“L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, delle carte, dei quadri che stipavano un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto. Forse hanno ciecamente lottato … Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura di nafta e sterco. Certo hanno sofferto tanto prima di perdere la loro identità”. Così Eugenio Montale, nel novembre del 1966, si riferiva ai libri e ai cari oggetti di una vita perduti con l’alluvione di Firenze.
Forse, ha “ciecamente lottato” anche un Cristo di legno dipinto, oggi al Museo di San Marco, prima di “perdere la sua identità”. Prima di essere rapito dalle acque e dal fango, portato via chissà da dove, trascinato dalla corrente per le campagne e per la città, prima di essere ripescato chissà dove da qualche angelo.
Apolide e senza documenti, ferito e sporco, il Cristo fu trasportato nel ricovero mediceo di Villa Petraia, assieme a una miriade di altri profughi alluvionati, soprattutto oggetti sacri e arredi lignei. Vittime anch’essi, ma non così illustri come il Crocifisso di Cimabue o gli incunaboli della Biblioteca Nazionale. Vittime presto dimenticate nei depositi della villa, ancora malconce, private di memoria e mai reclamate da chicchessia.
Solo trent’anni più tardi, nel 1996, Il Cristo ligneo esce dall’anonimato. L’eccezionalità e la non comune bellezza, nonostante i danni del fango e del tempo, sono finalmente notate. La scultura, per la prima volta, viene presentata al pubblico nella mostra intitolata Salvate dalle acque (Firenze, Palazzo Vecchio), assieme a una cinquantina di compagni di sventura più o meno noti, fra cui spiccano, restaurati, la Maddalena lignea di Donatello e la Creazione di Adamo ed Eva di Ghiberti dalla Porta del Paradiso. Nel catalogo della mostra, ecco la prima fotografia, in bianco e nero: ancora rifugiato nel ricovero di Villa Petraia, circondato da oggetti accatastati, reso ancor più sofferente, più “cristico”, da una seconda corona di spine, non pertinente, che, curiosamente, gli è stata imposta in aggiunta alla sua, scolpita.
La testa girata da un lato, le braccia e le mani (monche) dall’altro, un gesto enigmatico quasi di danza che percepiamo anomalo e incompiuto, se non ipotizzando la presenza, in origine, di qualcos’altro tenuto tra le mani. Una croce, di sicuro.
Nella scheda della mostra del 1996 viene descritto come “splendida e rara scultura” in legno policromo, da interpretare come Cristo Portacroce, riferibile ad uno “scultore toscano del sec. XIV”. Assieme ad un appello accorato, come quelli che vengono affissi quando si è smarrito qualcosa di prezioso: “nella speranza di poter sia ritrovare notizie sulla sua originaria provenienza, sia reperire i fondi necessari al restauro”. L’appello, fortunatamente, non cadde nel vuoto. Nel 1998, un lodevole finanziamento privato ne consentì la pulitura e il restauro. Salvando il salvabile e, allo stesso tempo, facendo luce su quanto è irrimediabilmente andato perduto.
Solo nel 2006, nel quarantennale dell’alluvione, con una cadenza tipicamente italica legata alle grandi ricorrenze (a cui neppure chi scrive è riuscito a sottrarsi), il Cristo portacroce, ormai restaurato, torna al centro dell’attenzione. E lo fa da protagonista. È, infatti, l’opera più importante della mostra Piccoli tesori alluvionati. Un patrimonio da non dimenticare, il cui catalogo ne fornisce un’accurata scheda. La mostra si tiene al Museo di San Marco, nella Biblioteca di Michelozzo.
Già, il Museo di San Marco. Ecco l’ultimo approdo del Cristo ligneo. Senza casa, senza origini, travolto dalle acque e tratto in salvo, trasferito prima “nel campo profughi” di Villa Petraia e poi, quarant’anni dopo, nell’ex convento di piazza San Marco. Alloggio a cinque stelle, si intende. Ma pur sempre un rifugio.
Sono passati altri dieci anni, ormai 50 dall’alluvione. E il Cristo è sempre a San Marco, ricoverato nel cosiddetto “Museo di Firenze antica”, in una stanza della Foresteria dell’ex convento, in compagnia dei frammenti sopravvissuti al “risanamento” di fine ’800. Anch’essi vittime di devastazioni, ma stavolta il fiume e le piogge non hanno colpe.
Il Cristo, nessuno lo ha mai reclamato, né una chiesa, né un museo, né un collezionista: eterno rifugiato senza documenti, adottato dal museo di Beato Angelico. Gli offriamo questo piccolo omaggio, nel cinquantennale dell’alluvione di Firenze. Convinti che la sua storia, il suo valore artistico e soprattutto la sua enigmatica bellezza meritino davvero un’attenzione più grande e una decisa rivalutazione.
Ai raggi X
Alta 1 metro e 65 centimetri, la scultura è stata ricavata da un tronco di pioppo, a cui sono state aggiunte testa e braccia. Testa e braccio sinistro derivano da ceppi singoli, mentre il braccio destro è formato da due pezzi distinti. Le mani risultano mutile alle estremità. Al tronco, svuotato all’interno, sono state fissate due tavole di copertura, una dalla schiena al fianco sinistro, l’altra sul fianco destro. Le diverse parti sono tenute assieme da chiodi, perni di legno e incastri. Le giunture tra braccia e tronco erano coperte da sottili strisce di tela, ancora ben distinguibili.
La scultura, in origine, era completamente dipinta. Su una preparazione di gesso e colla era steso il colore. L’alluvione, purtroppo, ha provocato la perdita di circa il 40% della superficie dipinta e dello strato di preparazione, alterando profondamente la percezione dell’opera. La scultura, come evidenziato dal restauro del 1998, sotto una patina di sporco e fango presentava, per le frequenti ridipinture, numerosi strati di colore sovrapposti. Il colore originale, dopo il restauro, è ancora ben apprezzabile soprattutto nella testa (corona di spine, capelli, viso, barba, labbra, sangue sulla fronte), mentre nella veste, data la lacunosità della stesura originale, è stata mantenuta la ridipintura più antica, peraltro bellissima.
Il Cristo è rappresentato nell’atto di incedere, con le ginocchia sporgenti sotto la veste, a suggerire il movimento delle gambe (il ginocchio sinistro è più avanzato dell’altro). Le braccia sono piegate in avanti nell’atto di reggere verosimilmente la croce (perduta) con le mani poste ad altezze diverse. Difficile stabilire come fosse tenuta la croce, se retta per il braccio corto e con il braccio lungo caricato sulla schiena o, viceversa, sostenuta per il braccio lungo appoggiato sulla spalla. Il busto diritto, la schiena non piegata, la posizione delle mani e la consonanza con una consolidata tradizione pittorica toscana, fra Duecento e Quattrocento, fanno propendere per la seconda ipotesi.


La testa, ruotata di quasi 90 gradi rispetto al busto, è volta perentoriamente a destra e verso il basso, movimento cui si contrappone la lieve torsione verso sinistra del braccio destro. La torsione della testa è sottolineata dalla bella evidenza data ai muscoli del collo. L’espressione del volto è solenne, intensa ma sobria, priva di forzature patetiche o devozionali. Lo sguardo, con dolcezza misurata, invita a contemplare e a compatire.
La veste è un’ampia tunica o camice, senza legatura ai fianchi, lunga fino a nascondere i piedi e dalle larghe maniche, lievemente aperta sul petto. Maniche e apertura per la testa terminano con un bordo orlato. La veste mostra ancora, soprattutto sulle maniche e lungo la schiena, fino a terra, una splendida decorazione dipinta, frutto di una ridipintura sullo strato originale perduto: su uno sfondo bianco, un elegante motivo a foglie e racemi neri con rifiniture dorate sui bordi, come sull’orlo delle maniche e attorno al collo.
La testa presenta una folta e lunga capigliatura a spesse onde parallele che si estende anche sulla sommità del tronco. La corona di spine, massiccia, è formata da un intreccio regolare di rami, quasi geometrico. Le spine (ne rimangono due) erano inserite in una serie di fori tutt’intorno, ben visibili.
In cerca di identità
Se la scheda catalogo del 1996 ipotizzava un artista toscano del ’300, quella del 2006 di Monica Bietti, basandosi sulla migliore leggibilità di modellato e colore dopo il restauro, propone di spostare l’esecuzione verso il ’400, “datazione compatibile anche con il realismo espressivo del pur martoriato volto di Cristo”, e di attribuire la scultura ad “un grande scultore” di cultura senese, forse lo stesso Francesco Valdambrino, in una fase giovanile, o “un suo prossimo e altrettanto grande collaboratore”. Più prudentemente, l’intestazione della stessa scheda propone “Scultore senese-lucchese, fine secolo XIV-inizio XV”. Anche Marilena Tamassia, direttore del Museo di San Marco, mi ha confermato oralmente la riferibilità ad una cultura artistica della Toscana centrale, non fiorentina. La corona di spine, d’altra parte, pesante e dalle maglie regolari, richiamerebbe piuttosto esempi del nord Europa.


Resta, tuttavia, la difficoltà di interpretare un’opera di cui non si conoscono, ad oggi, coevi esempi in scultura, mentre l’iconografia del Cristo portacroce è ben attestata nelle scene di Salita al Calvario nella tradizione pittorica toscana soprattutto del Due-Trecento.
Ci sono esempi di Crocifissi lignei policromi, anche di ’3-’400, in cui, specialmente durante i riti e le sacre rappresentazioni della Settimana Santa, la scultura poteva essere staccata dalla croce e, stante la possibilità di articolare testa e braccia, nonché di togliere la corona di spine, poteva essere utilizzata anche per altri soggetti della Passione, come la Deposizione o il Compianto.
Nel nostro caso, tuttavia, testa, braccia e corona non sono movibili. La scultura, giustamente, è da intendersi come un Cristo portacroce. Ci si può chiedere, però, se fosse una figura isolata o se, piuttosto, fosse parte di una più ampia scena di Salita al Calvario. Il fatto che l’intaglio e la decorazione dipinta, sulla testa e sulla veste, siano completi e rifiniti su tutti i lati, farebbe pensare ad una fruizione della scultura a 360 gradi. La testa e lo sguardo volti verso il basso, d’altra parte, suggerirebbero una collocazione in alto, in una nicchia o su un altare. I due elementi, fruizione da ogni lato e posizione in alto, si concilierebbero ipotizzandone un utilizzo processionale.
È suggestivo pensare che il Cristo fosse una scultura di devozione, posta ordinariamente in una cappella o nella sede di una confraternita (ce n’erano tante dedicate alla Passione e alla Croce) e che, in occasione di festività religiose (Settimana Santa, Esaltazione della Croce, ecc.), potesse essere portata in processione su carri o portantine, oppure facesse parte di scene sacre con altre sculture.



Nelle scene pittoriche di Salita al Calvario, Cristo porta la croce e, spesso, volge la testa verso qualcuno: i carnefici, le pie donne o, più frequentemente, il gruppo con la Vergine, Giovanni e la Maddalena. Forse anche il Cristo portacroce di San Marco, un tempo, poteva interagire con qualche altro personaggio. Oppure, più semplicemente e con maggiore forza espressiva, quel volto mite e sofferente è rivolto, allora come oggi, a chi lo incontra con lo sguardo. E con il cuore.
Alessandro Santini
L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili,
delle carte, dei quadri che stipavano
un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto.
Forse hanno ciecamente lottato i marocchini
rossi, le sterminate dediche di Du Bos,
il timbro a ceralacca con la barba di Ezra,
il Valéry di Alain, l’originale
dei Canti Orfici – e poi qualche pennello
da barba, mille cianfrusaglie e tutte
le musiche di tuo fratello Silvio.
Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura
di nafta e sterco. Certo hanno sofferto
tanto prima di perdere la loro identità.
Anch’io sono incrostato fino al collo se il mio
stato civile fu dubbio fin dall’inizio.
Non torba m’ha assediato, ma gli eventi
di una realtà incredibile e mai creduta.
Di fronte ad essi il mio coraggio fu il primo
dei tuoi prestiti e forse non l’hai mai saputo.
Eugenio Montale, 27 novembre 1966
Riferimenti bibliografici
Eugenio Montale, L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, Satura, in Eugenio Montale, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1979
Salvate dalle acque. Saved from the waters. Opere d’arte restaurate e da restaurare a trent’anni dall’Alluvione, catalogo della mostra (Firenze 1996-97), Centro Di, Firenze, 1996. La scheda dell’opera è la n. 30 a p. 27
Piccoli grandi tesori alluvionati. Un patrimonio da non dimenticare, catalogo della mostra (Firenze 2006-2007), a cura di Magnolia Scudieri, Maria Grazia Vaccari e Francesca Fiorelli Malesci, Sillabe, Livorno 2006
Monica Bietti, Scheda di catalogo (n. 9), in Piccoli grandi tesori alluvionati. Un patrimonio da non dimenticare, Sillabe, Livorno 2006, p. 20
Maria Grazia Vaccari, Appunti su restauri insoliti, in Piccoli grandi tesori alluvionati. Un patrimonio da non dimenticare, Sillabe, Livorno 2006, pp. 30-31
Successivamente alla pubblicazione di questo articolo, il Cristo ligneo è stato esposto alla mostra: “Firenze 1966-2016. La bellezza salvata” (Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 1 dicembre 206 – 26 marzo 2017). Nel catalogo della mostra, a cura di Cristina Acidini e Elena Capretti (Sillabe, Livorno 2016), si segnala: Marilena Tamassia, scheda n. 33, pp. 226-227 (Scultore toscano, Cristo portacroce, fine XIV-inizio XV secolo).