Beato Angelico, artista di emozioni. Intervista a Carl Brandon Strehlke, uno dei curatori della grande mostra sul frate pittore

Carl Brandon Strehlke, curatore della mostra Beato Angelico con Angelo Tartuferi e Stefano Casciu nelle due sedi di Palazzo Strozzi e Museo di San Marco (fino al 25 gennaio 2026), è un vecchio amico di San Marco. Eppure, riuscire a intervistarlo, adesso che tutti lo vogliono e tutti lo cercano, è un’impresa. Cosmopolita, autoironico, fermamente illuminista, dotato di un’intelligenza aguzza e uno sguardo sempre disincantato sugli artisti di cui si occupa, non è facile restituire sulla carta la grana della voce, l’accento anglosassone e la fragorosità della risata di Carl.

Di storici dell’arte come lui, vertiginosamente connoisseur, con capacità mnemoniche sovrumane, inesauribili esploratori di immagini, disinvoltamente enciclopedici, non ce ne sono molti in circolazione. Curatore emerito della collezione dipinti europei John G. Johnson al Philadelphia Museum of Art, dove ha lavorato per trentacinque anni, l’abbiamo incontrato la prima volta nel 2015, quando stava lavorando alla mostra “Fra Angelico y los inicios del Renacimiento en Florencia” al Museo del Prado, 2019. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Lo ritrovo oggi al Museo di San Marco, proprio nella Sala in cui è allestita la sezione degli “esordi” del pittore domenicano, nella calma di un lunedì di chiusura. Ci accomodiamo a pochi metri dalla Pala di Fiesole, appena restaurata da Daniele Rossi.

La mostra “Beato Angelico” è stata inaugurata lo scorso 26 settembre. Un progetto ambizioso che ha richiesto una preparazione di quattro anni. Perché proprio ora?

Per molte mostre l’innesco è un anniversario, che spesso è un po’ un pretesto; per questa non è proprio così, anche se si dice che sono passati 70 anni dalla famosa mostra del 1955, tra Firenze e il Vaticano, ovviamente molto importante per quell’epoca, ma con tutto un altro ambiente, sia di studi sia curatoriale. Direi proprio ora perché il periodo era opportuno, nel senso che ci sono stati negli ultimi anni, grazie al Museo di San Marco soprattutto, una serie di restauri su opere di Beato Angelico, per esempio la Pala di San Marco, la Deposizione Strozzi, il Giudizio Universale

…anche il Trittico francescano

sì, quello era in corso d’opera, ma molto lentamente perché aveva problematiche un po’ diverse rispetto agli altri; perciò era un momento propizio, in cui sono stati condotti molti studi grazie a questi restauri, che poi sono diventati pubblicazioni, come i “Quaderni del Museo di San Marco”. Quindi, si può dire che il restauro del Giudizio universale, della Pala di San Marco, della Pala di Bosco ai Frati, hanno creato il terreno fertile per accogliere la mostra e l’idea di Arturo Galansino, Direttore della Fondazione Palazzo Strozzi, di realizzare una partnership, un gemellaggio tra Palazzo Strozzi e il Museo di San Marco; collaborazione che è stata fondamentale per i prestiti. Così abbiamo iniziato altri restauri e accelerato la conclusione di quello del Trittico francescano all’Opificio delle Pietre Dure. La cosa che mi fa piacere, quando vado a Palazzo Strozzi, anche con fiorentini cosiddetti colti – una parola che non amo usare – ma insomma persone che frequentano abitualmente musei e mostre, la cosa che mi fa piacere e mi colpisce è che davanti a opere come la Pala di Bosco ai Frati mi chiedono da dove venga. Io rispondo: dal Museo di San Marco! Questo non per dire che a San Marco il dipinto non sia valorizzato, ma piuttosto che quando in occasione di una mostra si spostano le opere, o si mettono a confronto con altre opere, creando un percorso diverso da quello a cui siamo abituati – Palazzo Strozzi ha anche più spazio rispetto alla sala del Museo di San Marco da cui molte tavole provengono – questa redistribuzione dei dipinti è un vantaggio che consente di capire meglio il pittore, di ri-scoprirlo forse, e questo non può che farmi piacere.

Beato Angelico, Pala di Bosco ai Frati, Firenze, Museo di San Marco

Questa mostra è servita a far avanzare la ricerca scientifica sull’artista, o a fare il punto sullo stato dell’arte degli studi angelichiani?

Io credo di sì, per entrambe le cose. Ci sono delle scoperte nuove sulla Pala di Fiesole, per esempio, emerse proprio negli ultimi quattro anni, oltre a quelle fatte grazie agli altri restauri e alle altre mostre. Forse non sono sempre risposte a domande ma propongono, il che è molto più bello, nuove domande e nuovi discorsi. Questo depone a favore della vitalità della fortuna dell’artista: non è che con questa mostra si chiude il libro su Angelico, ma forse si apre un secondo volume. E poi si impara anche durante la mostra, non solo nella preparazione. Una cosa che trovo molto importante del restauro della Pala di Fiesole è la ricostruzione digitale del trono della Vergine, sulla base delle informazioni diagnostiche recenti; e poi l’aspetto originale del gradino, del pavimento su cui i Santi poggiano. Abbiamo fatto qualche ricerca in più sulla ricostruzione di questo trittico, che Lorenzo di Credi nel 1501 ha trasformato in una pala quadrata, che pone nuove domande, forse non del tutto esplorate nel catalogo. Per esempio nella struttura lignea del trittico ci sono degli elementi che ci dicono che forse poteva esserci un ulteriore livello sopra i tre archi. È difficile capire esattamente cosa, perché non abbiamo altri dipinti con una costruzione simile, dello stesso Angelico. Un paragone possibile si potrebbe fare con il Polittico di Bibbiena di Bicci di Lorenzo. Insomma, ci sono ancora molte cose da scoprire sulla struttura della Pala di Fiesole. Un’altra questione tutta da indagare è la struttura della Pala di San Marco. Quando parlo di struttura, mi riferisco alla difficoltà di capire in che modo potessero essere collocate, ai lati della Pala, due scene della predella. La predella doveva sostenere tutta la Pala in qualche maniera, girando anche ai lati. Questo vuol dire che c’era una certa profondità che abbiamo studiato con i laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure, confrontandoli con esempi di altri artisti più tardi. Purtroppo le pale d’altare di Angelico, essendo già famoso nell’Ottocento, sono state smembrate, e in questi smembramenti la prima cosa che spariva era la cornice, che poi è la parte più importante per la ricostruzione. Quindi, probabilmente, la Pala di San Marco aveva una specie di strombatura diagonale intorno alla scena principale della Sacra Conversazione, un po’ come accade nel Tabernacolo dei Linaioli nella cornice centinata in cui si trovano gli angeli musicanti. Questa strombatura dà una profondità e una prospettiva in più, come se fosse un proscenium di un teatro moderno. Ci sono molti piccoli particolari che possono darci, via via, una nuova comprensione della pittura dell’Angelico.

Beato Angelico, Pala di Fiesole, Fiesole, Chiesa di San Domenico
Bicci di Lorenzo, Polittico di Bibbiena, chiesa dei santi Ippolito e Cassiano

Nell’Introduzione al Catalogo della mostra rispondi affermativamente alla domanda che nel 1970 si poneva Elsa Morante nel “Il beato propagandista del paradiso”, prefazione al classico Rizzoli “Angelico” di Umberto Baldini, e cioè se il pittore domenicano avesse partecipato alla “rivoluzione”. Qual è la rivoluzione di Beato Angelico, secondo te?

Elsa Morante usa provocatoriamente una parola moderna: non si tratta di una rivoluzione in senso politico, ma in senso culturale. Credo che la scrittrice alludesse al nuovo linguaggio rinascimentale che nasce a Firenze nei primi due o tre decenni del Quattrocento, in cui Angelico era vivo e attivo. Allora la sua rivoluzione consiste nell’aver partecipato allo sviluppo del nuovo linguaggio rinascimentale, accanto ad artisti come Brunelleschi, Ghiberti e Masaccio, che hanno cercato nuovi linguaggi, come la prospettiva lineare, l’uso della luce, lo studio dell’architettura classica, che determinano un cambiamento nella rappresentazione.

Sì, è ovvio. Ma credo che la Morante si chiedesse se veramente ha partecipato a questa rivoluzione o è rimasto piuttosto un artista dichiaratamente inattuale, nel senso che ha guardato quello che gli succedeva intorno, ma sviluppando un suo proprio linguaggio, di pittore religioso…

Elsa Morante non aveva molta simpatia per la reputazione religiosa di Angelico, per la sua “aureola sopraterrestre”, e confesso che tutta l’agiografia postuma sull’artista annoia tanto anche me, perché non sono interessato a questo aspetto. A me interessa farlo scendere dal cielo e riportarlo sulla terra.

E infatti spesso pensiamo ad Angelico con una specie di timore reverenziale, come se la sua fama di santità scavasse un solco tra noi e lui, come se la sua pittura di luce annullasse tutte le ombre e le contraddizioni che poi sono il sale della vita di un artista.

Secondo me Angelico è un pittore di emozioni, di grande umanità nella rappresentazione di storie e personaggi sacri, che poi sono i soggetti di tutti gli artisti in quell’epoca. Lui però riesce proprio a rendere i racconti evangelici e le storie delle vite dei santi, come San Nicola di Bari o i santi Cosma e Damiano, in maniera immediata e accessibile a tutti. Lo scorso 2 novembre è uscito un breve articolo di Cody Delistraty sul “New York Times”, un giornalista culturale non credente, agnostico, che dice che Beato Angelico ci fa quasi credere nella fede cristiana, o almeno nella forza della pittura. Parlando dell’Annunciazione affrescata nel corridoio nord di San Marco, Delistraty dice che è l’opera di un pittore di emozioni, che ci fa riflettere sui temi spirituali e umani, esprimendo un apprezzamento non storico-artistico sulla sua pittura, ma proprio emotivo. Delistraty si sofferma sulla gestualità di Gabriele e Maria, sulla luce che pervade la scena, sulla gamma di colori usati dall’artista, che sono mesmerizing, come diremmo in inglese, cioè ipnotici, magnetici. Non importa se lo spettatore crede che questa scena sia mai avvenuta, scrive Delistraty, ti catturerà comunque. Osservando le persone che visitano la mostra a Palazzo Strozzi, dove sono ricostruite le grandi Pale d’altare, dove sono messe a confronto le tre grandi Crocifissioni sagomate – una è di Angelico, le altre sono di Lorenzo Monaco e Pesellino – o i volti di Cristo, e le Annunciazioni di Filippo Lippi e Beato Angelico, osservando le persone, mi accorgo che hanno una reazione estatica verso questa pittura, che io non mi aspettavo. Invece devo ammettere che forse il successo della mostra è proprio in questa spiritualità che le opere emanano.

Beato Angelico, Annunciazione Corridoio Nord, Firenze, Museo di San Marco

Questa spiritualità però non ha niente di consolatorio o di devozionale; piuttosto è un’arte che prova a rappresentare l’invisibile, che pone domande rischiando di non avere risposte. Tu che ne pensi?

Io non posso rispondere a questa domanda, non lo so. Per esempio, quando guardo gli affreschi delle celle di San Marco, io li guardo attraverso le lenti dello storico, come elementi della devozione domenicana, elementi che sono prompts, immagini per incoraggiare la preghiera, per meditare su un certo valore della fede, li vedo in questa maniera, senza interrogarmi sulla loro trascendenza.

Ma infatti io credo che la pittura di Beato Angelico è molto più che un’arte cristiana in senso stretto, perché tocca la sensibilità di tutti, non solo dei credenti.

Immagino di sì, avendo visto le reazioni del pubblico davanti ai suoi dipinti.

Ho l’impressione che la mostra abbia tra i suoi scopi quello di provare a riavvicinare al grande pubblico un artista che ha sempre avuto i suoi estimatori – studiosi, artisti, scrittori, cineasti, coreografi – ma forse non ha ancora trovato un suo posto nella mappa del mainstream. Secondo te è così?

Ma dubito che qualsiasi artista prima di Botticelli e Leonardo sia nel mainstream; perciò vediamo cosa accadrà nel futuro.

Può essere questo lo scopo della mostra?

Forse, ma non lo so, francamente. Anche questa mi sembra un po’ esagerata, come idea.

Ti faccio un’altra domanda. Sto rileggendo Canto di me stesso di Walt Whitman. C’è questo famoso verso: “I’m large. I’m contain multitudes”. Secondo te, Angelico contiene moltitudini?

Qualsiasi persona, qualsiasi artista, sicuramente, contiene moltitudini.

Con Angelico ormai hai una consuetudine più che trentennale. Qualcosa che somiglia a un’ossessione. Cos’è che ti riporta sempre a questo artista? Qual è il suo mistero?

Diciamo che una volta a decennio faccio qualcosa per Beato Angelico, sì. Ma non direi che ho un’ossessione, e non trovo nessun mistero in Angelico. Lo considero un pittore fondamentale del primo Rinascimento di cui mi sono occupato per la prima volta con il restauro del frammento del volto di San Francesco del Museo di Philadelphia, presente nella mostra a Palazzo Strozzi, come parte della Crocifissione sagomata di San Nicola “del Ceppo”. A Philadelphia c’è anche la Dormizione della Vergine, che fa parte di una predella dispersa di cui a San Marco si trova la scena con L’imposizione del nome al Battista; un dipinto, la Dormizione, di cui mi sono occupato e che non abbiamo chiesto in prestito preferendo il ritratto di San Francesco per mettere insieme la Crocifissione sagomata della Compagnia “del Ceppo”. Il mio interesse per la pittura rinascimentale, per la struttura delle pale d’altare, la ricostruzione di questi frammenti di Angelico, è nato con i restauri che abbiamo fatto a Philadelphia fra gli anni 80 e 90. Dopo c’è stata una prima mostra per cui Laurence Kanter mi ha chiesto di collaborare. In quell’occasione ho scritto un saggio sul giovane Angelico. Successivamente, nel 2005, c’è stata una seconda mostra a New York, sempre curata da Laurence Kanter con Pia Palladino, per la quale ho scritto un saggio su Angelico a Roma. Sono state ricerche su commissione per cui mi sono molto divertito; mi ha fatto piacere lavorare su di lui come artista, proprio come pratica storico-artistica non certo come mistero e tanto meno come ossessione. Un po’ di anni dopo mi hanno chiesto di curare la mostra al Museo del Prado; l’occasione era il restauro della grande Annunciazione che un tempo era nella chiesa di San Domenico a Fiesole. Abbiamo fatto uno studio molto specifico sullo sviluppo della composizione, insieme a Ana González Mozo, e abbiamo fatto molte scoperte sulla tecnica di Angelico. Sono tutte attività che fanno parte del mestiere di storico dell’arte, compiti che mi sono accaduti.

Beato Angelico, Testa sagomata di San Francesco d’Assisi, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Beato Angelico, Crocifissione sagomata tra i santi Nicola di Bari e Francesco d’Assisi, Firenze, Compagnia “del Ceppo”

Hai un’opera del cuore di Angelico?

Ora una che mi viene subito in mente no. Mi piacciono tutte le sue opere

Qualche anno fa mi sembrava avessi detto che fosse l’Annunciazione del Prado

Sì, ma perché ci avevo lavorato molto in profondità. Anche la Deposizione Strozzi è un’opera che conosco in profondità e che amo molto. Adesso mi appassiona anche la Pala di San Marco, che per la mostra ha tutti i pezzi di predella ricomposti e ho il privilegio di osservarla in tutte le sue parti ogni giorno. Così come mi interessa la predella del Trittico francescano. Un’altra cosa che mi diverte molto è mettere a confronto, a pochi passi, due opere assai diverse tra loro, come ad esempio l’Annunciazione di Montecarlo di San Giovanni Valdarno con l’Annunciazione di Filippo Lippi che viene da San Lorenzo, e vederle con la luce giusta, osservarne le predelle…

Ho notato che hai una particolare predilezione per le predelle, che sono la parte più narrativa dell’Angelico.

Considerando le idee di Leon Battista Alberti sulla pittura rinascimentale (espresse nel De pictura, 1435, ndr), il concetto di istoria, cioè di storie dipinte in cui le figure sono ordinate in spazi definiti, considerando anche il grande ciclo di affreschi della cappella Brancacci di Masaccio, si nota che Angelico ha tratto ispirazione da questo modo di raccontare. Se si guardano le storie di San Nicola di Bari, ma soprattutto dei Santi Cosma e Damiano, che non hanno una grande tradizione di rappresentazione, ci accorgiamo che sono le sue vere nuove creazioni dal punto di vista iconografico, in cui si sente più libero di inventare, e questa sua immaginazione la trovo meravigliosa. Le vicende dei santi Cosma e Damiano con i tre fratelli minori coinvolti nei vari tentativi di martirio, ci avvicinano all’umanità di Angelico, alla sua grande maestria compositiva.

Beato Angelico, I Santi Cosma e Damiano e i loro fratelli vanamente colpiti con frecce e pietre, Predella Pala di San Marco, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen München
Beato Angelico, Decapitazione dei santi Cosma e Damiano e dei loro fratelli, Predella Pala di San Marco, Parigi, Musée du Louvre

Tu che sei un appassionato di musica classica, se dovessi pensare a Beato Angelico come un musicista chi potrebbe essere?

Più che un musicista, lo vedo come un direttore di orchestra: un Claudio Abbado del Quattrocento. La sua bottega, un argomento poco esplorato in questa mostra, è gestita da Angelico come farebbe un grande direttore d’orchestra, che riesce a cucire insieme tante collaborazioni, tante mani diverse, come faceva Lorenzo Monaco del resto. La mostra ha 140 oggetti; se si pensa che il pittore domenicano è morto a 60 anni e che molti cicli di affreschi sono andati perduti, il numero delle sue opere è enorme: senza questa capacità di orchestrare gli aiuti, non avrebbe potuto concludere così tante imprese. Se invece si pensa alla predella della Pala di Fiesole della National Gallery di Londra, non in mostra qui, che rappresenta la corte del Paradiso con circa 250 personaggi, tra angeli, santi, sante e padri della chiesa, più che un direttore d’orchestra qui l’artista è un coreografo. In questo caso non deve raccontare una storia, ma far danzare un numero incredibile di personaggi. Se consideriamo che è ancora un giovane artista, appena diventato frate a Fiesole, questa capacità di coreografare le figure è davvero prodigiosa.

Beato Angelico, Pala di Fiesole, scomparto di predella, Santi e precursori di Cristo, Londra, National Gallery

Con questa immagine alata dell’Angelico coreografo ci congediamo: Strehlke ha appuntamento con un gruppo di visitatori dell’Università di Yale. Con loro c’è anche Laurence Kanter, uno dei curatori della mostra “Fra Angelico” del 2005 al Metropolitan Museum of Art di New York. Mentre osservo Strehlke rivolgersi al gruppo con l’affabilità e l’autorevolezza che lo contraddistinguono, penso che il lavoro di un curatore richiede resistenza e visione, studio e capacità organizzative, tutte qualità che deve possedere un bravo direttore d’orchestra.

Carmelo Argentieri

Carl Strehlke con Laurence Kanter nel Museo di San Marco

Un commento

  1. Peccato non aver saputo della presenza a Firenze di Larry Kanter, lo avrei salutato volentieri, dopo tanti anni. Ma questo fa parte dell’esclusione.

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