Il museo di San Marco visto dalla Spagna: un’eredità da preservare e trasmettere

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la sintesi di un contributo inviatoci da María De Mota Sànchez, studentessa spagnola del Master di Estudios Avanzados de Museos y Patrimonio Histórico-Artistico dell’Università di Madrid. Un Master che fornisce una formazione teorico-pratica di carattere fortemente interdisciplinare, per gestire e amministrare progetti all’interno di istituti museali.

Per il corso “Musei archeologici, medievali e sacri” ho fatto la mia presentazione sul Museo di San Marco, che avevo visitato più volte durante il mio Erasmus a Firenze rimandendone profondamente impressionata. Mi ero innamorata della sacralità che si respira nei corridoi del dormitorio, con le celle dipinte dall’Angelico, ed ero rimasta colpita dalla razionalità dell’architettura e del sistema di chiostri di Michelozzo. È raro che un museo sia anche un luogo di pace spirituale dove concedersi una sosta; e sebbene non sia né un museo “archeologico”, né un museo “medievale” o “sacro” in senso stretto, l’ho scelto per la mia ricerca.

Inoltre, volevo che i miei compagni di corso lo conoscessero, poiché in Spagna Fra Angelico è molto apprezzato per l’Annunciazione del Prado e, recentemente, per la Madonna della melagrana o Madonna Alba, entrata anch’essa a far parte della collezione del Museo madrileno (vedi gli articoli del blog), ma molti spagnoli non sanno che esiste il Museo di San Marco, anche quando sono già stati a Firenze.

Nascita di un museo: l’Ottocento

San Marco fa parte dei musei europei di istituzione ottocentesca legati alle idee di educazione del popolo e di costruzione delle identità nazionali o regionali nate durante l’Impero Napoleonico, che favoriva le prime ma negava le seconde. Il “Museo Fiorentino di San Marco” fu inaugurato il 15 ottobre 1869, dopo tre anni di restauro e adeguamento architettonico alla sua nuova funzione, ed essere stato dichiarato proprietà dello Stato dal R.D. del 7 luglio 1866, con successiva legge del 15 agosto 1867, rientrando così nell’affollata categoria dei musei italiani nati a seguito delle soppressioni degli ordini religiosi del 1866.

Più che per la volontà di offrire al popolo delle opere d’arte, come nel caso del Museo Archeologico Nazionale Fiorentino, fondato negli stessi anni, questo convento diventa museo, paradossalmente, per poter essere salvato dalla distruzione. Infatti, durante l’annessione della Toscana all’Impero Napoleonico (1808-1813), si confiscano i beni agli ordini religiosi e i frati devono abbandonare San Marco. Nel 1812 il complesso rischia di essere totalmente demolito per realizzare una grande piazza d’armi. Questo pericolo dà origine a una grande mobilitazione popolare guidata da Giovanni degli Alessandri, presidente dell’Accademia di Belle Arti e futuro direttore delle Gallerie fiorentine, che rivolge alle autorità d’Oltralpe un’accorata arringa contro il Decreto Imperiale, in cui spiega chiaramente il significato storico, culturale, e religioso del convento (leggi il testo dell’arringa).

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Monumento funebre intitolato a Giovanni Degli Alessandri (1765-1830), Chiostro di Sant’Antonino

Spesso abbiamo bisogno, come società, che un edificio stia per essere abbattuto, che un bene culturale sia in pericolo, per renderci conto del suo valore.

In seguito alla paventata distruzione del convento, l’edificio funge, per pochi anni, da deposito di opere d’arte e di scienza e da locale di servizio dell’Accademia di Belle Arti.

Dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia nel 1813, Ferdinando III di Lorena rientra a Firenze e i padri domenicani avanzano al Granduca un’istanza di restituzione della loro storica sede, ottenendola nel 1817.

 Negli anni che precedono l’Unità d’Italia i domenicani sono impegnati su due fronti. Da una parte, il ripristino dell’architettura michelozziana, fortemente danneggiata dall’incuria e dal semi-abbandono; dall’altra la promozione di un programma culturale di rilancio dell’importanza storica, religiosa e artistica del convento, nel panorama cittadino.

Sono gli anni caratterizzati dal lavoro culturale di Padre Vincenzo Marchese, autore di un’imponente produzione letteraria, storica e critica: si ricordino la sua prima grande opera Le memorie dei più insigni Pittori, Scultori e Architetti Domenicani e soprattutto il suo volume San Marco convento dei padri predicatori in Firenze, corredato da numerose incisioni degli affreschi angelichiani, presentato con successo all’Esposizione Universale di Parigi nel 1855.

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Padre Vincenzo Marchese (1808-1891), visse tra il 1841 e il 1851 al Convento di San Marco, da cui venne espulso per i suoi rapporti con i liberali.

Nel 1862 il convento è temporaneamente occupato dalle truppe inviate a Firenze per l’arrivo del re d’Italia; nel 1865 un’ala dell’edificio viene destinata a ospitare il personale del Ministero delle Finanze; quattro anni più tardi tutto il complesso diventa proprietà dello Stato italiano.

L’apertura del museo avviene negli anni di Firenze Capitale, con un spirito duale proprio del contesto storico risorgimentale.

Da un lato si vuole celebrare l’Unità italiana, recuperando, per esempio, la memoria di  Girolamo Savonarola – il cui quartiere viene ricostruito secondo un gusto storicistico e arricchito dalle donazioni di collezionisti fiorentini –  personaggio che incarna i valori di libertà, patriottismo, difesa della repubblica fiorentina contro la tirannide medicea, e resistenza verso il potere papale di Alessandro VI Borgia. Valori con una forte connotazione ideologica, funzionali alla fondazione della nazione.

Dall’altro lato, il processo di musealizzazione conseguente alle soppressioni sabaude, si inscrive in una dimensione territoriale circoscritta di fiero recupero delle tradizioni locali e corrisponde all’elaborazione di un nuovo tipo di museo “civico”, legato a un senso di orgoglio municipale di cui San Marco, come “tempio delle virtù cittadine”, diviene punto di riferimento culturale per la popolazione autoctona, in risposta alla spinta accentratrice dell’Unità d’Italia.

Quartiere di Savonarola, allestimento ottocentesco
Quartiere di Savonarola, allestimento museografico ottocentesco

 Il museo di Beato Angelico

Il Museo di San Marco ha attraversato numerose vicissitudini; continue trasformazioni della sua concezione, in base alle correnti di pensiero e alle tendenze del gusto che di volta in volta ne hanno valorizzato o oscurato componenti diverse, a riprova del fatto che l’istituzione museale è uno specchio della temperie storica in cui sorge; nella fattispecie dei cambiamenti sociali, culturali e politici che hanno percorso l’Italia e Firenze, dalla metà del XIX secolo ad oggi.

Dal museo di Savonarola al museo del Beato Angelico, dalla raccolta delle memorie domenicane all’architettura rinascimentale michelozziana, le diverse fortune del complesso di San Marco sono rimaste per tanto tempo inosservate rispetto ad altre realtà museali fiorentine, per attirare nuovamente l’attenzione degli esperti in tempi recenti, anche nel mondo accademico.

 Il Museo di San Marco a Firenze: Origini e sviluppi di un museo cittadino di Isabella Ponsiglione, tesi di dottorato del 2002-2004, fonte imprescindibile della mia ricerca,  oltre ad analizzare il museo sulla base di criteri museologici, ripercorre la sua storia dall’inizio del XIX secolo al 1955, data emblematica per la grande Mostra delle opere del Beato Angelico nel quinto centenario della sua morte, occasione per la quale il museo fu sottoposto a importanti lavori di restauro e modifiche dell’allestimento (le tavole dell’artista furono spostate nel Refettorio grande). In questo periodo, in concomitanza anche con la fortuna critica crescente del frate pittore, San Marco si trasforma progressivamente nel museo dell’Angelico.

catalogo mostra angelico 1955
Copertina del catalogo della Mostra dedicata a Beato Angelico nel 1955

Ancora oggi, nonostante si cerchi di valorizzare tutti gli aspetti del museo, la sua architettura, i personaggi della memoria domenicana e artistica fiorentina (Sant’Antonino Pierozzi, Girolamo Savonarola, Domenico Ghirlandaio, Fra Bartolomeo, Fra Paolino, Suor Plautilla Nelli, Zanobi Strozzi, Benozzo Gozzoli, Paolo Uccello, Bernardino Poccetti, ecc.), i visitatori vengono attirati dai magnifichi affreschi angelichiani e quasi non si accorgono delle altre opere della collezione.

Sebbene sia importante conoscere la storia del museo per comprendere in che modo si sia trasformato fino ai nostri giorni, è opportuno anche domandarsi perché una tesi di dottorato in museologia, un lavoro meticoloso, ricchissimo di documenti trascritti, non si sia spinta più tardi del 1955, nel ricostruirne le vicende. Ovviamente, circoscrivere l’arco di tempo cronologico di una ricerca è una scelta. Ma a me sembra che questa scelta sia significativa di una tendenza di lungo periodo: è come se il museo fosse ancora oggi fermo a metà del XX secolo.

Ospizio
Ospizio dei Pellegrini negli anni Venti del Novecento

Infatti, non sono riuscita a trovare nessun libro o articolo riguardante il museo in quanto tale dagli anni Ottanta in poi. C’è una letteratura sterminata sugli affreschi dell’Angelico, il restauro del complesso monumentale, la storia della chiesa e del convento, della Biblioteca, del mecenatismo mediceo, su Savonarola, Fra Bartolomeo e la scuola di San Marco, ma niente sul luogo nelle sue funzioni museali.

Benché è certo che il lavoro di Giorgio Bonsanti e Magnolia Scudieri, come direttori per più di un trentennio (1983-2014), sia stato straordinario per il restauro di quasi tutta l’opera di Beato Angelico, il riordinamento e la restituzione di nuovi ambienti al pubblico (l’Ospizio, la Biblioteca, l’allestimento di due nuove sale dedicate una a Fra Bartolomeo, l’altra, detta dello Stendardo, agli artisti contemporanei dell’Angelico), non si può dire che lo sia stato nel senso della museografia e della valorizzazione, intese come possibilità di connessione tra opere d’arte e civitas, tra bellezza e costruzione di un’identità civile.

Per me questa sorta di conservatorismo sul piano museografico e quindi valoriale, può essere una conseguenza del fatto che gli specialisti italiani, storici dell’arte e addetti ai lavori, considerano San Marco ancora come un antico convento o, forse, come una specie di splendido “magazzino della memoria”. Si affidano alle sole opere d’arte trattandole come reliquie da conservare in modo statico (è ancora diffusa la retorica dell’arte che “parla da sé”), senza sforzarsi di progettare una mediazione qualificata, una comunicazione efficace, un più adeguato allestimento museografico.

D’altro canto è istruttivo che rimangano esempi della museografia ottocentesca, soprattutto nella Foresteria, dove possiamo apprezzare una testimonianza delle teorie e della pratica museografica di Guido Carocci, uno dei direttori più importanti del museo (1891 -1916), che ha portato a San Marco i resti del vecchio centro medievale di Firenze per salvarli dalla dispersione, creando il “Museo di Firenze Antica”. Ma a parte questi esempi di archeologia museale, è lecito chiedersi: quale traccia, quali contenuti San Marco lascerà del presente? Qual è l’attuale mission del museo? Qual è la sua incidenza nella sfera pubblica?

Chiostro Sant'Antonino nell'Ottocento
Chiostro di Sant’Antonino alla fine del XIX secolo

Virtualità e criticità

Il Museo Nazionale di San Marco ha valori importantissimi, come la propria collezione di affreschi, unica al mondo, la sua architettura, le sue numerose testimonianze materiali e immateriali, la sua storia stratificata e complessa, la sua eredità morale.

La specificità del museo risiede nella formidabile contestualizzazione della sua collezione, nella sua capacità di trasportarci in un’altra epoca; le pitture murali le vediamo esattamente dove sono state pensate ed eseguite, da artisti che hanno vissuto e lavorato proprio in questo edificio. Si tratta di un’opera d’arte totale, dove l’eccezionale spazio architettonico è inscindibile dai dipinti, si potrebbe quasi definire un “site-specific”.

Il fatto che sia un “museo contestuale” fa sì che conservi la sua originaria aura spirituale, un valore intangibile difficile da trovare in un museo “generalista”. Inoltre, il numero contenuto dei suoi visitatori, rispetto a quello delle gallerie blockbuster di Firenze, è il presupposto per sviluppare un più articolato e proficuo rapporto col pubblico, mediante proposte culturali diversificate per fasce di età, provenienza e interessi.

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Sala Capitolare

In sintesi, San Marco avrebbe bisogno di una spinta nella relazione con il visitatore, nella trasmissione dei suoi contenuti e, soprattutto, di un nuovo allestimento espositivo e illuminotecnico.

Per quanto riguarda la comunicazione, dovrebbe avere un sito web ufficiale, agile e piacevole, con notizie, informazioni e articoli sulle attività, gli eventi e le iniziative che si svolgono al suo interno. Sarebbe utile, anche, avere a disposizione, all’ingresso, pieghevoli, brochure con informazioni chiare e concise.

Sebbene non sia facile, è molto importante costruire una narrazione ampia e multidisciplinare, perché quella attuale, dove è riconoscibile, è prevalentemente orientata alla pittura angelichiana.

Nei due piani del museo si (ri)utilizzano gli antichi nomi degli ambienti del convento per indicare le sale, così da mantenere lo spirito della funzione antica dell’edificio. Bene, però deve essere chiarito, con pannelli informativi in più lingue, il contenuto di ciascuna sala, in modo da facilitare la comprensione delle connessioni tra il vecchio convento e la storia culturale (fiorentina e italiana),  la nascita della pittura moderna e gli artisti che vi hanno preso parte. Per esempio, la Sala del Lavabo potrebbe essere indicata più esplicitamente come la sala dedicata all’opera di Fra Bartolomeo, per aprire il percorso alla Sala della “Scuola di San Marco” del Refettorio grande, che trova appunto nel magistero artistico di Bartolomeo della Porta il suo modello e la sua origine; la sala dell’Ospizio dei Pellegrini come la pinacoteca angelichiana, ecc.

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Refettorio Grande negli anni Venti del ‘900

In generale il museo è ben fruibile, considerato che si tratta di un complesso monumentale quattrocentesco, grosso modo rimasto invariato. Ma anche se esiste una cartellonistica informativa di base negli ambienti più grandi (ci sono quattro planimetrie in tutto: all’ingresso, all’uscita, al primo piano e nel Chiostro della Spesa), non esistono per ogni sala indicazioni per orientarsi; manca una sistemazione delle opere secondo un criterio cronologico, iconografico o estetico. Le didascalie, fatta eccezione per le tavole di Beato Angelico nella sala dell’Ospizio, sono scritte solo in italiano. Sarebbe importante realizzare una divulgazione eloquente: raccontare per ciascuna opera come si colloca all’interno della pittura moderna, le sue relazioni con la teologia domenicana, la società e la storia locale. Ipotizzare quello che oggi si definisce uno storytelling, in cui testimonianza, memoria e bellezza si compenetrino.

L`accessibilità al museo è sufficientemente garantita. Non c`è un ascensore, ma un montacarichi per il quale ci si deve rivolgere al personale di sala perché si trova dove sono gli uffici; al primo piano c’è una copia in bassorilievo dell’Annunciazione di Fra Angelico per gli ipovedenti.

Per quanto riguarda le iniziative che il museo promuove, a parte le visite guidate a cura del personale, ci sono mostre temporanee in occasione di un restauro, della presentazione di nuove acquisizioni dello Stato, per ragionare su opere meno note della collezione interna, o nuovi nessi tra esse. Queste mostre, negli anni,  hanno permesso l’allargamento dell’orizzonte conoscitivo del museo, ma spesso in una prospettiva elitaria, piuttosto che popolare.

Le conferenze periodiche di esperti (le Conversazioni) aperte alla cittadinanza su temi legati alla collezione, soprattutto alla pittura dell’Angelico, sono un’iniziativa dell’attuale direzione, che rilancia la funzione eminentemente civile della Biblioteca di Michelozzo, centro di diffusione del sapere umanistico per oltre tre secoli.

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Cenacolo del Ghirlandaio

Il punto di maggiore criticità è l’ubicazione del bookshop nella sala del Cenacolo di Domenico Ghirlandaio, artista specializzato nel tema dell’Ultima Cena, che a San Marco realizza una delle sue prove migliori. Il visitatore non riesce ad apprezzare al massimo l’affresco, percependolo come residuale rispetto al commercio di gadget e cartoline. Sarebbe auspicabile riportare il negozio dove era prima degli anni duemila, nel vestibolo che conduce alle scale, o verso l’uscita. Il secondo punto di criticità è proprio l’uscita: con due rampe di scale, due barriere architettoniche, che costringono i disabili a fare marcia indietro e uscire dall’ingresso.

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Uscita del Museo su Via della Dogana

Concettualmente, il museo sembra fermo agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando si proponeva al pubblico come il museo dell`Angelico. Ora, se si vuole un museo che valorizzi tutti i personaggi che hanno contribuito a determinare la grandezza di San Marco, questo obiettivo si può perseguire solo iniziando un discorso generale di ricerca e comunicazione, non certo inseguendo un modello museale che punta su artisti feticcio per attirare i turisti.

Facendo un paragone con i musei spagnoli, è singolare che San Marco venga dichiarato museo “nazionale”: sembrerebbe di più un museo “ecclesiastico”, dal punto di vista della gestione. Probabilmente questa mia percezione, questa personale lettura, dipende dalla diversa amministrazione dello Stato spagnolo rispetto a quello italiano. La Spagna, Stato nazionale dal XV secolo, dopo la dittatura franchista, estremamente centralista, è diventata anche troppo separata per regioni, le quali hanno tutte le competenze in materia di politica culturale. Infatti, sono pochissimi i musei gestiti dallo Stato, e di solito sono i più grandi e importanti, come il Prado. L’Italia, invece, che come Stato Unitario ha poco più di centocinquant’anni e ha una secolare tradizione municipale, è più centralista nell’amministrare i suoi beni culturali, anche perché in passato ha dovuto contrastare la dispersione del suo patrimonio; per questo, nonostante i moltissimi musei civici, ci sono numerosi musei statali, anche di piccole dimensioni, per tutto il territorio nazionale.

Conclusioni

È evidente che i musei sono troppo importanti per lasciarli soltanto ai loro dirigenti. Tuttavia, la mancanza di una gestione non solo esperta di conservazione e tutela ma anche di museografia, per lo meno nelle sue forme più aggiornate, multimediali e partecipative, è a mio avviso uno dei punti di maggiore debolezza di questo museo. Così come lo è l’assenza di una sezione didattica interna, con spazi propri, attraverso cui promuovere attività educative rivolte alle diverse tipologie di pubblico, soprattutto quello residente, che poi è il più difficile da intercettare e convocare.

Il personale dovrebbe essere messo nelle condizioni di condurre progetti qualificati di mediazione culturale (il blog è un buon inizio). I visitatori di solito non sanno che il personale è disponibile e competente: sarebbe utile creare un punto informazioni che orienti e dia indicazioni.

San Marco è un luogo molto speciale, non esaurisce la realtà fiorentina ma ne rappresenta un pezzo fondamentale. È una fortuna che sia arrivato intatto ai nostri giorni dopo tante traversie storiche, politiche e amministrative; per questo è importante che tutte le sue potenzialità siano valorizzate, per trasmettere ai visitatori, che da tutto il mondo vengono ad ammirarlo, lo spirito umanistico dell’antico convento domenicano, polo culturale della civiltà occidentale per almeno quattro secoli.

María De Mota Sànchez

Ringrazio Isabella Ponsiglione per avermi generosamente messo a disposizione la sua tesi di dottorato, la mia amica Anne Sophie Andelfinger per avermi aiutata nella traduzione dallo spagnolo, e infine Carmelo Argentieri per il paziente lavoro di editing.

Chiostro di Sant'Antonino negli anni Sessanta

 

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