Fra il 1918 e il 1921, sotto la direzione di Giovanni Poggi, si concretizzò l’idea di trasferire al Museo di San Marco quasi tutti i dipinti su tavola di Beato Angelico conservati nelle collezioni fiorentine, imprimendo al museo un carattere più marcatamente monografico.
L’idea originaria di un luogo di storia civica e di memorie domenicane, incentrato sulla figura di Savonarola, lasciava definitivamente il posto al “museo angelichiano”, quasi assecondando, cinquant’anni dopo, il desiderio del Direttore delle Gallerie fiorentine Aurelio Gotti, che nel 1869, per la neonata istituzione, aveva proposto al Ministro dell’Istruzione il nome “Museo del Beato Angelico”.
Per ospitare i numerosi dipinti dell’Angelico, si decise di utilizzare gli spazi sul lato sud del primo chiostro, accanto al vestibolo di ingresso. Nel 1867, due anni prima della nascita del museo, in quegli ambienti si trovavano l’archivio del Parroco e due grandi stanze, con accesso dalla piazza, utilizzate come studi di scultura. Con l’apertura del museo, lo spazio era così articolato: ingresso di servizio del personale, ufficio del segretario e alcuni vani che, ai primi del ‘900, il Direttore Guido Carocci inserì nel percorso museale, allestendo una prima collezione di dipinti.

Questa era la situazione, quando, finita da poco la Grande Guerra, fu presa la decisione di realizzare un’unica grande sala per ospitare la “pinacoteca di Beato Angelico”. I muri divisori dei vari ambienti vennero dunque demoliti, anche se per ragioni espositive furono lasciate due porzioni di muro sui lati lunghi, sostituite da pannelli nel 1955, poi rimossi nel nuovo e ultimo allestimento del Direttore Giorgio Bonsanti (1980). La nuova grande sala al piano terra, la seconda in ampiezza dopo il Refettorio, venne aperta al pubblico con il nome di “Ospizio dei Pellegrini”, o semplicemente “Ospizio”.


La realizzazione della sala, oltre che per ragioni di allestimento, nasceva dall’intento di ripristinare purezza e semplicità dell’architettura del convento quattrocentesco, in sintonia con i criteri di restauro dell’epoca. In realtà, le fonti storiche e gli studi moderni rivelano con chiarezza che, fino ai lavori del ‘900, non è mai esistito un salone unico, ma lo spazio è sempre stato suddiviso in due o più vani.
Fra il 1438 e il 1443, secondo il progetto di Michelozzo, le strutture trecentesche del monastero dei Silvestrini, sul lato sud del chiostro prospiciente la piazza, furono riadattate e sopraelevate per realizzare un nuovo ampio corpo di fabbrica su due livelli. Al primo piano, si prolungò il dormitorio con un nuovo corridoio di celle, ad uso dei novizi; il piano terra, coperto da volte a crociera, fu diviso in due ambienti di due campate ciascuno: la Scuola conventuale e l’Ospizio o Foresteria (sono sinonimi). La Scuola, attigua alla portineria, era destinata alla formazione di frati, novizi e, forse, anche di studenti esterni (immaginiamo tavoli da studio e una piccola biblioteca); l’Ospizio era il luogo dove potevano soggiornare ospiti, forestieri e pellegrini, laici o religiosi (con letti, guardaroba e il necessario per l’igiene personale).

Questa prima fase è ben testimoniata dai soggetti delle lunette affrescate da Beato Angelico sopra le due porte di accesso alla sala attuale: San Tommaso d’Aquino che mostra un libro aperto (l’ingresso alla Scuola) e Cristo pellegrino accolto da due domenicani (l’ingresso all’Ospizio/Foresteria). Descrivendo il Cristo pellegrino, Padre Vincenzo Marchese nel 1853 fa riferimento alla “porta dell’antica foresteria o, vogliam dire, ospizio dei forestieri”.


Il Refettorio dei frati, sul lato est del primo chiostro, all’epoca era costituito da una sala di tre campate (Michelozzo ne aveva aggiunta una alle due di età silvestrina). L’aumento del numero di frati e novizi, ma anche di ospiti da ricevere, rese necessari alcuni importanti ampliamenti: fu allestito un nuovo refettorio, più piccolo, che le fonti chiamano “foresteria” o “ospizio”, dove Domenico Ghirlandaio affrescò l’Ultima Cena (1480 c.a.); successivamente, nel 1504, quando era priore Sante Pagnini, sul lato ovest del secondo chiostro, fu avviata la costruzione di un nuovo Dormitorio dei novizi e, a pian terreno, di un nuovo Ospizio; subito dopo, nel 1526, il Refettorio dei frati fu ingrandito, inglobando una campata del vecchio Ospizio del ‘400, ridotto così ad una sola campata, delle due originarie.
La pianta disegnata da Giorgio Vasari il Giovane (1598) mostra che, mentre gli ambienti della Scuola quattrocentesca sono ancora definiti “scuola”, il vano dell’antico Ospizio è chiamato genericamente “saletta”, evidenziando un sostanziale ridimensionamento della sua funzione.

La stessa planimetria indica che nel secondo Chiostro, sul lato ovest, si trovavano le stanze “per i forestieri” laici, sul lato nord le stanze “per i frati forestieri”, mentre il settore che nel museo attuale è chiamato “Foresteria” (con i reperti della Firenze Antica) aveva la funzione di “Infermeria”, che includeva l’“andito” (corridoio) con in fondo una cappella, le “stanze degli infermi e convalescenti”, un refettorio e una cucina riservati. Il Refettorio piccolo con l’affresco di Ghirlandaio è chiamato “Foresteria”, ad indicarne il legame con le stanze degli ospiti più che con l’Infermeria, da cui risulta separato e non comunicante.

La pianta di Vasari il Giovane, a conferma delle fonti documentarie, evidenzia che, con la creazione del Refettorio piccolo alla fine del ‘400 e con gli interventi edilizi di primo ‘500, l’attività di accoglienza dei forestieri non si svolgeva più nel primo Chiostro, ma nei nuovi ambienti attorno al Chiostro grande.

Due autori (Vasari 1550, Loddi 1736) ci informano che sopra una porta del Refettorio piccolo (chiamato “foresteria” dal primo e “antico Ospizio” dall’altro), si trovava la lunetta affrescata da Fra Bartolomeo, trasferita nel 1872 nell’oratorio di Savonarola al primo piano, raffigurante Cristo pellegrino e i discepoli di Emmaus (1506-7). Un soggetto che richiama immediatamente la lunetta del Cristo pellegrino dipinta da Beato Angelico sulla porta di accesso all’Ospizio quattrocentesco, a sottolineare la funzione di foresteria del piccolo Refettorio e a confermare il “passaggio di consegne” fra i vecchi e i nuovi ambienti conventuali dedicati all’ospitalità.

L’evoluzione degli spazi e delle funzioni conventuali, basata sul confronto delle fonti e dei principali studi, porta a concludere che l’attuale nome “Sala dell’Ospizio” o “Ospizio dei pellegrini” non è più sostenibile. In sintesi: 1) la Sala dell’Ospizio, intesa come ambiente unitario, non è mai esistita all’epoca del convento, ma è stata creata per ragioni espositive agli inizi del Novecento; 2) l’attività originaria di Ospizio/Foresteria vi si svolse per meno di un secolo, dalla ristrutturazione michelozziana agli inizi del ‘500, quando lo spazio fu dimezzato e le funzioni di ospitalità passarono ad ambienti più moderni attorno al secondo chiostro, chiamati anch’essi “ospizio” o “foresteria”; 3) nello stesso corpo di fabbrica del ‘400, con pari dignità e in spazi di uguale ampiezza, accanto all’Ospizio si trovava anche la Scuola conventuale, ma il nome “Sala dell’Ospizio” non ne tiene minimamente conto.
Tutte queste argomentazioni suggeriscono l’opportunità di cambiare il nome della “Sala dell’Ospizio”, che, ragionevolmente, potrebbe essere intitolata a Beato Angelico.

Già abbiamo visto come Aurelio Gotti avrebbe voluto che il Museo di San Marco fosse chiamato “del Beato Angelico” sin dalla sua istituzione, ma non fu il solo fra i funzionari e gli studiosi legati alla storia del museo. Si pensi, ad esempio, a Cesare Fasola, che nella sua guida del 1955 azzardava: “Domina la figura del Beato Angelico in questo Convento di San Marco e con ragione il Museo prende nome del frate pittore che qui visse a lungo”. In realtà, il nome del museo non era affatto cambiato, ma di certo ne era cambiata la percezione pubblica, anche grazie alla grande mostra angelichiana del 1955 curata da Mario Salmi, Luciano Berti e Umberto Baldini, allestita prima in Vaticano e poi a San Marco, nella Sala dell’Ospizio e nel Refettorio grande. Persino in Firenze e dintorni, l’autorevole Guida Rossa del Touring Club Italiano, fino all’edizione del 1974 non si leggeva “Museo di San Marco”, ma “Museo dell’Angelico”.
E ancora oggi, a dispetto del nome ufficiale, la percezione più diffusa, fra i visitatori italiani e stranieri, è quella di entrare nel “convento di Beato Angelico”. Con buona pace di Bernard Berenson, il celebre studioso di pittura del Rinascimento, al quale la pinacoteca angelichiana, da poco allestita nella Sala dell’Ospizio, non piaceva affatto:
Firenze, 21 settembre 1921
Iersera ho pranzato ai Tatti da Berenson.
Berenson mi parlava di San Marco e del fastidio che gli dà vedere raccolti lì tutti gli Angelico di Firenze: – È come se uno raccogliesse in un sol luogo tutto lo zucchero che c’è nel mondo… –
(Ugo Ojetti, da I taccuini 1914-1943)
Alessandro Santini

Per saperne di più:
Giorgio Vasari il Giovane, Pianta della Chiesa e del Convento de Frati di S. Marco di Firenze, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (GDSU 4860A, 4861A).
Antonio Benfante, Paola Perretti, I chiostri e il museo di S. Marco, in La Chiesa e il Convento di San Marco a Firenze, I, Giunti, Firenze 1989, pp. 303-366.
Isabella Ponsiglione, Il Museo di San Marco a Firenze: origini e sviluppo di un museo cittadino, Tesi di Dottorato in Museologia, Università degli Studi di Pisa, 2005.
Francesca Carrara, Storia della copertura lignea policroma e del controsoffitto barocco dell’aula della chiesa di San Marco, con Appendice documentaria, in La Chiesa di San Marco a Firenze. Una lunga stagione di restauri, a cura di Vincenzo Vaccaro, Polistampa, Firenze 2009, pp. 19-39.
IERI. I musei. Allestimenti storici dei Musei fiorentini nelle immagini del Gabinetto Fotografico, catalogo della mostra, a cura di Marilena Tamassia, Sillabe 2014.
Marilena Tamassia, Il Convento di San Marco al tempo di Fra Bartolomeo, in Fra Bartolomeo 1517, a cura di A. Assonitis, L. Cinelli, M. Tamassia, Nerbini, Firenze 2019, pp. 47-60.
Grazie per l’articolo, veramente puntuale e interessante. Il nuovo allestimento mi sembra raggelante, una copia di quello del Museo dell’Ospedale degli Innocenti
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Non mi era mai stato possibile, finora, avere sott’occhio un quadro generale delle trasformazioni che nel tempo hanno interessato quel luogo. Grazie Alessandro, spero che la tua vena investigativa non si esaurisca, ma continui a svelare “segreti” tanto utili a chi per la storia ha quell’amore che il Gramsci diceva l’unico strumento di comprensione del presente e di costruzione del futuro.
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Le notizie c’erano, ma erano sparpagliate a destra e manca. Rileggendo le fonti (ma ci vuole tempo e voglia) verrebbero fuori tante altre cose. Grazie!
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