Ecco Silvia! Finalmente una giornata tutta per noi. Siamo subito d’accordo col regalarci una colazione come si deve: cappuccino e brioche sedute al tavolino di un bar. Un lusso di tempo che nessuna delle due si concede mai, abituate come siamo a un caffè macchiato al banco, trangugiato al volo. Le racconto subito di come ho ingannato il tempo aspettandola. Lei, ovviamente, per il suo lavoro di guida è stata molte volte a San Marco ma non sapeva che il personale svolgesse delle visite guidate. Spesso le capita di avere gruppi, soprattutto di francesi che, grazie alla profonda simpatia per Beato Angelico, le chiedono espressamente di visitare San Marco. Almeno una volta le piacerebbe visitarlo da turista, per scoprire magari qualche aspetto inedito, del luogo, o qualche curiosità; ma anche per ravvivare le sue, di visite, che dopo tanti anni recita ormai a memoria.
Terminata la nostra colazione e data un’occhiata ai giornali, anche questa abitudine oramai persa negli ultimi anni, ci alziamo e ci dirigiamo verso un paio di negozi che da tempo non visitiamo. Una volta avevamo l’abitudine di trascorrere in centro il sabato pomeriggio. Non sembra, ma sono passati già trent’anni da allora. Eravamo quattro amiche e, come se seguissimo un copione, tutti i sabati pomeriggio passavamo in rassegna gli stessi negozi, quasi sempre senza comprare niente ma godendo della nostra reciproca compagnia come solo a quell’età si riesce a fare. Lo spirito oggi è diverso, noi siamo diverse, ma io e Silvia ci intendiamo sempre, anche in silenzio, anche solo con un’occhiata.
Mezzogiorno si sta avvicinando e decidiamo di tornare a San Marco. Varchiamo la soglia del museo e, già dalla sua prima porta vetrata all’ingresso, mi sembra di tornare indietro nel tempo. Stamani non ci avevo fatto caso, forse la mia urgenza di cercare un bagno era troppo impellente, ora invece mi accorgo, appena entrata, che la biglietteria ha una piccola finestra che, con la sua antica cornice in legno, sembra offrire al visitatore uno sguardo sul passato. Come attraverso lo schermo di un piccolo e antiquato televisore, il volto incorniciato da piccoli e fitti ricciolini biondi, Carla, l’addetta alla biglietteria, ci sorride ricordandoci che è appena iniziata la visita guidata gratuita a cura di uno degli assistenti del museo.
Poco oltre l’ingresso, un gruppetto di persone circonda un giovanotto in camicia azzurra, di nome Sergio, che sta già spiegando come il chiostro sia intitolato a Sant’Antonino, primo priore del Convento di San Marco, poi diventato arcivescovo di Firenze. L’antico edificio trecentesco, ristrutturato dall’architetto Michelozzo dietro incarico della famiglia Medici, ora è il Museo di San Marco. Ammirare un museo all’interno di un’architettura che una volta era un convento fa correre la mia fantasia e, con la coda dell’occhio, mi sembra di intravedere un frate domenicano, nella sua tipica tonaca bianca e la grande cappa nera, passarci alle spalle ed entrare nella prima porta sulla destra. Sicuramente si è trattato di uno scherzo della mia immaginazione perché, come ci spiega la nostra guida, i frati del convento ormai sono pochissimi e vivono nelle zone del complesso monumentale chiuse al pubblico. Entriamo nella prima sala alla nostra destra, un tempo Ospizio dei pellegrini, dove è esposta la maggior parte delle opere su tavola del Beato Angelico, grande artista ma anche frate domenicano, che a San Marco ha a lungo lavorato e talvolta soggiornato, preferendo, per vivere, il più piccolo e isolato convento di San Domenico sotto Fiesole.
Appena entrata vengo rapita dalle storie del nostro cicerone, che descrive i cambiamenti nel tempo delle opere dell’Angelico, soffermandosi sulle sue abilità di miniaturista. Resto impressionata dalla delicatezza del finissimo bordo ricamato in oro di certe vesti femminili, dalla capacità di rappresentare i singoli fili d’erba di un prato, dalle vene delle mani di alcuni personaggi che, per il loro realismo, sembrano quasi in rilievo.
Mentre il mio sguardo vaga alla ricerca dei particolari, mi distraggo e non mi accorgo che Silvia si è allontanata dal gruppo per salutare una persona che poi viene a presentarmi. Si chiama anche lei Silvia ed è una restauratrice. E’ minuta, con luminosi capelli castani che le cadono sulle spalle, ha una voce che sembra quella di una bambina; non rappresenta proprio l’immagine che mi ero fatta di una restauratrice, come se poi le restauratrici dovessero corrispondere a qualche stereotipo. Le due Silvie sono state compagne di scuola e ora la Silvia restauratrice sta lavorando al restauro della pala di Annalena dell’Angelico. Ci spiega, infatti, che all’interno del museo c’è un locale adibito a laboratorio dove lei può dedicarsi a questa delicata e attenta attività. Si dilunga a parlarci dei materiali usati, delle tecniche, delle indagini diagnostiche, delle quali io non so praticamente niente. Mi sorprendo tuttavia a riflettere su come sia immensa la responsabilità di una persona che svolge un lavoro così impegnativo che, se affrontato con leggerezza o imperizia, rischierebbe di privare tutti noi di un patrimonio di valore inestimabile. Le sottopongo la mia riflessione e lei mi tranquillizza dicendo che oggi, fortunatamente, la tecnologia mette a disposizione molti strumenti che consentono di valutare attentamente le operazioni da effettuarsi in ogni fase del restauro. Mi piacerebbe enormemente poter sedere alle sue spalle mentre lavora. Mi vedo appollaiata su uno sgabello ad osservare gli strumenti che usa, i solventi per pulire le tavole, i tempi di lavorazione. Sono sicura che potrei starci delle ore.
Fermandoci a parlare con la Silvia restauratrice, ci siamo perse una parte della visita guidata. Il gruppo è già uscito dalla sala del Lavabo e sta entrando nella sala del Capitolo. Entriamo anche noi: l’affresco della Crocifissione del Beato Angelico è immenso, occupa l’intera parete di fondo della sala, il cui perimetro è interamente circondato da sedili in legno scuro, dove sedevano i frati, quando si riunivano, più volte al giorno.
Restiamo in silenzio a contemplare un vero capolavoro. Si dice che l’autore stesso, nel realizzarlo, si commosse.
La nostra guida ci invita ad avvicinarci il più possibile per osservare un piccolo particolare scoperto solo di recente. Alla base dell’affresco, nella sua zona centrale, proprio sotto il tondo dove è ritratto il fondatore dell’ordine San Domenico, all’interno del tronco della vite che si allunga con i suoi tralci ad avvolgere tutti gli altri domenicani illustri, si intravede un Cristo crocifisso. E’ una figuretta piccola, quasi accennata, come se fosse stata impressa. Mi ricorda l’immagine di Gesù sulla Sindone… È proprio all’altezza dei nostri occhi; si tratta di un affresco già restaurato in anni passati, chissà quante volte ammirato, eppure nessuno, fino a pochi anni fa, aveva notato questo particolare. E’ proprio vero che la nostra mente vede solo ciò che vuol vedere.
All’interno della sala fa anche bella mostra di sé un’enorme campana. E’ la Piagnona e il suo buffo nome, che non avevo mai sentito, rimanda ai seguaci del frate domenicano Girolamo Savonarola, detti appunto Piagnoni. Savonarola, altro famoso priore di questo convento, dai pulpiti di San Lorenzo e del Duomo predicava denunciando la corruzione della Chiesa di Papa Alessandro VI e la politica autoritaria dei Medici. Dopo che Savonarola fu messo al rogo in Piazza della Signoria con l’accusa di eresia, anche la campana che lo rappresentava, suonando per richiamare i fiorentini in suo soccorso, venne tirata giù dal campanile del convento, portata in giro per la città, punita a frustate e, infine, mandata in esilio nella chiesa francescana di San Salvatore al Monte, i cui frati si erano opposti al Savonarola.
Non conoscevo questa storia e il curioso nome di questa campana. Credo che piacerebbero molto ad un bambino di mia conoscenza che in quanto a lagne e piagnistei è un grande esperto. Uno di questi giorni porterò anche lui a vedere la Piagnona e il piccolo crocifisso nascosto.
A pensarci bene, il nomignolo di piagnoni si addice bene anche ai fiorentini, che un po’ lamentosi in effetti lo sono: non gli va mai bene niente! E anche questo mi ricorda il solito bambino, non a caso fiorentino.
Ora però si è fatto tardi. Per pranzo io e Silvia abbiamo un appuntamento con due amiche. Tornerò a San Marco in compagnia di qualcun altro, oppure potrei tornare con Silvia e i nostri pargoli. Basta che non passi troppo tempo, perché ormai questo museo comincia ad appassionarmi, con le sue storie e i suoi personaggi.
Paola Giannò
Vai alla puntata precedente: Una mamma al museo, prima puntata
Paola Giannò, fiorentina, lavora per una grande società di assicurazioni. Ama la sua famiglia, leggere, viaggiare, cucinare e dedicarsi a svariate attività artigianali e creative. Ha sempre scritto, anche quando i racconti e i personaggi da cui era abitata non venivano tradotti in parole su carta.
Ciao Paola hai proprio ragione; il percorso ti appassiona. Merito anche del tuo modo di raccontare opere e avvenimenti inserendoli nel contesto storico così importante per Firenze (e’ non solo). Aspetterò con impazienza la prossima puntata perché so già che non mi deluderà. Grazie Paola. A presto.
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c’è passione in quello che scrivi e riesci a coinvolgere chi Ti sta leggendo.
E’ stata una piacevole scoperta. Continua così …. aspetterò con grande piacere la terza puntata.
donatella
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Signora, i fiorentini non sono ne “piagnoni” ne lamentosi, sono storicamente polemici. A parte questo grazie per le sue piccole cronache.
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