La conferenza di Carl Brandon Strehlke sulla “giovinezza di Beato Angelico” al Cenacolo degli agostiniani di Empoli, lo scorso 10 maggio, il primo di sette incontri a corredo della mostra Empoli 1424. Masolino e gli albori del Rinascimento, è una di quelle occasioni che smuovono anche i viaggiatori più pigri, invitandoli a immergersi nel piacere del “contesto”. Un piacere che si prova ancora nel frequentare il patrimonio diffuso della provincia italiana, dove l’intreccio di relazioni tra presente e passato, arte e architettura, paesaggio e comunità, fa sentire partecipi di un tempo e uno spazio più densi, fuori dal fracasso dell’overtourism che assedia le città d’arte come Firenze.
Dalla stazione di Empoli si arriva in poco più di dieci minuti al Museo della Collegiata di Sant’Andrea, una delle due sedi della mostra. L’altra, la Chiesa di Santo Stefano degli Agostiniani, dove si trova la parte più consistente dell’esposizione curata da Andrea De Marchi, Silvia De Luca e Francesco Suppa, è a pochi passi dalla Collegiata. L’innesco della mostra non è la solita ricorrenza anagrafica, ma il 600º anniversario dalla realizzazione del ciclo di affreschi con le Storie della Vera Croce per la cappella della Compagnia della Croce, nel transetto destro della Chiesa di Santo Stefano, saldato a Masolino il 2 novembre 1424. Sebbene di questo ciclo siano visibili solo pochi frammenti, opportunamente illuminati per l’occasione, si intuisce l’importanza del contributo del pittore di Panicale agli “albori” del Rinascimento.
La mostra propone una visione convincente del milieu in cui lavorò Masolino, accostando le sue opere a quelle degli artisti che negli anni venti del Quattrocento reagirono come lui, con un misto di curiosità e diffidenza, alle nuove soluzioni stilistiche che si andavano diffondendo. Tra questi Lorenzo Monaco, Gherardo Starnina, Giovanni Toscani, Bicci di Lorenzo, il giovane Beato Angelico e altri artisti che plasmarono il panorama artistico fiorentino. La mostra si ferma a un passo dal momento in cui Masolino avrebbe incontrato Masaccio sui ponteggi della Cappella Brancacci al Carmine. Incontro fatale che qui rimane intenzionalmente fuori campo. L’ossessione di molti studiosi e curatori è cercare di individuare un’età dell’innocenza del Rinascimento, una sorta di prequel situato nei primi anni del Quattrocento: un’alba, dei bagliori dorati anticipatori, degli albori che traccino un ipotetico anno zero. Alcuni fanno risalire tutto al 1401, quando l’Arte di Calimala, una delle sette Arti Maggiori di Firenze, bandisce un concorso per scegliere l’artista che realizzerà la decorazione della Porta Nord del Battistero di Firenze e che vedrà Lorenzo Ghiberti prevalere su Filippo Brunelleschi; o al 1418, quando l’Arte della lana bandisce il concorso per il modello della cupola del duomo di Firenze. Altri al 1422, quando Masaccio si immatricola all’Arte dei medici come pittore e realizza il Trittico di San Giovenale; o forse il 1425, quando Brunelleschi collabora con Masaccio allo sfondo prospettico dell’affresco della Trinità di Santa Maria Novella. O ancora tra il 1425 e il 1427, quando Masaccio affianca Masolino agli affreschi del Carmine. Insomma, si cerca il punto di inizio, la linea di demarcazione tra un prima e un dopo, per tentare di scoprire, con un’operazione archeologica da ritorno al futuro, le premesse di una rivoluzione che si è svolta, perfino a Firenze, in modi assai meno lineari ed evolutivi di quanto non si sia disposti a credere. Qui a Empoli, l’annus mirabilis assunto dai curatori della mostra, è il 1424.
Al Museo della Collegiata arrivo nel primo pomeriggio. La Collegiata è un piccolo museo su due piani con una collezione di tutto rispetto che comprende la Madonna dell’Umiltà tra santi di Lorenzo Monaco e la Madonna in trono tra angeli e santi di Filippo Lippi, in dialogo diretto con la mostra su Masolino.
All’interno della Collegiata incontro Andrea De Marchi e Francesco Suppa, due dei tre curatori della mostra, in compagnia di due ospiti illustri: Carl Brandon Strehlke, uno dei maggiori esperti al mondo di pittura di Beato Angelico, che di lì a poco avrebbe tenuto la conferenza sulla giovinezza dell’artista domenicano, e Keith Christiansen, Direttore emerito del Dipartimento di Pittura europea “John Pope-Hennessy” del Metropolitan di New York. Stanno discutendo della mostra da prospettive culturali, intellettuali e politiche diverse, mentre attraversano le sale del museo. Cerco di origliare i loro commenti. Li seguo anche nella Chiesa di Santo Stefano, dove l’esposizione è giustamente dominata dalla splendida Pietà di Masolino, collocata in fondo alla navata centrale, su un pannello grigio antracite che, correndo su tutti i lati, contiene i dipinti in prestito da musei toscani ed esteri.
Se il compito di una mostra è suscitare domande, riaprire il dibattito critico su datazioni, attribuzioni e creare nuovi e imprevisti accostamenti tra le opere esposte, questa empolese, la prima monografica su Masolino, stuzzica sicuramente lo sforzo ermeneutico degli studiosi. Sempre con l’orecchio teso verso i commenti dei due curatori che accompagnano gli “americani” – così vengono chiamati Strehlke e Christiansen, studiosi dal passo mercuriale, poliglotti, cosmopoliti, viaggiatori indefessi, un po’ storici dell’arte, un po’ connoiseurs – mi rendo conto di quanto interesse susciti la nuova attribuzione a Masolino: un San Francesco di collezione privata, morbido e dandy, messo a confronto con l’umanità diafana della Madonna dell’Umiltà degli Uffizi. Tavola, quella con San Francesco, che doveva far parte di un polittico, quasi neogiottesca nel suo elegante naturalismo. Strehlke non concorda con la proposta dei curatori, preferendo riferirlo a Francesco d’Antonio, artista ben rappresentato in mostra, amico di Masolino e suo assistente proprio a Empoli; mentre Christiansen si incanta davanti alla delicatezza del finto marmo “acquerellato”, di sapore angelichiano, su cui si erge il Santo.
Una rivelazione sono le due tavolette di Giovanni Toscani con due gruppi di Santi, appena restaurate. Pittore vicino a Lorenzo Ghiberti, presso cui lavorava come finitore di bronzi, Toscani appare aperto alle novità masaccesche filtrate attraverso i modi meno aspri di Masolino; Francesco Suppa, mentre ce la descrive, definisce “acquosa” la sua pennellata.
Un altro pittore in mostra abbastanza chiacchierato è il Maestro del 1419, con due tavole provenienti dal Museo di Piazza Venezia a Roma, raffiguranti un Cristo benedicente e un profeta Daniele, secondo Strehlke (ma anche secondo Gerardo de Simone) riferibili a Battista di Biagio Sanguigni: un artista tutto da scoprire, di cui conosciamo soprattutto le miniature. Fu lui a presentare il giovane Angelico nel 1417 alla confraternita di San Nicola di Bari al Carmine, dove venne registrato come “Guido di Pietro dipintore”, e potrebbe avere avuto un ruolo nella prima misteriosa formazione dell’artista.
A ben vedere, i pittori messi a confronto con i dipinti su tavola di Masolino – ché la maggioranza delle sue opere sono affreschi, perciò non spostabili da Firenze, Roma, Todi e da Castiglione Olona – sono tutti artisti che Roberto Longhi, in Fatti di Masaccio e di Masolino del 1940, definiva «sventati calligrafi creati da Don Lorenzo Monaco», quando non «confusi» o addirittura «indifferenti» alla detonazione prodotta dalla cappella Brancacci. Artisti che oggi, a un pubblico profano, potrebbero sembrare di seconda fila, quando in realtà erano loro il mainstream. Furono loro, diligentemente fedeli alla tradizione tardogotica, a dominare la scena artistica quattrocentesca. Tra questi solo Beato Angelico, qui presente con la Madonna di Cedri del Museo di San Matteo a Pisa, comprese fino in fondo la rivoluzione masaccesca.
È con questa consapevolezza che mi dispongo ad ascoltare la conferenza di Strehlke nella sala del cenacolo di Santo Stefano, che nel frattempo si è popolata della folta e variegata comunità degli “angelichiani”. Molti vengono da Firenze: dal Museo di San Marco; da SAGAS (Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo), dove si sono formati i curatori Francesco Suppa e Silvia De Luca; dal mondo del restauro e della ricerca libera. L’impressione, confermata dalla direttrice della mostra Cristina Gelli, che presenta il relatore, è che all’appello manchi proprio il pubblico empolese, a cui la mostra e il ciclo di conferenze sono dedicati.
Perché Angelico?
Perché Angelico? Carl Brandon Strehlke se lo chiedeva già in un bel saggio del 2010, nel catalogo della mostra Beato Angelico a Pontassieve. Dipinti e sculture del Rinascimento fiorentino. Pur essendo in parte responsabile di questo “recupero”, quasi si stupiva della fortuna critica recente del pittore domenicano, della sua irresistibile capacità di sbalordire e continuare a entusiasmare critica e grande pubblico.
Strehlke, che in occasione del bicentenario del Museo del Prado nel 2019 ha curato Fra Angelico y los inicios del Renacimiento en Florencia, comincia la conferenza annunciando che curerà Beato Angelico, la prima grande mostra a Firenze dedicata all’artista dopo settant’anni, tra Palazzo Strozzi e il Museo di San Marco, dal 26 settembre 2025 al 25 gennaio 2026. Nel pubblico sono presenti anche gli altri due curatori: Angelo Tartuferi, Direttore del Museo di San Marco, e la studiosa di codici miniati Ada Labriola, per la parte delle miniature. Dopo aver dato in anteprima la notizia, lasciando l’uditorio con l’acquolina in bocca, Strehlke comincia a spiegare il senso di quella che definisce la “long youth” di Angelico. Un pittore che in effetti ha avuto «il privilegio di avere due giovinezze: una primavera e un’estate. Una da artista laico, col nome di Guido di Pietro, e una da artista domenicano col nome di Fra Giovanni da Fiesole».
Non conosciamo la sua data di nascita, né quella dei suoi fratelli Benedetto e Checca, con i quali giunse a Firenze da Vicchio di Mugello. Non sappiamo nemmeno quale fosse il mestiere del padre Pietro. La sua stessa formazione è tuttora argomento di dibattito. C’è chi negherebbe fino alla morte il suo apprendistato presso Lorenzo Monaco, camaldolese del Monastero di Santa Maria degli Angeli a Firenze, con cui pure ha collaborato, preferendo piuttosto accostarlo, insieme a Masolino, allo stravagante Gherardo Starnina, che operò soprattutto in Spagna e morì nel 1413. C’è chi come Ada Labriola ravvisa nelle sue miniature corrispondenze dirette con l’attività di don Simone Camaldolese, un miniatore di origine senese attivo a Firenze nel penultimo decennio del Trecento, anche lui nello scriptorium del Monastero di Santa Maria degli Angeli. Qui il suo articolo sull’Angelico miniatore.
Strehlke, nel suo intervento, ricostruisce una mappa delle influenze e delle sollecitazioni che passa anche da Cortona, dove il pittore sta compiendo il suo noviziato sotto la guida spirituale di Antonino Pierozzi e ha sotto gli occhi i dipinti di Pietro Lorenzetti (un grande Crocifisso, un Crocifisso sagomato e una Madonna col Bambino e quattro angeli) i quali possono averlo ispirato per la Pala d’altare di San Domenico a Fiesole.
«Beato Angelico non copiava mai direttamente un altro pittore, ma ha certamente compreso l’umanità di Pietro Lorenzetti». Ecco, se c’è un aspetto che rende inconfondibile il genio artistico di Angelico è la sua capacità di annusare i segni dei tempi; attingere a più fonti, antiche e moderne; far proprie le sperimentazioni prospettiche compositive e stilistiche dei suoi contemporanei; comprendere e rielaborare criticamente la lezione dei maestri del Trecento. Si prenda Ghiberti, cui il giovane Angelico deve molto. «Certo, è bello trovare citazioni o derivazioni da Ghiberti, come ha fatto Andrea De Marchi per Masolino – chiosa Strehlke – ma è sbagliato, come ogni tanto avviene, insistere sul rapporto uno a uno». Solo pochi artisti dimostrano di aver digerito la lezione dei maestri, altri si limitano a citarli. Si consideri Il Martirio di San Marco della predella del Tabernacolo dei Linaioli, uno dei migliori esempi di costruzione di una “istoria”, nel senso in cui la intendeva Leon Battista Alberti nel De Pictura, in cui Angelico attinge a fonti varie: «il gruppo a destra, con il soldato che scappa con lo scudo sopra la testa, fa pensare non solo alle figure della porta del Battistero, ma anche allo studio di una fonte antica, come il sarcofago che faceva parte di una sepoltura nel Duomo di Cortona, città in cui Angelico svolgeva il suo noviziato».

Ghiberti stesso nei Commentarii, il testo che raccoglie i ricordi autobiografici e gli scritti teorici dello scultore, racconta di aver fornito a molti pittori, e Angelico era tra questi, piccoli modelli in cera o terracotta. «Saranno stati forse più importanti questi piccoli modellini che degli esempi monumentali – sottolinea Strehlke – L’officina di Ghiberti era simile ai grandi cantieri delle cattedrali nordiche di due secoli prima, animati da ogni arte, con scambi di idee nel loro sviluppo, nella loro rielaborazione, immediati e costanti». Piazza Duomo a Firenze doveva essere nel Quattrocento uno crogiolo straordinario di attività e dibattiti. Purtroppo di Angelico si conservano pochi disegni, ma dobbiamo supporre che prendesse appunti, come facevano molti artisti della sua generazione. Nel 1417 abitava nella parrocchia di San Michele Visdomini, a pochi passi dalla bottega di Ghiberti e a quella di Don Lorenzo Monaco, che si trovava nel corso dei pittori, l’attuale via dei Calzaiuoli, pur vivendo a Santa Maria degli Angeli. Come non immaginare il giovane Guido di Pietro, dotato di una curiosità prensile, mentre fa la spola tra la bottega dell’uno e quella dell’altro? Un artista si forma anche guardandosi intorno, osservando il mondo circostante e i procedimenti con cui gli altri artisti lo traducono in forme e stile.
Le prime opere documentate
Quando è cominciata questa lunga giovinezza di Beato Angelico? Strehlke, da bravo storico, è sempre attento a interrogare le fonti documentarie. La prima opera documentata è il Trittico di San Pietro Martire, ora al Museo di San Marco, del distrutto convento di San Pietro Martire a Porta Romana, dove risiedeva una comunità di domenicane osservanti legate ai frati di Fiesole. «C’è un pagamento di soli 10 fiorini del marzo 1429. Sembra che il trittico però sia stato dipinto diversi anni prima. Forse la commissione avviene poco dopo il febbraio del 1421, quando il convento riceve due donazioni molto importanti».
Non a caso, nel 2022, Angelo Tartuferi ha esposto il Trittico di San Pietro Martire a Reggello, accanto al Trittico di San Giovenale, prima opera di Masaccio datata 1422. Un altro confronto può essere fatto con la Sant’Anna Metterza di Masolino e Masaccio, realizzata per l’altare Buonamici della Chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze, un’opera databile 1423-24. Il committente Nofri del Brutto Buonamici era un tessitore di drappi serici come quello a melograno del drappo di Masolino e Masaccio. Negli esempi di Masaccio i disegni sono naturalistici, non hanno un motivo che si ripete come dovrebbe essere un drappo tessuto su un telaio, come quelli di Masolino nella Brancacci. I tessuti di Angelico sono invece di pura invenzione, o comunque non riflettono la produzione tessile fiorentina corrente. «Quello della Madonna di San Pietro Martire, tutto d’oro, potrebbe essere tessuto su telaio, perché il motivo si ripete, ma non si trova nei tessuti italiani contemporanei. L’artista non vuol fare pubblicità all’arte della seta – osserva Strehlke – ma dare una preziosità alla raffigurazione della Madonna creando un tessuto con motivi non locali, di pregiata importazione».
La seconda opera con una datazione documentata, un debito non precisato della compagnia di San Francesco per il pagamento della tavola a Angelico, è il Trittico della Certosa, ora in restauro presso i laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure. La compagnia di San Francesco era una compagnia penitenziale che aveva il suo luogo di incontro nel chiostro di Santa Croce a Firenze. Il documento del 1429 si riferisce alla predella dispersa dell’opera.
Di poco posteriore è la Deposizione Strozzi, del cui restauro si sta occupando Lucia Biondi, anche lei presente nella schiera degli “angelichiani” alla conferenza di stasera. L’opera, commissionata inizialmente a Lorenzo Monaco, rimane incompiuta perché l’artista muore nel 1424, dopo aver realizzato la predella e le tre cuspidi. È Lorenzo di Palla Strozzi, raffigurato in ginocchio davanti alla sacra scena, a scegliere proprio Beato Angelico come continuatore dell’opera di Don Lorenzo. La donazione di vino da parte dello stesso Lorenzo Strozzi al Convento di Fiesole, risalente a prima del 1432, è talvolta indicata come pagamento per la Pala d’altare, anche se è improbabile che Angelico non venisse pagato in soldi. Il documento dice che il vino viene dalle vigne del Castello di Petraia, all’epoca della famiglia Strozzi. Comunque il carpentiere che installò la pala nella sacrestia della Chiesa di Santa Trinita fu pagato in vino. «Che Angelico, nonostante fosse frate, conoscesse bene i costi di un dipinto, sia dei materiali sia dell’impegno artistico, è evidente da un documento per una Pala di Bicci di Lorenzo e Stefano d’Antonio, per cui Angelico fu chiamato a far parte di una commissione per valutare il dipinto con altri due pittori, tra cui Rossello di Jacopo». Fa specie immaginare Fra Giovanni da Fiesole, domenicano osservante, così abile negli affari.
Le tre Pale del convento di San Domenico a Fiesole (Annunciazione del Prado, Incoronazione del Louvre e Pala di Fiesole) dovrebbero essere state tutte realizzate molto prima della consacrazione della Chiesa, avvenuta nell’ottobre del 1435. La chiesa era più piccola di quella attuale: c’era la pala dell’altare maggiore e le altre due sul tramezzo che separava l’assemblea dei fedeli dal coro dei frati. Sappiamo dalla cronaca che tutti e tre gli altari furono consacrati nello stesso giorno. Nel 1501 Lorenzo di Credi racconciò la Pala d’altare maggiore, ora in restauro, e sarà molto interessante nei prossimi mesi lo studio della carpenteria lignea originale.

La primavera di Angelico
Sul giovanissimo Guido di Pietro esistono pochi documenti: del 1417 è la sua registrazione alla Compagnia di San Nicola al Carmine come “artista dipintore”, presentato da Battista di Biagio Sanguigni; del 1418 è l’attestazione di pagamento di 7 fiorini per la conclusione di un’opera. Si parla di nuovo di lui solo nel 1423, come fra Giovanni da Fiesole, per la pittura di una Croce per Santa Maria Nuova a Firenze. Tra le due date è diventato frate a San Domenico di Fiesole. La Pala di Fiesole con San Barnaba a destra della Vergine – la chiesa fu conclusa nel 1418 grazie a un lascito di Barnaba degli Agli – ha un’impronta stilistica che rimanda a Lorenzo Monaco, come si vede nella composizione e nei dettagli colorati delle ali degli angeli. È stato merito di Roberto Longhi fare delle proposte per opere di fra Giovanni, o forse Guido di Pietro, precedenti a questa Pala, tra cui il San Gerolamo di Princeton e la Crocifissione di New York.
Laurence Kanter, curatore della grande mostra Fra Angelico al Metropolitan di New York nel 2005, ha voluto vedere il giovane Guido di Pietro come un assistente di Lorenzo Monaco, proponendo la sua mano nella predella dell’Incoronazione di Santa Maria degli Angeli, ora agli Uffizi, e in altre opere provenienti dalla bottega del monaco camaldolese: una fa parte delle storie di Sant’Antonio Abate, con Sant’Antonio Abate che incontra l’eremita, in Vaticano; l’altra è una Madonna col Bambino e Santi e la Pietà, ora a San Diego.
Altre opere che potrebbero essere associate alla fase “primaverile” dell’artista, quella di Guido di Pietro, sono commissioni di Madonne (San Pietroburgo; Pisa; Rotterdam) per alcune famiglie fiorentine.
E naturalmente la Tebaide, ora al Museo di San Marco. Di quest’ultima esistono altri due esemplari: una divisa tra il Museo di Belle Arti di Budapest e una collezione privata, già Bartolini Salimbeni, e l’altra, più grande di tutte e tre, al Museo cristiano di Budapest, che Miklòs Boskovits ha attribuito a Mariotto di Nardo e Pia Palladino a un pittore orcagnesco. Il tema era di grande popolarità tra i laici ed è probabile che la Tebaide di Angelico fosse stata dipinta per la famiglia Medici, per Cosimo il Vecchio o suo padre Giovanni di Bicci. L’opera è menzionata nell’inventario redatto dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, e questo documento dovrebbe provare l’attribuzione ad Angelico. Ne parla Angelo Tartuferi in un video.
Poi c’è la Pala di Fiesole: «Mi sono chiesto se è stata fatta in due tempi: prima la parte superiore, forse quando era Guido di Pietro, poi la predella, forse dopo il noviziato. Dico questo soprattutto per la differenza degli incarnati. Nella predella ci sono più di trecento figure religiose e questo forse gli ha fatto riconsiderare come dipingere gli incarnati. Non è più la maniera astratta di Lorenzo Monaco, con i punti di luce precisi e isolati».
Certamente avrà anche avuto le opere di Gentile da Fabriano sotto gli occhi: Gentile era a Firenze nel 1420 e Angelico ha potuto frequentare la sua bottega, rimanendone affascinato. Facendo un confronto con la predella dell’Adorazione dei Magi, tuttavia, si nota che «Angelico è meno grafico e ha una morbidezza tutta sua. Avrà avuto un pennello finissimo. Forse però il confronto più convincente è con Masolino: potrebbe essere lui il motore della nuova sperimentazione tecnica».
Angelici tradimenti
Un’altra opera che ci parla della spiritualità popolare del giovane Angelico, secondo Strehlke, è L’incontro dei Santi Francesco e Domenico. Il dipinto, ora a Berlino, faceva parte della predella del Trittico della Certosa della compagnia di San Francesco. La visione di San Domenico con la Vergine in ginocchio davanti a Cristo che ha in mano tre lance, sopra un paesaggio disteso che rappresenta il mondo intero, deriva dalla Vitae fratrorum ordinis preadicatorum di Gerard de Frachet, un testo domenicano scritto intorno al 1260. Angelico deve averlo studiato con le storie dei primi frati dell’ordine, durante il suo noviziato. Il testo è importante anche per l’iconografia della predella della Pala di Fiesole, in cui è raffigurato un considerevole numero di frati e di suore dell’ordine. Il ricordo della visione di San Domenico appare anche in altri due testi duecenteschi: La legenda aurea di Jacopo da Varagine e Speculum humanae salvationis, attribuito a Ludovico di Sassonia. In questi, Cristo getta le sue frecce contro superbia, avarizia e lussuria. Sono pochi gli esempi su scala monumentale di questo soggetto. Nonostante i confratelli della compagnia di San Francesco conoscessero molto bene l’iconografia della Visione di San Domenico, Angelico decide di non seguirla fedelmente. «Come sempre in lui c’è la tendenza a semplificare e soprattutto umanizzare il racconto. La visione di San Domenico è in altro a sinistra, ma senza il Santo che la guarda; perché la scena è focalizzata sull’incontro fra i due Santi, che sono davanti alla chiesa e non dentro come scrive de Franchet. Domenico stringe le mani di Francesco e stanno per darsi “baci santi e abbracci sinceri”».

In un’altra versione, pressappoco contemporanea, ora a San Francisco, al Museum of Fine Arts, Beato Angelico colloca l’incontro nel grande spazio vuoto di una basilica mendicante. San Domenico riconosce San Francesco e gli stringe le mani, sta per dire “tu sei la mia compagna, corri insieme a me. Resteremo uniti e nessun avversario prevarrà”. Qui il giovane pittore ha eliminato la visione di Domenico; la presenza divina si percepisce negli sguardi dei Santi, nel raccoglimento dei confratelli con le mani in preghiera e nella luce, la grazia, che entra in chiesa dalle finestre. Non si tratta di contraddire l’iconografia tradizionale, ma di declinarla secondo una più limpida istanza spirituale. Ancora una volta l’adattamento di un testo, la sua trasposizione in immagine, diventa traduzione radicale, poetico “tradimento”, per il nostro.

A conclusione della conferenza, Strehlke cita il discorso di Pio XII all’inaugurazione della mostra del 1955 nei Palazzi Vaticani: «i suoi racconti sono semplici e lineari, modulati quasi sullo stile degli evangelisti». E aggiunge: «essendo di discendenza protestante e puritana, non credo facilmente nell’infallibilità dei papi, ma questa volta mi pare che papa Pacelli abbia avuto un’osservazione infallibile».
Non ci resta che aspettare la grande mostra Angelico, tra Palazzo Strozzi e il Museo di San Marco a Firenze nel 2025, che ci riserverà non poche sorprese su un artista che non ha mai smesso di dire quel che ha da dire.
Carmelo Argentieri

Un ringraziamento particolare a Carl Brandon Strehlke che generosamente, con precisazioni e indicazioni iconografiche, ha supplito laddove la penna dell’autore non è stata abbastanza veloce nel prendere appunti.
























