Per quei fiorentini refrattari al Sei-Settecento, poiché orgogliosamente ancorati ai secoli d’oro da Giotto a Michelangelo, l’incontro col pittore Alessandro Gherardini (Firenze 1655 – Livorno 1726) può costituire una piccola ma provvidenziale folgorazione.
Almeno per me, così è stato quando, più di vent’anni fa, assunto da poco nei ranghi del Ministero, fui chiamato con alcuni colleghi a svolgere visite guidate nel chiostro grande di San Marco, allora eccezionalmente aperto al pubblico, come in questo periodo.
Sotto le volte, fra le lunette che illustrano le Storie di San Domenico, oltrepassate quelle più manierate dei primi due lati, dipinte fra il 1698 e il 1700 da un anziano Cosimo Ulivelli, ce n’è una che spicca, ben diversa dalle altre, sopra la porta dell’antica farmacia conventuale, all’inizio del terzo lato: San Domenico resuscita Napoleone Orsini caduto da cavallo. Firmato e datato: A(lessandro) G(herardini) 1700. Un’opera che sorprende per luminosità, leggerezza e movimento.
Sopra la firma, nell’angolo a sinistra, un vivace quadretto impressionistico costituisce l’antefatto: in uno spiazzo romano (si riconoscono la Piramide Cestia e forse la Basilica di Massenzio), il giovane Orsini è violentemente disarcionato, mentre fra la gente che accorre si nota una curiosa figurina seminuda in posa plastica, quasi un Mercurio.
Al centro, il miracolo: in un cerchio di nobili laici e chierici, a cui si unisce un povero ma fiero popolano inginocchiato, San Domenico benedicente resuscita il giovinetto, che siede meravigliato sulla tomba già predisposta, con tanto di teschio, mentre un angioletto osserva dall’alto reggendo uno stelo di gigli, attributo del santo. I volti taglienti, severi e barbuti, le capigliature, le ampie vesti: tutto svolazza e si gonfia, come scosso da un vento; tutto si muove rapido, come le pennellate leggere ma sicure dell’artista.
Il vecchio maestro Ulivelli sapeva quanto fosse talentuoso e moderno Gherardini, che negli anni precedenti aveva ben lavorato in chiese e palazzi di Firenze, recependo le novità introdotte da Luca Giordano. Quando se lo trovò accanto a sua insaputa (ma certo non dei frati domenicani), a dipingere quella scena impareggiabile in concorrenza con le sue “stanche” lunette, non poté fare altro che rivolgersi all’Accademia del Disegno, il “sindacato” degli artisti, chiedendo che al rivale fosse impedito di lavorare nel chiostro. Fatto sta che, malgrado l’istanza di Ulivelli, le lunette del terzo e quarto lato furono affidate a Gherardini e ai suoi collaboratori (per manifesta superiorità, verrebbe da dire).
Che poi Gherardini fosse un genio artistico, ma anche inquieto e sregolato, come rivelano diversi episodi della sua vita, lo conferma anche il fatto che a San Marco, una volta ottenuta la commissione, forse per procedere veloce o per qualche singolare sperimentazione, preferì usare incautamente la tecnica dell’olio su intonaco, che ha causato il deperimento, in pochi anni, delle altre otto lunette del terzo lato (l’unica sopravvissuta, quella del miracolo di Napoleone Orsini, è infatti un vero affresco). Si sono conservate, fortunatamente, le lunette del quarto lato, realizzate dai collaboratori Sebastiano Galeotti, Niccolò Lapi e Antonio Leoni, che, seppur meno estrosi del maestro, riescono a dare un buon esempio del nuovo stile.
Il talento moderno di Gherardini riappare in alcuni medaglioni con i Santi e Beati domenicani, uomini e donne, che decorano i peducci delle volte del chiostro. Si distinguono, per varietà espressiva e ricchezza delle cornici, la Beata Villana delle Botti, il Beato Ceslao Polacco e, con un tocco macabro, il Beato Niccolò di Tolosa.
L’attività di Gherardini a San Marco non termina nel chiostro grande di San Domenico. Salendo al primo piano del museo, sopra la porta di accesso alle celle di Savonarola, ecco un’altra opera entusiasmante: un affresco staccato con la Gloria di Santa Caterina da Siena trasportata in Cielo (1701). Il turbine di nubi e angeli che sfondano la cornice, i colori diafani e gli scorci arditi enfatizzano il senso di aerea leggerezza e sembra proprio di volare in alto con la santa senese.
L’ovale decorava in origine il piccolo soffitto della Cappella del Giovanato, dedicata a Savonarola alla fine dell’Ottocento, con il monumento di Dupré al posto dell’altare. I domenicani, ai primi del ‘700, vi avevano portato alcune opere conventuali di Fra Bartolomeo, tra cui le tegole affrescate con teste di santi, oggi a pian terreno. Gherardini ne aggiunse una di sua mano (attualmente non esposta): un San Giovanni Battista bellissimo, quasi un Cristo cinematografico.
Per la farmacia del convento, inoltre, Gherardini dipinse un San Pietro Martire, da riconoscere senza dubbio in una tela non grande, di sorprendente intensità, conservata nei depositi del museo.
Che l’arte nuova di Gherardini fosse molto apprezzata dai frati di San Marco lo prova il fatto che, una quindicina d’anni dopo, l’artista fu nuovamente chiamato per un incarico importante: affrescare, in chiesa, l’interno della cupola eretta da poco sopra il nuovo coro. Il risultato, databile al 1717, è una vertiginosa scena di beatitudine paradisiaca, che spesso viene interpretata erroneamente (sulla scia del biografo Baldinucci) come Gloria di Santa Maria Maddalena. In realtà, si tratta di una visione dell’Empireo con al culmine la Trinità fra angeli, verso cui converge una spirale di figure concitate: il posto d’onore spetta alla Vergine Maria con San Giuseppe, Maria Maddalena, Domenico e Giovanni Battista, assieme ai santi domenicani. Nei peducci della cupola, i quattro monumentali Evangelisti.

Poco importa che i contemporanei lodassero gli Evangelisti ma non la grande scena principale, perché l’effetto nel suo insieme resta senza dubbio straordinario e meritevole di una maggiore considerazione.
Assieme ai competitors Pier Dandini e soprattutto Anton Domenico Gabbiani, Alessandro Gherardini fu tra i massimi artisti fiorentini a cavallo fra Sei e Settecento, forse il più estroso e inventivo. “Vero erede di Luca Giordano a Firenze nella velocità dell’ideazione e del tocco” (M. Gregori), con il suo talento eccentrico seppe sollevarsi dalle pesantezze della tradizione barocca e aprire una via, autenticamente personale, verso l’arte ariosa del nuovo secolo.
Alessandro Santini
Le immagini fotografiche sono dell’autore
Per saperne di più:
Gerhard Ewald, Il pittore fiorentino Alessandro Gherardini, “Acropoli. Rivista d’arte”, anno III (1963), fascicolo II, pp. 81-132.
Francesco Saverio Baldinucci, Vita del pittore Alessandro Gherardini, in F.S. Baldinucci, Vite di artisti dei secoli XVII-XVIII, a cura di Anna Matteoli, Roma 1975, pp. 400-412.
Mina Gregori, La pittura a Firenze nel Seicento, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano 1989, I, pp. 279-324.
Monica Bietti Favi, La pittura nella Chiesa di San Marco, in La Chiesa e il Convento di San Marco a Firenze, II, Firenze 1990, pp. 245-246.
Silvia Meloni Trkulja, Pittura del Settecento nel Chiostro di San Domenico, nel Convento, nel Museo, in La Chiesa e il Convento di San Marco a Firenze, II, Firenze 1990, pp. 347-362.
Gherardini, Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, autore Stefano Coltellacci, vol. 53, anno 2000.