale.

 

Beato Angelico, Natività e Orazione nell’Orto, Musei di San Domenico, Forlì

 

Qualunque cosa ne pensiate, scrive Botta, è bello credere che un luogo così prezioso come il convento di San Marco, un vero scrigno pieno di gioielli, contenga i semi di tanta, e così diversa, pittura futura. Viene naturale immaginare, proseguendo la metafora agricola, che l’eredità di Angelico si sia diffusa per disseminazione spontanea, spargendosi anche Oltreoceano e intercettando vocazioni e ispirazioni così diverse dalla sua. La misura di Rothko e la dismisura di Pollock, l’amor vacui e l’horror vacui, il lavoro per sottrazione e quello per accumulazione.

Il libro di Botta inaugura la collana Stile libero Versus di Einaudi. Una collana di confronti e avvicinamenti tra personaggi distanti e complementari tra loro. È un libro piccolo che con semplicità, umiltà e chiarezza avvicina il lettore all’arte, in un momento in cui l’arte sembra un bene non essenziale e in cui, ancora di più che in passato, si avverte da molte parti la necessità di una democrazia della conoscenza, praticata senza sussiego ma anche senza banalizzazioni.

Carmelo Argentieri

 

 

Per saperne di più:

Gregorio Botta, Pollock Rothko, il gesto e il respiro, Torino, Einaudi, 2020

Geogers Didi-Huberman, Beato Angelico. Figure del dissimile, Milano, Abscondita, 2009

Lorenzo Canova, La notte oltre la materia. Mark Rothko e Beato Angelico, in Alessandro Zuccari (a cura di), Angelicus Pictor. Ricerche e interpretazioni sul Beato Angelico, Milano, Skira, 2008, pp. 293-307

Magnolia Scudieri e Giovanna Rasario (a cura di), La Biblioteca di Michelozzo a San Marco tra recupero e scoperta, Giunti, Firenze, 2000, pp.60-62

Giulio Carlo Argan, Fra Angelico, Skira, 1965

 

Un commento

  1. Un’articolo molto suggestivo. La Rothko Chapel e le opere di Beato Angelico sono stati due delle più belle esperienze della mia vita. Non avevo mai pensato ad associarle però…
    Grazie mille quindi per il vostro bello lavoro che, tracciando dei fili invisibili, ci rende ogni volta un po’ più sensibili.
    Non mollare!

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