La Tebaide attribuita a Beato Angelico raccontata da Angelo Tartuferi in un video

Una nuova intrigante opera è entrata a far parte della collezione angelichiana del Museo di San Marco. Un evento storico – ne accadono pochi di questa portata in un secolo – che impreziosisce il ricco catalogo dell’artista domenicano, già ampiamente rappresentato nella sala che, dagli anni Venti del 1900, custodisce la maggior parte delle sue pitture su tavola. Si tratta della Tebaide, proveniente dalle Gallerie degli Uffizi, acquistata come opera di Gherardo Starnina nel 1780, che solo nel 1940 Roberto Longhi ha attribuito al giovane Beato Angelico, collegandola all’inventario di Palazzo Medici del 1512, copia del testamento di Lorenzo il Magnifico del 1492: «nell’andito che va alla chamera di Piero di sulla saletta una tavoletta di legname di braccia 4 incircha, di mano di fra Giovanni, dipintovi più storie di santi padri».

Molto amata, soprattutto dai giovanissimi appassionati d’arte per la sua innegabile dimensione fiabesca (agli Uffizi era collocata ad altezza di bambino), l’iconografia della Tebaide ebbe una grande fortuna a Firenze dalla prima metà del Quattrocento fino agli anni settanta dello stesso secolo. Poco e niente si sa della sua committenza, ancora meno della sua destinazione d’uso; è indiscutibile però la sua discendenza da alcune fonti scritte, come le storie dei santi Padri del deserto, in particolare il volgarizzamento trecentesco iniziato da Domenico Cavalca a Pisa nel convento di Santa Caterina, e la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, che dedica ai Padri del deserto ben quindici capitoli del suo grandioso inventario agiografico. Il nome, che ormai identifica anche il genere di dipinto (murale o su tavola), deriva dal luogo, il deserto presso Tebe in Egitto, dove erano vissuti i santi Padri, monaci e eremiti, in compagnia di docili animali selvatici o insidiati da diavoli tentatori, in prossimità di un fiume, tra oasi verdeggianti in mezzo ad aride rocce, sotto un cielo notturno.

L’opera, come spiega accuratamente Alessandra Malquori nei due volumi che ha dedicato al tema (Il giardino dell’anima. Ascesi e propaganda nelle Tebaidi fiorentine del Quattrocento, 2012; Atlante delle Tebaidi e dei temi figurativi, 2013, editi entrambi dal Centro Di), ha una lunga e intricata storia critica che ancora non ne ha chiarito in modo esaustivo gli aspetti culturali, compositivi e stilistici. Al di là delle affascinanti, a volte fantasiose, ipotesi attributive – la storia dell’arte, come è noto, non è una scienza esatta e, in assenza di prove documentarie, spesso sconfina nella “poesia” – va sottolineato che fu proprio dal suo ingresso agli Uffizi, nel 1780, che il soggetto della Tebaide entrò nei dibattiti storico artistici. Luigi Lanzi, per esempio, la mise in relazione con l’affresco del Camposanto di Pisa di Buffalmacco, allora attribuito a Pietro Lorenzetti, quando invece, a una più attenta osservazione, deriva gli elementi narrativi e compositivi più che dall’affresco pisano dal pannello centrale del Trittico di Grifo di Tancredi del 1285, oggi alla National Gallery of Scotland di Edimburgo.

Di provenienza sconosciuta la Tebaide fiorentina, ora a San Marco, nel 1777 risulta essere di proprietà del connoisseur e mercante d’arte Ignazio Hugford, inglese di origine ma fiorentino di adozione, tra i primi collezionisti di “primitivi” a Firenze, il quale la lascia in eredità all’artista Lamberto Cristiano Gori, esperto nell’arte della scagliola, formatosi presso Enrico Hugford, monaco vallombrosano, fratello del collezionista Ignazio. Sarà proprio Gori a venderla agli Uffizi come opera di Gherardo Starnina. L’attribuzione a Starnina, oggi poco plausibile, doveva apparire verosimile nel Settecento come tavola proveniente dalla Cappella di San Girolamo al Carmine, affrescata da Starnina e andata distrutta in un incendio nel 1771, che forse Hugford aveva visto prima della distruzione.

Nei secoli successivi il dipinto è stato variamente attribuito: inizialmente a Pietro Lorenzetti, poi a Maso di Banco, in seguito a un anonimo contemporaneo di Lorenzo Monaco, poi ancora a Paolo Uccello. Riferita per la prima volta a Beato Angelico da Roberto Longhi, in Fatti di Masolino e di Masaccio (1940), così come più tardi fece Miklòs Boskovits (2002), nel 2009 Antonio Natali, allora direttore della Galleria degli Uffizi, nel catalogo della mostra Il fasto e la ragione. Arte del Settecento a Firenze, discostandosi dall’ormai consolidata attribuzione a Guido di Pietro, cioè l’Angelico ancora allo stato laicale, azzardò l’ipotesi che la tavola fosse una copia settecentesca di un originale quattrocentesco. A complicare il dibattito critico, infatti, esistono due altre tavole, pressoché identiche a questa di San Marco, ancorché mancanti di un pezzo, entrambe in collezioni ungheresi.

Non bisogna essere storici dell’arte per capire che ci troviamo davanti a un vero e proprio giallo storico artistico. Non è dato di avere nel Quattrocento un altro caso di opere, al netto di impercettibili differenze in qualche dettaglio, così somiglianti da sembrare uguali. Se la Tebaide ora a San Marco è una copia posteriore delle altre due quattrocentesche che si trovano in Ungheria, una al Museo di Belle Arti di Budapest (divisa tra una porzione a Budapest e l’altra già nella collezione Bartolini/Salimbeni), l’altra al Museo cristiano di Esztergom (divisa tra una porzione a Esztergom, l’altra in una collezione privata acquistata a un’asta di Christie’s), e se questa copia ricostruisce fedelmente l’intera scena del paesaggio eremitico, in tutta la sua complessità iconografica e prospettica a volo d’uccello, episodio per episodio, con le stesse architetture gotiche, gli stessi giardini e animali e barchette, allora ci troviamo davanti a un genio assoluto dell’imitazione. E ancora: se la Tebaide di San Marco può essere considerata, come chiarisce Alessandra Malquori, la “testimone” completa delle altre due smembrate, un eventuale copista del Settecento per riprodurla dovrebbe aver avuto sotto gli occhi, per molto tempo, l’opera originale nella sua integrità, ossia comprensiva della parte mancante di una delle due di Budapest. Non potendo avvalersi di riproduzioni fotografiche o spolveri, come avrebbero fatto un Lamberto Gori o uno dei fratelli Hugford a replicare un’opera di tale densità compositiva e spirituale con tale perizia disegnativa? Se si esclude, come ritiene una parte della critica recente, che le tre Tebaidi provengano dalla stessa bottega, per diversità di dimensioni, spessore e essenza del supporto ligneo (legno di pioppo le due di Budapest, legno di abete quella di Firenze); differenza di pigmenti e resa pittorica, è lecito ipotizzare che quella di San Marco sia una copia coeva delle altre? E perché non del giovane Beato Angelico, negli anni della sua formazione, quando è già rapito dall’ideale contemplativo dei primi leggendari eroi del cristianesimo, in un’adesione gioiosa alle formule figurative tardogotiche?

A queste domande cerca di rispondere Angelo Tartuferi, Direttore del Museo di San Marco, in un video in cui presenta la Tebaide giunta a San Marco, dopo due secoli e mezzo di permanenza agli Uffizi, grazie a uno scambio tra la Direzione regionale musei della Toscana e le Gallerie degli Uffizi.

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