Dalla Sala del Beato Angelico, accanto all’ingresso del Museo, fino al corridoio della Foresteria che porta all’uscita, un ardito fil rouge iconografico ci invita, seguendolo, a soffermarci su alcune opere molto diverse tra loro.
Differenze tali da creare un effetto quasi stridente tra un immenso capolavoro rinascimentale e un’opera ottocentesca di un pittore poco noto. Un’occasione ulteriore per approfondire la conoscenza del Museo di San Marco con una riflessione sulla musica, a cui esprimere sempre profonda gratitudine.
“Du holde Kunst, ich danke Dir!” (Arte meravigliosa, ti ringrazio!)
Franz von Schober
La musica è probabilmente la forma d’arte più legata alla sacralità. Forma e sostanza di ogni rito religioso, apollineo o dionisiaco. Ritmo e intonazione di ogni preghiera, è da sempre stata avvertita come mezzo privilegiato per avvicinarsi a Dio, in ogni sua manifestazione.
Rapporti matematici che regolano le leggi dell’armonia, conosciuti e stabiliti nell’antichità classica, hanno posto nel Medioevo la musica nell’ambito della speculazione intellettuale più alta e astratta, ben oltre l’espressione di emozioni o forme di diletto a cui oggi abitualmente la si associa.
Non stupisce, quindi, che anche filosofi e teologi tardoantichi come Severino Boezio e Sant’Agostino teorizzassero il concetto della musica come elemento divino.
Una delle Opere più importanti dell’Angelico è senza dubbio il Tabernacolo dei Linaioli, oggi ammirabile in tutto il suo splendore grazie alla nuova illuminazione della Sala del Beato Angelico.

Lia Brunori in Gli Angeli musicanti: un tema ricorrente, scritto in occasione del restauro del Tabernacolo, analizza il rapporto evidente tra il testo del Salmo 150 e l’iconografia degli Angeli musicanti, rilevando l’inequivocabile valenza simbolico-religiosa di ogni singolo strumento.
Laudate eum in sono tubae,
laudate eum in sono psalterio o cithara,
laudate eum in sono tympano et choro,
laudate eum in sono chordis et organo,
laudate eum in sono cymbalis bene sonantibus,
laudate eum in sono cymbalis iubilationis
In quelle che ad un primo sguardo potrebbero apparire solo dodici soavi figure decorative, osservate attraverso il filtro dei testi sacri, della devozione mariana, del pensiero di Agostino e Tommaso d’Aquino, si profila un rimando palese non solo alla particolare sensibilità dell’Angelicus Pictor, ma anche alla sua dotta cultura filosofica e religiosa.

Padre Michael Dunleavy, esperto di liturgia domenicana, durante la conferenza-concerto The sound of Silence tenutasi il 20 febbraio 2015 per la riapertura della Biblioteca michelozziana, chiarì che la liturgia, “la preghiera in musica”, è fondamentale nell’ordine domenicano. E fu emozionante sentire prendere vita, nella voce dei frati cantori, le antiche note segnate sui tetragrammi dei codici miniati anche dall’Angelico. Testimonianza sonora e non più solo visiva della fusione profonda tra arte e spiritualità.

Ma se nel Quattrocento la musica religiosa era ancora quasi esclusivamente vocale, l’iconografia degli Angeli musicanti ce li rappresenta intenti a suonare diversi strumenti. E’ quindi particolarmente interessante la lettura che Gabriele Rossi Rognoni fa degli Angeli musicanti dipinti dall’Angelico attorno alla Madonna in trono nel Tabernacolo. Non più solo raffinatissimo esempio di una tradizione iconografica risalente al Medioevo.
Partendo dall’analisi puntuale degli strumenti musicali, Rossi Rognoni attesta che la cura e la verosimiglianza con cui Angelico li rappresenta, suggerisce che la loro posizione attorno alla Vergine non sarebbe casuale: «la situazione cambia radicalmente se, anziché considerare i dieci strumenti come gruppo unitario, se ne isolano dei gruppi individuando tre fasce orizzontali, così costituite (dall’alto al basso): 1. quattro angeli con organo portativo, cimbali, ribeca e salterio; 2. quattro angeli con tromba a esse, tromba da tirarsi e due tamburi a cornice; 3. una bombarda e un flauto a tamburino» (Rossi Rognoni, pp. 43-44).


Per lo storico della musica tutti e tre i gruppi di strumenti sarebbero perfettamente coerenti con la prassi esecutiva del tempo. Partendo dall’alto, dal primo gruppo di strumenti «dal suono tenue e tintinnante» e tra loro «legati a una simbologia sacra», al secondo «dal suono fragoroso e percussivo», all’ultimo in basso, formato da due strumenti «dal suono forte e penetrante, destinati alla danza all’aperto e quindi legati alla corporeità, due strumenti, insomma, di rango certamente inferiore e fortemente legati al mondo terreno. Così ripartiti, quindi, gli strumenti del Tabernacolo dei Linaioli illustrano efficacemente, attraverso la musica, un percorso di emancipazione dalla condizione terrena, attraverso la gloria, alla musica spirituale e, infine, alla pura contemplazione in preghiera o, secondo le teorie sistematizzate da Severino Boezio, alla musica delle sfere la quale, generata dalla rotazione dei pianeti, non è percepibile all’orecchio umano» (Rossi Rognoni, p. 44).
Nel Libro terzo de Le Consolazioni della filosofia, scopriamo che le ultime rime di Severino Boezio sono dedicate a Orfeo.
Il mitico cantore che non ha usato la sua arte per elevarsi, ma che anzi, per tentare di riportare in vita l’amata Euridice, fallisce, non riuscendo a rispettare l’unico divieto impostogli come condizione: non girarsi a guardarla prima di averla portata fuori dal regno degli Inferi. Orfeo contravviene all’ordine, perdendola per sempre.
Come gli Angeli musicanti ci mostrano un possibile percorso di elevazione verso il divino attraverso il progressivo distacco da ogni attaccamento terreno, così Boezio ci indica in Orfeo il destino inevitabile di chi, rivolgendo il proprio amore ai soli affetti mondani, è condannato a perderli e dannarsi.
Cercate alzarvi, sguarda
Ché chi da reo costume
Vinto rivolge i suoi
Occhi alla terra, e le vil cose guarda,
Tutto quel che risguarda
Di bello e buon lassuso
Perde, come quaggiuso
Torce la vista; e vede
L’inferno: onde al suo ben giammai non riede.
(Severino Boezio, Della consolazione della filosofia, Libro terzo, XII, 66-78, traduzione dal latino di Benedetto Varchi, 1551)
Orfeo visto, quindi, come figura esemplare dell’inutilità di ogni talento, seppur prodigioso, che non sia finalizzato al tentativo di avvicinamento a Dio.
Alla fine del corridoio del Museo di Firenze Antica, si trova il grande Portale dell’Arte dei Linaioli per cui l’Angelico aveva dipinto il Tabernacolo, proveniente dall’edificio di Piazza Sant’Andrea.
Sulla stessa parete lo sguardo è attratto da uno strano dipinto esposto in alto a sinistra, sopra l’ultima finestra della Foresteria.

Si tratta di un affresco staccato attribuito a Luigi Catani (Prato, 1762 – Firenze, 1840), databile agli inizi del XIX secolo e proveniente dal soffitto di una sala del Palazzo dello Strozzino. Edificio a cui avrebbe lavorato il giovane Michelozzo e che dopo esser stato palazzo signorile degno di fronteggiare Palazzo Strozzi, fu parzialmente demolito nell’Ottocento e trasformato, all’inizio del Novecento, nell’attuale cinema teatro Odeon.
Catani, la cui opera più nota è L’educazione di Giove a Palazzo Pitti, molto attivo nella decorazione di palazzi privati ed edifici pubblici in tutta la Toscana, si era specializzato in soggetti allegorico-mitologici.
Il tema di questo grande affresco (cm 200×300) non è di immediata identificazione. Ormai vicini all’uscita del Museo, la scena sembra volerci preparare ad abbandonare l’incanto mistico del luogo, per affrontare nuovamente caos e difficoltà della vita cittadina.
L’immagine che ci appare è quella di un uomo disteso a terra su cui infieriscono delle donne armate di aste e bastoni.
Si tratta di Orfeo ucciso dalle Baccanti.

Il racconto della morte di Orfeo, attestato, con alcune varianti più o meno cruente e con valenze “di genere”, da Euripide, Fanocle, Virgilio e Ovidio, racconta che durante un rito dionisiaco le Baccanti, discepole del Dio dell’ebbrezza Dioniso, uccidono Orfeo perché, ancora disperatamente fedele al ricordo dell’amata Euridice, disdegnava ogni altro (stando a Fanocle, muliebre) amore.
Come riassume Poliziano:
Orfeo cantando all’Inferno la tolse,
ma non poté servar la legge data,
ché ‘l poverel tra via dietro si volse
sì che di nuovo ella gli fu rubata:
però ma’ più amar donna non volse,
e dalle donne gli fu morte data.
(Poliziano, La favola di Orfeo)
Se Virgilio nelle Georgiche sintetizza il racconto della morte di Orfeo col particolare derivante dai riti dionisiaci del corpo fatto a pezzi e sparso per i campi:
Indarno a lui sprezzate nozze offriro
Le tracie donne, che a vendetta mosse
Da’ suoi rifiuti, e da furor sospinte
In mezzo a i sagrificii a le notturne
Orgie di Bacco il trucidar, spargendo
Pei vasti campi i lacerati membri.
(Virgilio, Georgiche, IV, 760, traduzione dal latino di Clemente Bondi, 1801)
Ovidio nel XI canto de Le metamorfosi si sofferma lungamente sulla scena dell’uccisione di Orfeo da parte delle donne trace seguaci di Dioniso.
Ma cresce ogni hor la temeraria guerra
De l’insolente orgoglio baccanale.
Questa una gleba, e quella un sasso afferra,
Poi fa, che contra Orfeo dispieghin l’ale.
Ben fatto ei loro havria cadere in terra.
(Ovidio, Le metamorfosi, XI, 49-53, traduzione dal latino di Giovanni Andrea dell’Anguillara, 1561)
Nel dipinto di Catani, però, non traspare granché della sensibilità di Ovidio, per il quale solo il frastuono degli strumenti del rito impedisce ad Orfeo di ammansire con la sua musica le Baccanti e perfino i tirsi e i sassi, da cui viene colpito a morte.
L’orgoglio co’l suo canto alto, e immortale;
Ma le trombe, i tamburi, i gridi, e l’armi
Muta fecer parer la cetra, e i carmi.
(Ovidio, Le metamorfosi, XI, 54-56)
È probabile, quindi, che a ispirare la scena al toscano Catani, sia stato proprio Angelo Poliziano che tra il 1479 e il 1480 scrive La Fabula di Orfeo, opera teatrale che finisce con le Baccanti che, dopo aver ucciso l’infelice amante, intonano inni a Dioniso.
Ecco quel che l’amor nostro disprezza!
O, o, sorelle! O, o, diamoli morte!
Tu scaglia il tirso; e tu quel ramo spezza;
tu piglia o sasso o fuoco e gitta forte;
tu corri e quella pianta là scavezza.
O, o, facciam che pena el tristo porte!
O, o, caviangli il cor del petto fora!
Mora lo scelerato, mora! mora!
(Poliziano, La fabula di Orfeo)
Sul piano formale la composizione del dipinto si regge, dal punto di vista cromatico, sul rosso del mantello di Orfeo, al centro in basso, e sul giallo della veste di una delle due Baccanti in primo piano. I due colori spiccano nel gioco uniforme di bianchi e marrone chiaro, predominanti nel terreno, nell’incarnato e nei pepli delle altre donne. Sullo sfondo si intravede il verde sfumato del vicino boschetto. Le figure femminili, protese a colpire Orfeo, sono rappresentate in pose plastiche, seppur concitate, accentuate dalle linee convergenti dei bastoni e delle aste che da entrambi i lati scendono diagonalmente verso il centro della scena, a colpire l’uomo che cade sotto i colpi. In primo piano, in basso a destra, a terra accanto a lui, la corona di alloro e la cetra. Il piede di una possente gamba in primo piano schiaccia brutalmente la mano di Orfeo che fino a poco prima, tenendo la cetra, ne accompagnava il canto.
Difficile non pensare a Victor Jara (San Ignacio, 1932 – Santiago del Cile, 1973), compositore e grande chitarrista cileno, al quale, prima di essere ucciso dai militari golpisti di Pinochet, vennero spezzate le mani.

Dal V sec a.C., con le tragedie di Euripide, al XX con i film di Jean Cocteau, passando da Gluck che col suo fortunatissimo melodramma, forma artistica nata proprio a Firenze, gli diede immensa popolarità, il mito di Orfeo, che incarna la potenza ammaliatrice della musica, ha attraversato indenne i secoli in modo trasversale a tante forme d’arte.
Ma se Boezio, santificato da Leone XIII nel 1883, non si commuoveva affatto per le tristi vicende del mitico cantore, oggi possiamo confidare nella benevolenza dell’Angelico. Beatificato da Papa Giovanni Paolo II nel 1982 e divenuto protettore di tutti gli artisti nel 1984, possa Beato Angelico intercedere, per noi, tutti fragili ostaggi degli affetti terreni, ma soprattutto, oggi più che mai, a sostegno di chi per e della musica vive.
Silvia Andalò
Per saperne di più:
Maria Sframeli (a cura di), Il centro di Firenze restituito, Firenze, Bruschi, 1989
Angelo Poliziano, Stanze Orfeo Rime, Milano, Garzanti, 1992
Marcello Vannucci, Splendidi palazzi di Firenze, Firenze, Le Lettere, 1995
Joan Jara, Victor Jara una canzone infinita, Milano, Sterling e Kupfer,1999
Lia Brunori, Gli Angeli musicanti: un tema ricorrente, in Marco Ciatti e Magnolia Scudieri (a cura di), Il Tabernacolo del Beato Angelico restaurato: restituzioni 2011, Firenze, Edifir, 2011
Gabriele Rossi Rognoni, Strumenti musicali e Angeli musicanti nel Tabernacolo dei Linaioli: una proposta di interpretazione, in Marco Ciatti e Magnolia Scudieri (a cura di), Il Tabernacolo del Beato Angelico restaurato: restituzioni 2011, Firenze, Edifir, 2011
Grazie per questa lettura delle opere e l’ interpretazione dei messaggi che esse comunicano.Sempre da rivedere e guardare con occhi ” nuovi”.
"Mi piace""Mi piace"