Se la ricerca dell’assoluto, nel bene e nel bello, del giovane Lorenzo Milani non avesse trovato nella fede il suo sbocco naturale, forse oggi non parleremmo di un grande sacerdote, appartenente a buon diritto alla tradizione apocalittica e profetica di religiosi alla Girolamo Savonarola; o del “maestro di Barbiana” della Lettera a una professoressa, ancora indigesto a molti; o di uno straordinario, torrenziale scrittore epistolare; piuttosto parleremmo di un artista.
Magari un artista come Hans-Joachim Staude, suo insegnante a Firenze prima dell’iscrizione all’Accademia di Brera, capace di sacralizzare la realtà circostante e di rappresentare un individuo con la stessa profondità con cui Giotto dipingeva un santo. O ancora – a costo di scandalizzare chi è convinto che la storia non si faccia con i “se” – se dopo essersi fatto prete, nella radicale rinuncia al suo passato di privilegio, non avesse rinnegato anche la pittura, almeno come esercizio individualistico non come materia di insegnamento, forse oggi ci riferiremmo a lui come a un artista religioso, un Lorenzo Monaco o un Fra Angelico del Novecento.
Il 2017 è indubbiamente l’anno di don Milani. Tutti i suoi scritti, anche quelli finora inediti, sono entrati nel pantheon dei Meridiani Mondadori, in due volumi curati da Federico Ruozzi, Anna Canfora, Valentina Oldano e Sergio Tanzarella; Walter Siti gli ha dedicato il suo ultimo straziante e controverso romanzo Bruciare tutto (“All’ombra ferita e forte di don Lorenzo Milani”); Michele Gesualdi, uno dei “figlioli” di Barbiana e presidente della Fondazione don Lorenzo Milani, ha pubblicato il resoconto definitivo dell’esilio a Barbiana, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana; sulla sua esperienza pedagogica è uscito anche un racconto splendidamente illustrato, Il maestro, di Fabrizio Silei e Simone Massi. Per citarne solo alcuni.
Tra le tante pubblicazioni uscite in occasione del cinquantenario della sua morte, alcune agiografiche, molte celebrative o di mera convenienza, Lorenzo Milani. L’artista che trovò Dio, di Valentina Alberici, è quella che con maggiore puntualità e devozione ricostruisce gli anni che precedettero l’ingresso in seminario. Gli anni della conversione, nel travaglio di una ricerca inquieta, avvenuta per prova ed errore e non improvvisamente nel 1943, come vuole una certa vulgata su don Milani, a seguito dell’incontro con don Raffaele Bensi.
L’incontro con Hans-Joachim Staude
La storia è nota e Valentina Alberici la ripercorre in tutte le sue tappe. Lorenzo Milani, appena terminato il Liceo Classico Berchet a Milano, dove la famiglia si è trasferita da Firenze a causa del lavoro del padre, dirigente d’industria, decide di non proseguire gli studi universitari per dedicarsi alla pittura. La decisione non viene accolta serenamente in famiglia. I genitori, Albano Milani Comparetti e Alice Weiss, si rivolgono al professor Giorgio Pasquali, che già in passato, durante gli studi liceali, era stato chiamato in soccorso del figlio ribelle in altri momenti di difficoltà. Avere Giorgio Pasquali, filologo di chiara fama, come professore da cui prendere ripetizioni e consigli, era come avere in casa Gianfranco Contini o Tullio De Mauro, per intendersi. Questo la dice lunga sul prestigio della famiglia Milani Comparetti, con addentellati e legami sia con il mondo accademico italiano, da parte di padre (il suo bisnonno Domenico Comparetti era un filologo, grecista e latinista, senatore del Regno; suo nonno Luigi Adriano Milani era docente di numismatica e archeologia, fondatore del Museo Archeologico di Firenze; suo padre Albano era un eminente chimico con interessi umanistici); sia con il mondo psicanalitico e letterario mitteleuropeo (Svevo, Joyce, Freud), da parte di madre, ebrea boema cresciuta a Trieste e poi trasferitasi con i suoi a Firenze dopo la Grande Guerra.
Giorgio Pasquali, dunque, indica alla famiglia un artista molto stimato, un maestro nel pieno della sua carriera artistica, Hans-Joachim Staude. Tedesco, di scuola steineriana, Staude si era stabilito a Firenze perché innamorato dell’arte rinascimentale e del paesaggio toscano, nella loro sintesi di luce e colore. A bottega da Staude in via dei Serragli Lorenzo apprende i rudimenti tecnici del disegno, della pittura e, soprattutto, a riconoscere l’essenziale, a leggere le immagini nella loro interezza e simultaneità, nella loro Gestalt. Il giovane Lorenzo segue gli insegnamenti del maestro con un impegno che lo stesso Staude definisce «memorabile». È attento, meticoloso, instancabile, ansioso di imparare rapidamente. Eppure, qualcosa gli manca. Staude intuisce che la pittura non è esattamente l’orizzonte spirituale verso cui aspira: «Aveva capito tutto intellettualmente, ma gli mancava un’immediatezza […] Io non ho creduto, neanche per un momento, che la pittura fosse la sua strada», dichiara a Neera Fallaci, autrice della prima biografia su don Milani, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani (1977).

Quando la famiglia Staude si trasferisce temporaneamente ad Arolo, sul Lago Maggiore, Lorenzo si aggrega e vi trascorre l’estate; qui continua a dipingere accanto al maestro. Ai momenti di pittura su cavalletto, si alternano momenti in famiglia, conversazioni, letture, giochi. Sembra allegro, ma nelle lettere a Oreste Del Buono, suo ex compagno di liceo, scrittore, noto anche per essere stato il direttore del mensile Linus, scrive di sentirsi tremendamente solo: «Sai come andava quando ero ancora a Firenze? Ero così solo che non potevo dormire allora vagavo per la città finché arrivavo a sedere sulla ringhierona di Piazzale Michelangelo. Dicevo a Dio che doveva mandarmi un pittore della mia età. Dicevo: “Fratellino, se non me lo mandi sei una vacca. Beh insomma se non me lo mandi almeno fammi piangere”». In un’altra lettera a Del Buono, sempre da Arolo, parlando del suo futuro d’artista dichiara che, una volta a Firenze, si aprirà uno studio tutto suo.
Invece, in modo del tutto intempestivo, al ritorno dal Lago lascia Firenze e torna a Milano, dove si iscrive all’Accademia di belle arti di Brera.
Il congedo da Staude è definitivo. Lorenzo lo contatterà solo dopo che è entrato in seminario, alla fine della guerra e, successivamente, da sacerdote, lo inviterà nelle sue scuole a Calenzano e Barbiana per tenere delle lezioni di musica su Bach. Staude era anche un pianista eccezionale e don Lorenzo non si lascerà sfuggire l’opportunità di avere per i suoi ragazzi un didatta tanto appassionato ed eclettico. Quando Staude gli chiederà conto della sua scelta di entrare in seminario, don Milani gli risponderà: «È tutta colpa tua! Tu hai parlato di cercare sempre l’essenziale, di semplificare, di eliminare i dettagli, di vedere le cose nella loro unità dove ogni parte dipende dall’altra. I rapporti non li voglio più cercare soltanto fra i colori, ma fra le persone nel mondo e nella mia vita, nel rapporto fra me e il mondo».
Brera e la linea femminile nella conversione di Lorenzo Milani
Una volta a Brera, Lorenzo, appena diciottenne, frequenta solo i corsi che gli interessano veramente, Anatomia artistica e Pittura, con la stessa selettività che applicherà poi agli studi in seminario. Valentina Alberici nel suo libro approfondisce due tasselli importanti della biografia del giovane Lorenzo, due figure femminili che ebbero un ruolo determinante nella sua conversione: Tiziana Fantini, studentessa come lui, e Eva Tea, docente di Storia dell’Arte e del Costume. Due incontri che anticipano al 1941 la sua ricerca spirituale, quando ancora in famiglia lo credono interamente consacrato all’arte.
Della professoressa Eva Tea, del suo carisma, del suo ascendente su Lorenzo rispetto ai temi del rito, della liturgia e del bello come riflesso della trascendenza, esistevano già studi e testimonianze. Alberici ne spiega meglio il magistero teorico collocandolo all’interno dell’Istituto Beato Angelico di Milano, di cui era una delle collaboratrici più autorevoli. L’Istituto è una scuola d’arte fondata nel 1921 dal prete ambrosiano Giuseppe Polvara, convinto assertore del potere mistagogico dell’arte e dell’importanza della contemplazione della bellezza come suscitatrice del senso religioso.

Valentina Alberici fa, inoltre, un accurato ritratto di Tiziana Fantini, la fantomatica amica con cui Lorenzo ha frequentato i corsi all’Accademia e a cui la stessa madre di Lorenzo si riferisce, chiamandola solo Tiziana, in una testimonianza contenuta nel libro di lettere e inediti curato da Giorgio Pecorini, I care ancora (2001). Parla di lei anche l’amico Saverio Tutino, giornalista e corrispondente all’estero de L’Unità, a Neera Fallaci in Dalla parte dell’ultimo, senza che sia possibile identificarla se non come «una bella ragazza dai capelli rossi conosciuta a Brera». Già nel catalogo della mostra don Lorenzo Milani e la pittura. Dalle opere giovanili al Santo Scolaro (Palazzo Medici Riccardi, Firenze, 2013), l’identità della Fantini era stata svelata: si tratta di una pittrice nata nel 1923 a Merano ma trasferitasi a Trieste nel 1955, dove ancora vive; che ha studiato a Brera dal 1941 sotto la guida di Carpi, Carrà, Funi e Manzù, terminando gli studi, a differenza di Lorenzo.
Con la Fantini Lorenzo trascorre molto tempo, sia nello studio che i genitori hanno affittato per lui in Piazza Fiume, dove talvolta gli fa da modella; sia in giro per le chiese di Milano, alla ricerca-scoperta dell’arte sacra. Si frequenteranno anche dopo il suo abbandono dell’Accademia, che avviene a seguito di un diverbio con Achille Funi, docente di tecnica dell’affresco, fascista della prima ora, che passando tra i cavalletti aveva osato ritoccargli il lavoro. In uno di questi giri con la Fantini, Lorenzo le confida che si sarebbe fatto prete.

Insieme frequentano anche la scena artistica milanese, soprattutto il gruppo di artisti di Corrente, legato all’omonima rivista antifascista diretta da Ernesto Treccani, figlio del noto industriale fondatore dell’enciclopedia. Gli artisti di Corrente (Guttuso, Cassinari, Morlotti) perseguivano la ricerca di sé e l’urgenza di connettere arte e vita, politica cultura e religione, con il radicalismo tipico dei movimenti artistici di avanguardia. Da essi il futuro priore di Barbiana deriverà l’imperativo a schierarsi: «Concepiamo la vita come una diretta presa di posizione che si oggettivizza nel lavoro contro ogni forma di pessimismo, di fenomeni evocativi e mistici. Dolore e mistero vanno travolti in una volontà di lotta» (M. Micheli, Arte sotto la dittatura, 2000). La critica al misticismo, l’urgenza di essere in situazione, da parte degli artisti del movimento, sono temi che Alberici sottolinea in rapporto al vitalismo del futuro priore, il quale guarderà sempre con sospetto a una spiritualità che possa essere di ostacolo all’azione: «Se non faccio mai discorsi spirituali ed elevati è perché non li penso e non ci credo. La religione per me consiste nell’osservare i 10 comandamenti e confessarsi presto quando non si sono osservati. Tutto il resto o son balle o appartiene a un livello che non è per me e che certo non serve ai poveri. […] Se credessi al comandamento che continuamente mi rinfacciano e cioè che bisogna amare tutti, mi ridurrei in pochi giorni a un prete da salotto cioè da cenacolo mistico intellettual ascetico e smetterei d’essere quello che sono, cioè un parroco di montagna che non vede al di là dei suoi parrocchiani», scriverà a Elena Pirelli nel 1961, da Barbiana.
«Una vocazione da adulto»
Una vocazione può essere rimandata, elusa, a momenti persa di vista. Oppure può imporsi violentemente. Non importa come e quando: alla fine ciò che chiamiamo destino o “sacro fuoco” verrà fuori.
Al termine del suo unico anno accademico a Brera, Lorenzo torna a Gigliola, la tenuta di famiglia nella campagna di Montespertoli. È l’estate del 1942. Nella cappella di famiglia sconsacrata, che ha deciso di affrescare, trova un vecchio messale e ne rimane folgorato: «Ho letto il rito della Messa. Ma sai che è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore?», scriverà a Oreste del Buono.

Una testimone degli ultimi quattro anni della vita del priore a Barbiana, Adele Corradi, unica professoressa ammessa alla sua scuola e di fatto sua assistente, nel suo bellissimo Non so se don Lorenzo (2012) scrive: «Non gli ho mai chiesto nulla della sua conversione. Mi limitavo a registrare nella memoria quello che lui diceva. Capitava infatti che raccontasse di momenti in cui era avvenuto come un “incontro”: la lettura del libro Il ponte di san Luis Rey, la scoperta del tendine di Achille mentre sezionava un cadavere (faceva il pittore e “un pittore doveva conoscere l’anatomia”), la visita al convento di Monte Oliveto Maggiore (“chi ci pensava più agli affreschi… sentendo il canto dei monaci”) […] Un’altra volta gli chiesi invece in quali circostanze avesse deciso di farsi prete, ma non ricordava nessun momento da credente in cui non pensasse di essere prete. Gli pareva che la decisione di essere prete fosse stata contemporanea alla conversione».

C’è, tuttavia, una scena primaria nella vita del giovane Lorenzo apprendista pittore, talmente icastica, nella sua semplicità, da sembrare scritta per entrare nella sua mitobiografia. Un giorno gironzola per le strade di Firenze in cerca di qualche scorcio da dipingere. Mentre sta attraversando un quartiere popolare povero, tira fuori il pane che si era portato per la merenda e si mette a mangiare. Improvvisamente, da una finestra affacciata sulla via, sente un grido indirizzato a lui: «Non si mangia il pane bianco nelle strade dei poveri!». A gridare è una donna con un bambino in braccio, quasi una Madonna di Fra Bartolomeo.
Durante la guerra i poveri mangiavano il pane che gli veniva distribuito, appunto “nero”; solo pochi potevano permettersi il pane bianco. La famiglia di Lorenzo era esattamente il tipo di famiglia borghese che poteva permetterselo. L’episodio apre una ferita nel suo cuore, un abisso in cui avviene la scoperta degli altri, la percezione vergognosa del proprio privilegio. In seguito vivrà la sua condizione di “signorino” come una diffrazione, un tradimento della sua vera natura.
Al ritorno da Milano si ritrova a Firenze, smarrito, inquieto, senza prospettive. Da questa confusione uscirà solo grazie alla fede in Dio, che si rivelerà attraverso l’avvicinamento agli ultimi, ai quali è sensibile già dalle origini della sua vocazione. L’ingresso in seminario, nel novembre del 1943, gli darà la felicità che prima, «nei venti anni passati nelle tenebre dell’errore», gli era mancata. La vicenda biografica che segue l’ordinazione sacerdotale è nota: prima la scuola popolare a San Donato a Calenzano; poi l’esilio a Barbiana, il processo per apologia di reato dopo la pubblicazione della Risposta ai cappellani militari della Toscana (1965); infine la morte a soli 44 anni.
Don Lorenzo, dunque, giunge alla fede attraverso l’arte, la liturgia e il rito della messa che sente come il punto più alto del ministero sacerdotale. Sono suggestioni, naturalmente, perché nessuno scritto è stato lasciato dal priore sulla propria conversione.
Barbiana, un giardino nel deserto
Nell’Italia contadina degli anni Cinquanta, ancora traumatizzata dal Ventennio fascista e impoverita da una guerra che l’ha messa in ginocchio, Barbiana rappresenta, se possibile, un mondo ancora più “serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato” della Gagliano di Cristo si è fermato a Eboli. Una località sperduta nel Mugello che non compare neppure sulle carte geografiche; è il «niente» dove manca tutto: l’acqua, la luce elettrica, la scuola e perfino la strada per arrivarci. C’è solo una parrocchia e una canonica, con una ventina di famiglie contadine sparse nel bosco, 127 anime in tutto. Don Milani vi giunge a 31 anni il 6 dicembre del 1954, accompagnato dall’Eda e “nonna” Giulia, madre e figlia, che accudivano il vecchio Proposto a Calenzano prima dell’arrivo di don Lorenzo e diventano parte della sua famiglia barbianese, e ci resta fino al maggio del 1967, un mese prima di morire nella casa materna di Firenze in via Masaccio.
«In Toscana non esisteva luogo migliore per confinare un prete come don Lorenzo Milani, accusato di non essere intonato con altri preti e di aver diviso in due il popolo della parrocchia di San Donato a Calenzano, durante i sette anni di apostolato, come Cappellano del vecchio Proposto don Daniele Pugi», scrive Michele Gesualdi in L’esilio di Barbiana (2016).
Eppure è qui, nel “niente”, che si compie il miracolo. È a Barbiana che don Milani scopre i veri poveri, diventa povero fra loro. I poveri di don Milani non sono propriamente gli indigenti, quelli che non hanno il “pane bianco”. I poveri di cui si prenderà cura – I care era il motto della scuola di Barbiana – sono i privi di parola, di conoscenza, i bisognosi di sapere: «La povertà dei poveri – scrive in Esperienze Pastorali – non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale. La distinzione in classi sociali non si può dunque fare sull’imponibile catastale, ma su valori culturali».
È a Barbiana, nel dolore dell’isolamento e del non riconoscimento del suo lavoro pastorale, nella paura di non farcela, che si radicalizza la vocazione di don Milani, la sua azione pedagogica e democratica già emersa a Calenzano: «Mi hanno confinato in un deserto perché non potessi nuocere. Ci son venuto senza batter ciglio e con pazienza da eremita ho trasformato il deserto in un minuscolo giardino».
Un giardino in cui si svolge il suo zelante rigoroso strenuo insegnamento della lingua: «È solo la lingua che fa eguali – recita un passo di Lettera a una professoressa – Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione del pensiero altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli». Un prete ha il compito di evangelizzare il suo popolo affinché diventi “sovrano”: sui banchi della scuola di Barbiana ci sono il Vangelo e la Costituzione.
Già a Milano lo studio dell’iconografia sacra, nelle sue peregrinazioni per chiese con Tiziana Fantini e nella frequentazione della professoressa Eva Tea, l’aveva messo di fronte a una scoperta eccezionale: la Chiesa per secoli ha comunicato agli analfabeti attraverso le immagini. Forse non è un caso che, vicino Vicchio, a pochi km da Barbiana sia nato Beato Angelico, un artista che con la sua arte parla agli analfabeti, facendosi capire perfettamente. Le sue “dipinture devote”, le sue prediche per immagini, i suoi cicli didattici, hanno come destinatari gli “idioti”, gli illetterati, gli esclusi dalla scrittura, i tanti contadini delle Barbiane del mondo che non sanno il latino. Don Milani, una volta ordinato prete, depone i pennelli e i colori; la sua arte si esprime nella scrittura, attraverso una lingua limpida e perspicua, in cui nessuna espressione suona a vuoto, perché ciascuna deve essere testimonianza di verità; proprio come nella pittura dell’Angelico, semplice, diretta, cristallina.


Ma, forse, l’arte-lingua che più si avvicina all’esperienza di Barbiana, eminentemente comunitaria, collettiva come la scrittura della Lettera a una professoressa, non è proprio quella di Beato Angelico, se non nel ciclo di affreschi del dormitorio di San Marco, dove l’autografia del maestro è indistinguibile dal contributo degli allievi, ma è nella street art, ontologicamente “anonima”, insorgente, in dialogo con il contesto delle periferie urbane, sconveniente, all’occorrenza feroce, utopica. Sicuramente ancora non recuperabile da logiche omologanti che vorrebbero neutralizzarne il messaggio profetico contro il Potere.
Un’arte che nasce dall’odio e diventa amore, come nella meravigliosa definizione contenuta nella Lettera, che tanto piacque a Pier Paolo Pasolini: «Così abbiamo capito cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi».
Carmelo Argentieri
Le illustrazioni in copertina e a fine articolo sono di Simone Massi e sono tratte dal libro Il maestro.
Per saperne di più:
Valentina Alberici, Lorenzo Milani. L’artista che trovò Dio, Milano, Edizioni Paoline, 2017
Fabrizio Silei e Simone Massi, Il maestro, Roma, orecchio acerbo, 2017
Michele Gesualdi, Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, Milano, Edizioni San Paolo, 2016
Sandra Gesualdi (a cura di), Don Lorenzo Milani e la pittura. Dalle opere giovanili al Santo Scolaro, Firenze, Museo delle fate edizioni, 2013
Adele Corradi, Non so se don Lorenzo, Milano, Feltrinelli, 2012
Neera Fallaci, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani, Milano, Milano libri edizioni, 1977
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