“San Domenico e il miracolo dei pani e del vino”. Fonti, significati e iconografia dell’affresco di Sogliani a San Marco

Per apprezzare pienamente la bellezza e il significato del grande affresco di Giovanni Antonio Sogliani, che dal 1536 si staglia scenografico sulla parete di fondo del Refettorio grande di San Marco, bisogna necessariamente prendere le distanze, almeno in parte, dal giudizio vasariano.

 1. Giudizio della critica e fedeltà alla tradizione

Nell’edizione Giuntina delle Vite (1568), ampliando il testo del 1550, Giorgio Vasari racconta che i frati di San Marco non approvarono l’idea di Sogliani, supportata da disegni preparatori, di dipingere quando Gesù Cristo con cinque pani e due pesci diede mangiar a cinquemila persone (…) con molte donne, putti et altra turba e confusione di persone, che avrebbe mostrato lo sforzo di quello che sapeva fare (la sua bravura), affermando di preferire piuttosto cose positive, ordinarie e semplici e imponendogli, come piacque loro, di raffigurare quando San Domenico, essendo in reffettorio con i suoi frati e non avendo pane, fatta orazione a Dio, fu miracolosamente quella tavola piena di pane, portato da due Angeli in forma umana. (…) Fece poi nel mezzo tondo sopra la mensa S. Domenico a piè d’un Crucifisso, la Nostra Donna e S. Giovanni Evangelista che piangono, e dalle bande S. Caterina da Siena e S. Antonino arcivescovo di Firenze e di quell’Ordine.

Giovanni Antonio Sogliani, Il Miracolo dei pani e del vino, Museo di San Marco

Vasari, che pur loda i ritratti dei frati, molti dei quali allora erano in quel convento, i quali paiono vivi, e reputa l’opera, nel suo complesso, condotta (…) molto pulitamente e con diligenza (nell’edizione Torrentinana: veramente pittura con molta diligenzia e con pulitezza lavorata), termina però con una sottolineatura negativa: Ma molto meglio sarebbe riuscito al Sogliano se avesse fatto quello ch’aveva disegnato, perché i pittori esprimono meglio i concetti dell’animo loro che gl’altrui. Ma dall’altro lato è onesto che chi spende il suo si contenti.

Mi pare che il giudizio vasariano abbia pesato non poco sulla critica moderna, fin troppo compiaciuta nell’enfatizzare “romanticamente” la contesa fra la libera ispirazione dell’artista e il conservatorismo ottuso dei committenti. Riporto alcuni esempi.

“I domenicani (…) dovevano essere diffidenti davanti a un soggetto che Sogliani aveva evidentemente trattato con libertà compositiva e ispirazione personale. La scelta di un’opera “ordinaria e semplice” suona dunque come esplicito richiamo all’ordine, inquadrabile nel clima culturale fiorentino, che ormai lontano il Rosso e sempre più isolato il Pontormo –due artisti non conformisti– si acquietava nel consenso politico per i Medici (…) Ecco allora una composizione “semplice”, un inquadramento architettonico senza sorprese e addirittura una ripresa iconografica degli antichi cenacoli trecenteschi, con la Crocifissione in alto” (Bonsanti 1985, pp. 45-6).

“(…) il disegno presentato ai frati non piacque in quanto loro volevano cose positive ordinarie e semplici. Dal confronto con il ritrovato cartoncino (Uffizi, GDSU n. 6617F), possiamo ora capire che essi con queste parole intendevano alludere ad un’arte modesta, cioè senza le “bravure” di una composizione articolata; un’arte quindi conservatrice e tradizionale, come dimostra tra l’altro il riferimento iconografico all’Angelico tenuto poi presente da Sogliani; ed infine formalmente dimessa. (…) L’affresco infatti è contraddistinto da una fissità a quel tempo arcaica, dalla frontalità della composizione,  e da una nettezza dei contorni che non teneva conto delle sfumature cinquecentesche” (Muzzi 1992, pp. 52-53).

“Il risultato dello scontro fu (…) un’opera concepita con ritmo paratattico che prende spunto dall’Ultima Cena di Domenico Ghirlandaio eseguita per lo stesso convento più di quaranta anni prima. Ancora una volta i disegni preparatori per quest’ultima versione testimoniano questo adeguamento a uno stile più “secco”, quattrocentista, che evitava la più complessa atmosfera del cartonetto rifiutato” (Muzzi 1994, p. 29).

“La composizione dell’affresco è contraddistinta da fissità arcaica e da nettezza dei contorni, in conformità alla semplicità e chiarezza della pittura monastica domenicana di Fra Angelico, Fra Bartolomeo e Fra Paolino riflesso delle idee artistiche di Sant’Antonino e Girolamo Savonarola. (…) I disegni (…) svelano come l’artista intendesse creare una composizione monumentale in accordo con l’idioma classico di Raffaello, Fra Bartolomeo e Andrea del Sarto (…) e combinarla con l’aspetto da scena di genere coltivato dai manieristi. Fu evidentemente questo aspetto il motivo per cui i domenicani respinsero la composizione proposta. I loro principi estetico-morali, ispirati da Sant’Antonino e dal Savonarola, comportavano la preferenza per un’arte modesta, conservatrice e tradizionale, che si rifacesse alle chiare strutture delle opere di Beato Angelico e di quelle di Fra Bartolomeo precedenti alla Pala Pitti” (Fischer 1996, pp. 233-235).

“L’artista dovette attenersi alle preferenze più tradizionali e semplici dei frati ancora affezionati ai principi estetici comuni sia all’Angelico che a Antonino e poi Savonarola per una funzione devozionale e pastorale dell’arte che avevano promosso, alla quale, pur con le sue novità, si era conformata la Scuola di San Marco” (Pellegrini 2023, p. 73).

A dire il vero, mi sembra che un approccio prevalentemente stilistico-formale abbia fatto perdere di vista una questione centrale e ineludibile: la singolarità del soggetto raffigurato a San Marco, il Miracolo dei pani (e del vino, come vedremo), rispetto alla tradizione dei cenacoli fiorentini, dove è l’Ultima Cena a prevalere largamente, con o senza Crocifissione.

Curiosamente, anche la Moltiplicazione dei pani e dei pesci proposta dall’artista sarebbe stata una scelta inconsueta rispetto alla tradizione dei refettori fiorentini. Lo stesso Sogliani, una ventina di anni prima, aveva affrescato un’ Ultima Cena nel refettorio del convento agostiniano femminile di Santa Maria di Candeli a Firenze e, più recentemente, ne aveva dipinta un’altra su tavola per la compagnia della Misericordia di Anghiari (1531). L’unica Moltiplicazione dei pani in un refettorio fiorentino era stata affrescata attorno al 1503 da Raffaellino del Garbo per il monastero cistercense di Cestello in Borgo Pinti. Nel 1536, trenta anni dopo, Sogliani voleva forse mostrarne una versione stilisticamente aggiornata, come dimostrano i vari disegni preparatori, ma il progetto, evidentemente, non scaldò del tutto i cuori dei frati di San Marco, che preferirono il Miracolo domenicano dei pani.

Sono convinto che questa scelta, più che da motivazioni morali o estetiche refrattarie agli sviluppi della “maniera moderna”, come è stato supposto, derivi piuttosto dalla meditata volontà di vedere illustrato un episodio esemplare delle origini dell’Ordine, narrato sin dalle prime fonti agiografiche del Duecento, di cui cercherò di presentare, confrontandoli, gli elementi più interessanti.

Ai racconti del miracolo seguirà una rassegna iconografica ragionata, la prima per questo soggetto, con la quale mi propongo di mostrare che l’”arcaismo” del Miracolo di Sogliani spesso evocato dagli studiosi, pur in presenza di elementi non convenzionali (architettura classicista dai colori freddi e irreali, paesaggio lirico dello sfondo, naturalismo dei volti), non rispecchia tanto il conservatorismo attardato dei frati di San Marco, quanto la sincera fedeltà ad una solida tradizione identitaria, attestata per lo più in contesti domenicani.

2. Il Miracolo di Sogliani: appunti di lettura

Prima di prendere in esame la narrazione del miracolo nelle fonti del Duecento, vorrei condividere alcune annotazioni sull’affresco di San Marco.

La scena, nel registro inferiore, è simile ad un’Ultima Cena: San Domenico/Cristo siede al centro con le braccia alzate in orazione, con dodici frati/apostoli disposti sei alla sua destra e sei alla sua sinistra, i due alle estremità in piedi. Domenico prega perché non c’è niente da mangiare e da bere: la mensa è sguarnita, i piatti sono vuoti, i bicchieri rovesciati, solo le saliere sono piene. In primo piano, il miracolo della Provvidenza, mossa dalla preghiera di Domenico: due angeli dalle vesti gonfie e sgargianti compaiono con drappi pieni di pani; figure di grande impatto, che superano i modi di Lorenzo di Credi, di cui Sogliani fu fidelissimo discepolo (Vasari), ed eguagliano quelli di Andrea del Sarto.

I primi due frati a sinistra (per chi guarda) sono un converso, seduto, con scapolare nero, e in piedi, in veste bianca e grembiule, un altro converso, o forse un novizio, che porta due brocche bianche monocrome e volge lo sguardo verso lo spettatore: Vasari vi riconosce il finanziatore dell’affresco, della famiglia Molletti.

Anche i primi due a destra sono frati conversi, uno seduto con un coltello da lavoro alla cintura e l’altro in piedi, con grembiule bianco, a sorreggere per il manico un vaso dotato di versatoio (un orciolo in terracotta o una mezzina in ceramica o rame). Le brocche e il vaso, portate in refettorio dai due frati in piedi con il grembiule (i servitori della mensa, v. U. di Romans, Opera de vita regulari, t. 2, p. 294), alludono ad un secondo miracolo, dopo quello dei pani, ovvero la prodigiosa comparsa del vino nella botte vuota del convento: un completamento della vicenda, denso di significato, che, vedremo, è narrato da due fonti duecentesche, il testo della monaca Cecilia e quello di Teodorico di Apolda, ripreso dal primo. Come evidenzierà la rassegna iconografica, il miracolo del vino è raffigurato solo due volte, e solo nei conventi domenicani di Firenze, prima a San Marco nell’affresco di Sogliani (1536) e poi a Santa Maria Novella in un affresco di Santi di Tito (1582-83).

Secondo Ferdinando Rondoni, autore della prima guida del Museo di San Marco, “nella figura seduta alla destra di S. Domenico, con le braccia incrociate sul petto, è ritratto il padre Felice di Domenico fiorentino, 45° Priore eletto l’anno 1534, nel cui priorato fu dipinto questo Cenacolo” (Rondoni 1876).

Gli occhi di San Domenico in preghiera sono rivolti al Cielo, ma è come se guardassero alla scena sovrastante, una Crocifissione con la Vergine e San Giovanni, contemplata in ginocchio, ai lati, dai Santi Antonino da Firenze e Caterina da Siena, figure di riferimento dell’Osservanza domenicana; Antonino, priore di San Marco e vescovo di Firenze, era stato canonizzato nel 1523. Dietro la croce, il prospetto architettonico si apre su un paesaggio dai toni crepuscolari, in cui, su un colle “metafisico”, si riconosce il convento di San Marco visto da nord, con l’abside michelozziana della chiesa, il campanile e, mi pare, la “Sala greca” della biblioteca: a significare che quello che i frati contemplavano nell’affresco del refettorio poteva essere in qualche modo rivissuto, poteva accadere di nuovo nel tempo presente.

Inquadra tutta la scena una cornice semicircolare a finto rilievo, con teste di cherubini e festoni a palmette, che termina con due pilastri dipinti che riportano la data A.S. MDXXXVI (Anno Salutis 1536), letta da alcuni, meno correttamente, come la firma di Antonio Sogliani (ad es. Rondoni 1872 e 1876; Sinibaldi 1936). Sulla chiave di volta della cornice un piccolo tondo dipinto (ve ne sono altri due laterali, ma illeggibili) con il trigramma del nome di Cristo: JHS, con la H unita alla croce. Se la diffusione del trigramma, soprattutto in Italia centrale, è legata all’Osservanza francescana e alla predicazione di San Bernardino da Siena, la devozione al Nome di Gesù è attestata anche in ambito domenicano sin dal XIII secolo.

La sovrapposizione della Crocifissione all’Ultima Cena, tipicità trecentesca pressoché scomparsa alla fine del Quattrocento, qui a sorpresa ricompare in una “cena domenicana”; un ritorno al passato che, se ha evocato analogie con il Cenacolo di Andrea del Castagno nel monastero di Sant’Apollonia, è stato talvolta spiegato come un retaggio di spiritualità savonaroliana. Senza voler negare queste relazioni, nella rassegna iconografica vedremo che l’affresco di Sogliani riprende l’impostazione del quattrocentesco Miracolo dei pani in un refettorio del monastero domenicano femminile di San Niccolò a Prato, dove una Crocifissione con santi, entro riquadri, sovrasta la scena del miracolo. Vedremo, inoltre, che l’associazione tra il Miracolo dei pani e la Crocifissione, pur su pareti contrapposte, è presente anche nel refettorio del convento di San Domenico a Forlì, affrescato negli stessi anni del refettorio grande di San Marco.

Suggestiva, anche se meno probabile, è l’ipotesi che la Crocifissione di Sogliani richiami, quasi un omaggio, la Crocifissione che Beato Angelico aveva eseguito sul muro di fondo dello stesso refettorio di San Marco (figurae Crucifixi refectorii, v. Morçay 1913, p. 14) e che andò perduta nel 1526 quando, per ampliare la sala di una campata, quella parete venne demolita. La Crocifissione del refettorio di San Marco poteva forse essere simile a quella affrescata dallo stesso Angelico per il refettorio del convento di San Domenico di Fiesole, oggi al Museo del Louvre: la Vergine e San Giovanni sono in piedi ai lati della croce, con San Domenico inginocchiato in adorazione.

Beato Angelico, Crocifissione del Refettorio del Convento di San Domenico a Fiesole, Museo del Louvre

Sull’affresco di Sogliani scriveva Padre Vincenzo Marchese: “Opera assai maestrevolmente condotta, nella quale è tanta la somiglianza con la maniera del Porta (Fra Bartolomeo), che si stimerebbe da lui eseguita; segnatamente la parte superiore, ove ritrasse un Crocifisso con la Beata Vergine, S. Giovanni, S. Antonino e S. Caterina da Siena, tutte figure molto belle” (Marchese 1845, p. 157). Si pensi, a questo riguardo, che il disegno della testa di Sant’Antonino (Uffizi, GDSU, n. 1770 E; v. Capretti 1996), oggi assegnato a Sogliani come studio preparatorio dell’affresco, per molto tempo è stato ritenuto di Fra Bartolomeo, e così era esposto al Museo di San Marco nell’allestimento ottocentesco della cella del santo. Mi pare, inoltre, che la figura di Caterina da Siena in San Marco possa derivare dalla Santa Caterina dipinta da Fra Bartolomeo nella tavola con il Padre eterno (1509), oggi nel Museo di Villa Guinigi a Lucca: si noti, ad esempio, l’insolito dettaglio, ripreso alla lettera da Sogliani, dei gigli appoggiati in equilibrio su un libro visto di scorcio.

Santa Caterina da Siena in Sogliani (a sinistra) e in Fra Bartolomeo (a destra)

Sintetizza ottimamente Magnolia Scudieri: “Classicheggiante nella composizione, ma tenero nell’accentuazione realistica di alcuni volti (…) il pittore rielabora e fonde spunti quattrocenteschi con quelli più moderni derivanti da Fra Bartolomeo, dall’Albertinelli e da Andrea del Sarto con una misurata e malinconica semplicità di influenza savonaroliana (Scudieri 1995, p. 61).

3. Il miracolo nelle antiche fonti domenicane

Il Miracolo dei pani e del vino, così come lo raffigura Sogliani, non deriva da un’unica fonte scritta, ma attinge alle diverse versioni dell’episodio incluse nelle prime narrazioni della vita di San Domenico. Con alcune differenze, il miracolo è citato nelle seguenti fonti di XIII secolo: le testimonianze di fra Bonviso da Piacenza e fra Rodolfo da Faenza negli Acta del processo bolognese di canonizzazione (anno 1233; capp. 22, 31); la Legenda Sancti Dominici di Costantino da Orvieto (datata al 1246-47; cap. 37); la Legenda amplior sancti Dominici del maestro dell’Ordine Umberto di Romans (anni 1254-56; cap. 36), che riporta quasi alla lettera il testo di Costantino da Orvieto; i Miracula Sancti Dominici della Beata Cecilia, monaca romana (datati al 1252-57 o 1272-88; cap. 3); il Libellus de vita et obitu et miraculis sancti Dominici di Teodorico di Apolda (1286-97; cap. XII), che riprende con poche varianti la versione di Cecilia, a cui fa seguire anche quella di Costantino da Orvieto/Umberto di Romans.

Mentre i racconti di fra Bonviso, Costantino e Umberto riportano solo il miracolo dei pani, nel testo di Cecilia, poi ripreso da Teodorico di Apolda, al miracolo dei pani, preceduto da un antefatto che manca nelle altre versioni, segue anche il miracolo del vino. Il testo della monaca Cecilia, pertanto, può essere giustamente considerato la fonte principale dell’affresco di Sogliani a San Marco.

Qualche rilevanza hanno anche le Vitae fratrum Ordinis Praedicatorum di Geraldo di Frachet (1256-60), in cui San Domenico moltiplica una volta il pane e una volta il vino, episodi riportati anche da Teodorico di Apolda, mentre in un’altra occasione trasforma l’acqua in vino.

Nella Legenda aurea, Jacopo da Varazze inserisce una versione concisa dell’episodio, ripresa dai testi di Costantino da Orvieto e Umberto di Romans:

Nella stessa chiesa a Roma (San Sisto) vivevano circa quaranta frati e una volta, poiché il pane che erano riusciti a procurarsi era molto poco, il beato Domenico ordinò che quel poco pane che avevano fosse diviso in parti a tavola. Mentre ciascuno spezzava con gioia un pezzetto, ecco che entrarono in refettorio due giovani, vestiti allo stesso modo e di aspetto simile, con le pieghe dei mantelli piene di pani. Dopo averli portati in silenzio a capotavola, dove era il servo di Dio Domenico, se ne andarono così all’improvviso che nessuno poi riuscì a sapere da dove venissero o dove fossero andati. Allora il santo padre Domenico distese la mano verso i frati tutt’intorno e disse: «Fratelli miei, ora mangiate» (Legenda Aurea 2007, pp. 814-17).

L’ambientazione del miracolo è il convento di San Sisto a Roma in tutte le fonti, ad eccezione degli Acta, dove la vicenda si svolge nel convento di Bologna. Il numero dei frati presenti varia da quaranta (Costantino/Umberto) a cento (Cecilia/Teodorico). Il miracolo dei pani è raccontato in due versioni, quella in cui il pane è poco e viene diviso (Costantino/Umberto, Teodorico, Geraldo), e quella in cui manca del tutto (fra Bonviso, Cecilia/Teodorico), come nell’affresco di Sogliani; nel racconto di Costantino/Umberto il miracolo avviene due volte.

Il racconto include la chiamata ad prandium (a pranzo) dei frati increduli, perché sapevano che non c’era niente da mangiare; poi Domenico benedisse (fra Bonviso, Acta), benedisse Dio (Costantino/Umberto), benedisse le mense (Cecilia/Teodorico); dopodiché fra Enrico da Roma cominciò la lettura che si faceva durante i pasti e (Domenico) con le mani giunte iniziò a pregare sulla tavola (Cecilia/Teodorico).

Negli Acta, fra Bonviso (poi anche Teodorico di Apolda) non parla di mani giunte, ma testimonia che il santo con volto gioioso alzò le mani in orazione, proprio come nell’affresco di San Marco, lodò il Signore e benedisse.

In Sogliani manca il frate lettore, che nella rassegna iconografica, come vedremo, è presente in soli cinque casi, raffigurato su un pulpito: in una predella fiesolana di Beato Angelico, in una tarsia di fra Damiano da Bergamo, in una tavoletta fiorentina del ‘500, in un affresco di Santi di Tito e, infine, in un affresco di scuola napoletana del ‘600. D’altra parte, il pulpito ligneo del refettorio di San Marco, anche se posteriore all’affresco di Sogliani nelle attuali fattezze di primo ‘600, in qualche modo integra visivamente l’assenza nel dipinto e testimonia la consuetudine della lettura, talvolta cantata, che avveniva durante i pasti quando, con poche eccezioni, vigeva l’obbligo del silenzio.

3.1 Il miracolo del vino

Il primo testo che accenna alla penuria di vino, assieme a quella del pane, è la testimonianza di fra Rodolfo da Faenza negli Acta, anche se in questo caso la provvidenza divina, mossa dalla preghiera, agisce senza interventi soprannaturali. Come già detto, solo nel racconto di Cecilia (Miracula, 3), seguita da Teodorico di Apolda (Libellus, XII), al miracolo dei pani segue quello del vino.

Poi (dopo il miracolo dei pani) disse ai frati che servivano a tavola di versare il vino, ma quelli dissero: «Padre santo, non ne abbiamo». Ma il beato Domenico pieno di spirito profetico disse loro di nuovo: «Andate alla botte e servite ai confratelli il vino che il Signore vi ha messo». Andarono dunque, come era stato ordinato loro, e trovarono la botte piena fino all’orlo di ottimo vino; dopo averlo attinto, lo portarono e lo servirono ai confratelli. E il beato Domenico disse loro: «Bevete, fratelli, il vino che il Signore vi ha procurato» (Cecilia, 3, 29; cfr. Teodorico di Apolda, XII, 134).

Il vino, senza il pane, è protagonista anche di un altro episodio riportato da Cecilia (cap. 6) e Teodorico (XII, 139-40). Nel monastero femminile di Roma, a tarda sera, al termine di un lungo discorso edificante, San Domenico disse: «Figlie mie, è bene che ora gustiamo qualcosa da bere». Fece portare del vino e ne fu riempito un calice fino all’orlo. Lo benedisse e ne bevve lui stesso per primo, poi ne bevvero a volontà i frati presenti (venticinque secondo Cecilia, trenta per Teodorico), ma il calice rimase pieno. Poi disse: «Voglio che ora bevano tutte le mie figlie (…) Bevete quanto volete, figlie mie!» e così bevvero prima la priora e poi tutte le altre suore, in totale centoquattro. E tutte bevvero il vino da quel calice quanto ne vollero, ma il calice senza diminuire rimase pieno come se vi fosse stato continuamente versato altro vino.

Un’altra volta, come racconta Teodorico di Apolda (XV, 168), venne a mancare il vino per i frati malati. San Domenico andò subito a pregare e invitò tutti a fare lo stesso. Il frate infermiere trovò il vaso riempito fino all’orlo del vino procurato dal Cielo. Lo stesso episodio è riportato anche nelle Vitae fratrum di Geraldo di Frachet, che racconta anche di quando, presso Tolosa, i frati a pranzo non avevano che un calice di vino; allora Domenico ordinò che quel poco che avevano fosse versato in un grande vaso e che vi fosse aggiunta molta acqua. Erano otto frati e tutti bevvero in abbondanza l’acqua che si era trasformata in un vino molto buono, e ne rimase ancora (Vitae fratrum, De Beato Domenico, V).

3.2 La distribuzione dei pani

Le fonti principali, descrivendo il miracolo dei pani, raccontano l’intervento di due creature misteriose descritte come due giovani, vestiti allo stesso modo e simili nell’aspetto (Costantino/Umberto), bellissimi (Cecilia/Teodorico); solo negli Acta si parla di due persone imprecisate (duo, fra Bonviso). I due, che appaiono nel refettorio all’improvviso, a seconda delle versioni: portano due ceste, una piena di pane, l’altra di fichi secchi (fra Bonviso, Teodorico); avevano le pieghe dei mantelli, che pendevano dal collo, piene di quel pane che il fornaio che li inviava sapeva preparare (Costantino/Umberto); erano carichi, davanti e di dietro, di due stoffe bianchissime piene di pani (Cecilia); con due mantelli che erano pieni, davanti e dietro, di bianchissimi pani (Teodorico).

I due giovani servono i frati in silenzio, portando i pani in testa a una delle tavole, dove sedeva l’uomo di Dio Domenico, e si allontanarono così all’improvviso, che nessuno poi è mai riuscito a sapere da dove fossero giunti, o dove se ne fossero andati. Dopo che furono usciti, l’uomo di Dio Domenico distese la mano verso i frati tutt’intorno e disse: «Fratelli miei, ora mangiate» (Costantino/Umberto); oppure, nella versione di Cecilia/Teodorico: cominciando dai più giovani, uno dal lato destro e l’altro dal sinistro, posero davanti a ogni frate un pane intero di meravigliosa bellezza. Giunti di fronte al beato Domenico, gli posero davanti un pane intero come agli altri frati e, fatto un inchino col capo, subito scomparvero; dove andassero e da dove fossero venuti è ancora oggi ignoto. Allora il beato Domenico disse ai frati: «Mangiate fratelli, il pane che il Signore vi ha mandato» (in Teodorico di Apolda: il pane che il Signore ci ha mandato).

Se nel racconto di Costantino/Umberto San Domenico è seduto in testa a una delle tavole (a capotavola), nella versione di Cecilia/Teodorico, come nell’affresco di Sogliani, è chiaramente seduto in posizione centrale; in Cecilia/Teodorico, infatti, i due giovani servono i frati separatamente, avanzando uno a destra e l’altro a sinistra, e si riuniscono di fronte a San Domenico, che servono per ultimo prima di sparire.

Scrive fr. Pietro Lippini O.P.: “Le panche e le tavole, dove i frati si disponevano da un solo lato, sempre allo stesso posto, in rigoroso ordine di anzianità di professione, erano disposte lungo le pareti, lasciando libero il centro. La tavola del Priore, sovrastata da una immagine (…), occupava al centro la parete di fondo, opposta all’ingresso” (Lippini 2008, p. 107). La presenza di un’immagine sacra in refettorio è attestata dall’Opera de vita regulari di Umberto di Romans (t. 2, p. 222): Quomodo intrantes refectorium, ante imaginem quae est ante mensam prioris, aliquantulum inclinent (quando si entra in refettorio, si faccia un lieve inchino davanti all’immagine posta sopra la tavola del priore).

Nel racconto di Cecilia/Teodorico i pani sono distribuiti cominciando ab inferioribus, che può essere inteso sia “dai più giovani (di professione)”, come ho tradotto in precedenza, sia come “da chi era di grado più basso”, ovvero, nella comunità conventuale, conversi e novizi; con un simile significato, si può anche intendere come “dalle estremità”, dal “fondo del tavolo”, dove secondo la consuetudine stavano i conversi e i più giovani.

Il testo di Cecilia/Teodorico tiene conto, alla lettera, delle antiche Costituzioni dell’Ordine (1215-37): nel capitolo dedicato al pranzo (De prandio; I, 7), si legge infatti: Verumtamen servitores incipiant ab inferioribus usque ad mensam prioris ascendentes (coloro che servono a mensa comincino dagli inferiori, procedendo con i superiori fino alla tavola del Priore). Commenta fr. Pietro Lippini, “la distribuzione (delle pietanze) veniva iniziata cominciando dagli inferiori, lasciando quindi per ultimo il Priore: forse in ricordo dell’analogo comportamento tenuto dagli angeli nel pranzo miracoloso servito a S. Domenico e ai suoi frati nel refettorio di S. Sisto a Roma (Cecilia, Miracula, 3), e in ogni caso, a simboleggiare in modo eloquente quella reale fraternità e sostanziale uguaglianza che deve esistere fra tutti i membri della comunità” (Lippini 2008, p. 239).

Nell’affresco di Sogliani, alle estremità della tavola siedono due conversi, riconoscibili dallo scapolare nero, coloro che, nella versione di Cecilia/Teodorico e secondo le antiche Costituzioni, vengono serviti per primi, seguiti dai frati più anziani di professione, per finire con il Padre Domenico al centro della mensa. Nella rassegna iconografica, troveremo qualche traccia figurativa di queste consuetudini, in particolare nell’Arca di San Domenico scolpita da Nicola Pisano, nelle predelle di Beato Angelico e in un affresco di Santi di Tito nel convento fiorentino di Santa Maria Novella.

3.3 I due giovani angeli

Ed ecco, secondo quanto (Domenico) aveva predetto per opera dello Spirito Santo, grazie alla Divina Provvidenza all’improvviso in mezzo al refettorio apparvero due giovani bellissimi (…). Così il racconto di Cecilia, seguita da Teodorico di Apolda: ed ecco, come aveva promesso, si manifestò la divina provvidenza a nutrire i suoi servi. Infatti, in mezzo al refettorio comparvero due giovani bellissimi (…). Chiosa il testo di Costantino da Orvieto, ripreso da Umberto di Romans: nessuno dubitò in alcun modo che quanto avvenuto era stato ottenuto per intervento divino e per i meriti del servo di Dio Domenico.

Che i due giovani che portano i pani siano creature sovrannaturali è evidente: bellissimi, vestiti allo stesso modo, di aspetto simile, appaiono e spariscono all’improvviso, non si sa da dove arrivino e dove se ne vadano, inviati da un misterioso fornaio, identificabile con Dio, che sapeva produrre un pane di straordinaria bellezza, bianchissimo e abbondantissimo, che al terzo giorno non era ancora terminato.

Che siano angeli non c’è scritto, ma tutta la tradizione iconografica, ad eccezione dell’Arca di San Domenico, di una miniatura umbra e di un affresco di Santi di Tito, come vedremo, li raffigura come tali.

L’identificazione dei due giovani in angeli, infatti, trova conferme indirette nelle stesse fonti. In particolare, il testo di Cecilia/Teodorico riporta un vivace antefatto del miracolo, in cui due frati questuanti inviati da San Domenico, che non erano riusciti a trovare niente da mangiare, ricevettero un pane, l’unico di quella giornata, da una devota dell’Ordine. Di ritorno al convento, si imbatterono in un uomo candido e bello che, con insistenza, chiese in elemosina proprio quel pane; alla fine, i due frati glielo donarono per amore di Dio, al che quell’uomo improvvisamente sparì e non lo videro più (come poi i due giovani in refettorio); tornati a mani vuote, i due frati incontrarono San Domenico che, per rivelazione dello Spirito Santo, disse loro: : «E’ stato un angelo del Signore, sarà dunque il Signore a nutrire i suoi servi. Andiamo a pregare».

In un altro episodio riportato da Cecilia (cap. 6) e Teodorico (XII, 141), a Roma apparve un bellissimo giovane con in mano un bastone, già pronto al viaggio, che di notte fece da guida a San Domenico e due frati sulla via di ritorno al convento di Santa Sabina sull’Aventino. Gli chiesero: «Padre santo, chi era quel giovane che ci ha accompagnati?». Il santo rispose: «Figlio mio, era un angelo di Dio che il Signore ha inviato per farci da custode».

Il miracolo dei pani, come si vedrà meglio nel prossimo paragrafo, assume un rilevante significato eucaristico. Quei pani distribuiti alla mensa dei frati, abbondanti fin quasi a non consumarsi mai, bianchissimi e di straordinaria bellezza richiamano il pane consacrato dal sacerdote al culmine della Messa. Mi pare, quindi, che all’identificazione dei due giovani in angeli possa anche avere contribuito, a seguito dell’istituzione della solennità del Corpus Domini (1264), la larga diffusione del relativo Ufficio liturgico composto da San Tommaso d’Aquino, dove, richiamando le espressioni di alcuni salmi e del Vangelo di Giovanni, il pane eucaristico è definito “pane degli angeli”: l’inno Sacris solemnis termina con la celebre strofa del Panis angelicus (l’Eucaristia è il pane degli angeli che diventa il pane degli uomini); la sequenza Lauda Sion Salvatorem contiene i versi Ecce panis angelorum (Ecco il pane degli angeli, fatto cibo dei viandanti, vero pane dei figli).

Sulla relazione fra Moltiplicazione dei pani, Eucaristia e “pane degli angeli”, in una pagina a parte riporto alcuni stralci tratti da due Sermones di Sant’Agostino (130 e 132/A) a commento dei capitoli 5 e 6 del Vangelo di Giovanni.

Aggiungo che, a mio parere, quando nell’affresco di Sogliani e in altri esempi che vedremo, gli angeli portano i pani su drappi di stoffa o mantelli, secondo i testi di Cecilia/Teodorico e Costantino/Umberto, sembrano richiamare visivamente i sacerdoti che indossano il “velo omerale”, una sorta di scialle liturgico utilizzato per reggere l’ostensorio con l’ostia consacrata senza toccarlo direttamente con le mani, come accadeva, e come tuttora avviene, durante le benedizioni eucaristiche e le processioni del Sacramento, come quella del Corpus Domini.

Papa Francesco indossa il velo omerale

3.4 Provvidenza ed Eucaristia

L’orazione fiduciosa di San Domenico è il “motore” del miracolo. «Va’ e prega, perché il Signore provvederà»: già negli Acta, nella testimonianza di fra Rodolfo da Faenza, Domenico mette in relazione preghiera e aiuto divino. La Provvidenza è più volte evocata specialmente nel racconto di Cecilia/Teodorico, che si conclude con l’esortazione di Domenico a non dubitare mai della divina Provvidenza, neppure in povertà (Cecilia); a riporre la speranza nel Signore e a non disperare mai (Teodorico di Apolda).

Il Miracolo dei pani e del vino rappresentava dunque, prima di tutto, un exemplum di fiducia e speranza nel soccorso della Provvidenza e un invito alla preghiera perseverante. Allo stesso tempo, specialmente quando è associato alla Crocifissione, come a San Marco e, come vedremo, a Prato e a Forlì, l’episodio miracoloso evidenziava anche una profonda valenza eucaristica.

Il soggetto – scrive Giovanna Rasario – concilia l’idea dell’”Ultima Cena” con la “Provvidenza dei domenicani”. (…) Abbiamo una Cena e subito sopra una Crocifissione. Il tema e l’innesto teologico della Cena come istituzione dell’Eucaristia, connesso con la Crocifissione, acquista qui un significato ulteriore. Per il numero dei convitati è naturalmente agli apostoli che allude l’affresco, anzi ai domenicani in veste di apostoli, quasi a conferma che l’apostolato è la missione primaria dell’ordine.(…) I frati non hanno nulla da mangiare, il pane non è ancora sulla mensa, i bicchieri sono dipinti vuoti ed addirittura capovolti. Non è più una mensa classica, con il pane, il vino, le brocche, la frutta (…), è una mensa spoglia e sacrale (Rasario 1997, pp. 181-182).

In occasione della presentazione del restauro dell’affresco di Sogliani (Museo di San Marco, 22 febbraio 2025), il domenicano fra Gianni Festa, docente di Storia della Chiesa e studioso di storia della letteratura religiosa, ha approfondito il significato spirituale e teologico del soggetto. Ne riporto una breve sintesi personale:

Per i domenicani, che nascono come ordine canonicale, il fondatore Domenico era ed è considerato non solo come un “alter Christus”, analogamente a Francesco d’Assisi, ma anche come un altro “Christus Sacerdos”. Conseguentemente, l’ordine dei predicatori da lui fondato eredita la missione del Cristo-Sacerdote.

L’episodio di “San Domenico che moltiplica i pani e il vino” assume dunque un duplice significato: Domenico è “alter Christus” nell’azione Cristo-mimetica dei pani, che evoca la moltiplicazione dei pani e dei pesci nei Vangeli; al contempo, nella moltiplicazione del vino narrata da Cecilia, che richiama la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana, Domenico è anche il Christus-Sacerdos che celebra l’Eucaristia. Nell’affresco di Sogliani Domenico/Cristo-Sacerdote sta celebrando la Messa, sta recitando la preghiera sacerdotale con le mani alzate e poi spezzerà il pane con gesto eucaristico su una tavola/altare assieme a dodici frati, come i dodici apostoli dell’Ultima cena, a conferma dell’identità sacerdotale dell’Ordine. Una lettura avvalorata dalla collocazione della mensa sotto il Crocifisso, che in sintonia con la teologia moderna eucaristica fondata dai domenicani con San Tommaso d’Aquino, indica il sacrificio eucaristico.

L’esegesi “eucaristica” di fra Gianni Festa, con il pane del miracolo che diventa “figura” dell’ostia consacrata, trova consonanze nelle fonti. In un episodio riportato da Teodorico di Apolda e Geraldo di Frachet in cui San Domenico “moltiplica” due pani, spezzandoli e facendoli distribuire, il santo è definito Christi confessor (Teodorico, XIV,167) e Domini imitator (Geraldo, De Beato Domenico, XX), sottolineandone l’aspetto Cristo-mimetico. Nei testi di Cecilia e Teodorico, Domenico utilizza parole simili a quelle della liturgia eucaristica: Mangiate fratelli il pane che il Signore ha mandato, Bevete fratelli il vino che il Signore ha procurato, con i due verbi comedite e bibite identici a quelli dell’Ultima cena nella Vulgata.

Alla fine del racconto di Cecilia/Teodorico si legge: Mangiarono e bevvero a sazietà quel giorno e il giorno dopo; il terzo giorno, dopo che ebbero mangiato, (Domenico) ordinò che tutto quello che era avanzato fosse dato ai poveri e che in casa per loro non ne rimanesse. È il circuito virtuoso della carità: la rinuncia dell’unico pane posseduto in favore di un povero, come narrato nell’antefatto, genera prodigiosamente altro pane e vino, così abbondanti da bastare a chi ha donato e da poter essere distribuiti ad altri poveri. Il testo di Cecilia aggiunge: In quei tre giorni (Domenico) non inviò nessuno alla questua, perché il Signore aveva offerto loro in abbondanza il pane e il vino che viene dal cielo, dove l’espressione panem et vinum de coelo indica chiaramente il pane e il vino eucaristici, il corpo e il sangue di Cristo (Ego sum panis vivus, qui de coelo descendi: Io sono il pane vivo disceso dal Cielo, Gv. 6,51).

4. Due esempi eucaristici in San Marco

Poco distante dall’affresco di Sogliani, nel cosiddetto Refettorio piccolo, anche l’Ultima Cena di Domenico Ghirlandaio, dipinta cinquant’anni prima (1480 c.), rivela un’attenzione particolare dei domenicani di San Marco per i temi eucaristici.

Domenico Ghirlandaio, Ultima Cena, Refettorio piccolo, Museo di San Marco

Sulla spalliera della panca dove siedono Cristo e gli apostoli corre infatti un’iscrizione, tratta dal Vangelo di Luca (22,29-30), con la promessa di Gesù al termine della cena pasquale: Ego dispono vobis sicut disposuit mihi pater meus regnum ut edatis et bibatis super mensam meam in regno meo (Io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno). Qui il banchetto eucaristico prefigura escatologicamente il convito eterno nel regno di Dio, alla fine dei tempi. Al di sopra della scena, come nella Cena del Castagno e come poi in Sogliani, si vede ancora la traccia di un Crocifisso, eseguito a secco, a ribadire il significato sacrificale ed eucaristico della mensa.

Beato Angelico, Vir dolorum, Chiostro di S. Antonino, Museo di San Marco

Già prima dell’affresco di Sogliani, il legame fra refettorio, cena eucaristica  e sacrificio di Cristo era evidente non solo nella Crocifissione perduta di Beato Angelico, che decorava la parete di fondo del Refettorio grande prima dell’ampliamento della sala, ma anche nella lunetta affrescata dallo stesso Angelico nel chiostro, sopra la porta di accesso all’antirefettorio, ancora conservata in situ: un Cristo in pietà o, per meglio dire, il Vir dolorum (l’Uomo dei dolori), che si alza dal sepolcro con le piaghe sanguinanti, “che ricordava ai frati di mettere in relazione i lori pasti comuni con l’Eucaristia e con l’Ultima Cena che aveva istituito il banchetto del cielo” (Hood 1993). “La figura dipinta attendeva i frati che si recavano all’antisala del lavabo e al refettorio e induceva la loro immaginazione ad accostare, per analogia, l’acqua con cui si sarebbero tersi le mani al sangue messianico che lava i peccati del mondo, il pane e il vino che avrebbero consumato al sangue e al corpo di Cristo, nutrimento dell’anima, mistero dell’Eucarestia” (Morachiello 1995, pp. 186-87).

5. Le immagini del miracolo: rassegna iconografica

L’affresco di Sogliani a San Marco, eseguito nel 1536, si inserisce in una precisa tradizione iconografica, che si sviluppa a partire dalla canonizzazione di San Domenico (1234). La rassegna che segue include 37 opere, tra cui 1 rilievo scolpito, 12 dipinti murali e 4 miniature, provenienti per lo più da chiese e conventi domenicani, almeno 4 sicuramente da refettori; 10 sono del Due-Trecento, 9 del Quattrocento, 7 del Cinquecento, 9 del Seicento, 1 dell’Ottocento e 1 del Novecento. Incuriosisce il “vuoto” di Sette – Novecento, che, mi auguro, potrà essere colmato in futuro, anche grazie alle segnalazioni dei nostri lettori.

5.1 La Tavola della Mascarella

Il primo caso in cui troviamo San Domenico a mensa con i confratelli è la particolarissima tavola “della Mascarella”, conservata nella omonima chiesa di Bologna, dipinta nel 1234-40 subito dopo la canonizzazione.

Tavola della Mascarella (XIII secolo), Chiesa di S. Maria e S. Domenico della Mascarella, Bologna

Larga in origine quasi sei metri, alta 44 cm., e oggi divisa in più parti, mostra una tavola imbandita con pani, coltelli, scodelle, calici e brocche; San Domenico è al centro, affiancato da quaranta frati di dimensioni più piccole, inquadrati a coppie (ma dovevano essercene altri otto, in frammenti andati perduti); indossano la cappa e hanno tutti il cappuccio alzato a coprire il capo, come era consuetudine durante i pasti: vedremo nella rassegna che solo Beato Angelico, nei pannelli del Louvre e di Cortona, raffigurerà tutti i frati con il cappuccio alzato.

Tavola della Mascarella (XIII secolo), Chiesa di S. Maria e S. Domenico della Mascarella, Bologna

Quella della Mascarella è la più antica immagine di San Domenico che ci sia pervenuta, a cui farà seguito, poco dopo, quella oggi al Fogg Art Museum, di ambito senese, talvolta attribuita a Guido da Siena e datata al 1240, ma ridipinta attorno al 1260.

I numeri non sono casuali. Quarantotto frati, disposti simmetricamente ventiquattro a sinistra e altrettanti a destra di San Domenico posto al centro; sono multipli di dodici, il numero degli apostoli: con la Tavola della Mascarella ha inizio l’analogia eucaristica fra la mensa domenicana e l’Ultima cena, fra Domenico e Cristo.

Secondo fr. Gianni Festa, che cita il Prologo della Legenda sancti Dominici di Pietro Ferrandi (1234-39) come possibile fonte per la tavola, “la scena conviviale potrebbe rimandare al banchetto eterno al quale i Frati Predicatori invitano tutti coloro che desiderano parteciparvi con la parola della loro predicazione. (…). Ci troviamo dunque davanti non solo alla più antica immagine di Domenico, ma anche ad una raffigurazione simbolica dell’avvenuta acquisizione della propria identità e missione all’interno della Chiesa da parte dell’Ordine al tempo della canonizzazione del Santo: Domenico e i suoi Frati, una comunità unita nell’annuncio del Vangelo, ovvero il banchetto dei cieli” (Festa-Tioli 2024, pp.77-78).

A conferma di questa interpretazione, lo stesso Festa cita un antifonario proveniente dal convento di San Domenico a Perugia, già segnalato in precedenza da Joanna Cannon (Cannon 1998, pp. 38-9), riferibile ad un maestro attivo a Perugia agli inizi del XIV secolo (Biblioteca Augusta di Perugia, ms. 2785 H). Una miniatura (lettera “M”, fol. 44v) raffigura San Domenico che invita una folla ad un banchetto dove li attende Cristo. Gli invitati, laici e religiosi, sono in numero di dodici, come gli apostoli; il braccio proteso di Domenico e la mano benedicente, a mio parere, sembrano evocare il racconto del miracolo dei pani: (Domenico) benedisse le mense (Cecilia/Teodorico), distese la mano verso i frati tutt’intorno e disse: «Fratelli miei, ora mangiate» (Costantino/Umberto). Il testo miniato è l’incipit del Responsorio per il Primo Notturno della solennità di San Domenico (4 agosto): Volendo invitare il mondo alle nozze dell’Agnello, all’ora di cena il Padre mandò il suo servo, promettendo molteplici prelibatezze. Per questo banchetto così meraviglioso scelse come messaggero San Domenico.

Il dipinto della Mascarella, propriamente, non raffigura il Miracolo dei pani, ma, come attestano le cronache locali, almeno dal ‘400 si credeva che il pannello ligneo fosse una porzione della tavola della prima comunità domenicana della Mascarella, dove sarebbe avvenuto il miracolo; secondo gli Acta del processo di canonizzazione, infatti, l’episodio dei pani si sarebbe svolto proprio a Bologna. Non solo un’opera d’arte, dunque, ma anche un’opera-reliquia che fu oggetto di venerazione e persino di contesa, quando nel 1497 i frati del convento bolognese di San Domenico tentarono di appropriarsene.

La tavola è stata sempre visibile, prima appesa ad una trave della chiesa e poi fissata alla parete di una cappella, ma è bene tenere presente che il dipinto del ‘200 poté essere visto solo per un centinaio d’anni: attorno al 1332, infatti, il pannello fu completamente ridipinto, coprendo l’antica pittura e sostituendola, sull’altro lato, da un più riconoscibile Miracolo dei pani, che, come vedremo, divenne un punto di riferimento per la tradizione iconografica del soggetto.

Tavola della Mascarella, Chiesa di S. Maria e S. Domenico della Mascarella, Bologna: la versione di XIV secolo (in alto) e quella di XIII secolo (in basso)

La pittura di XIII secolo fu riscoperta solo alla fine dell’Ottocento, mentre quella del ‘300 fu successivamente staccata e trasportata su tela; oggi sono entrambe esposte in una cappella della chiesa, intitolata a Santa Maria e San Domenico della Mascarella. Recenti analisi dendrocronologiche sul legno di abete rosso eseguite dall’Opificio delle Pietre Dure hanno confermato una datazione della tavola compatibile con gli ultimi anni di Domenico a Bologna, caratterizzati dalla fondazione della prima comunità alla Mascarella (1218), dal trasferimento nel convento di San Nicolò delle Vigne (1219), poi intitolato a San Domenico, e, infine, dalla morte del santo (1221).

5.2 Duecento e Trecento

La prima attestazione figurativa del Miracolo dei pani è quella scolpita da Nicola Pisano (1220-1284), aiutato da Arnolfo di Cambio e dal domenicano fra Guglielmo da Pisa, in un pannello laterale della celebre Arca di San Domenico (1264-67) nella chiesa conventuale di San Domenico a Bologna. Trent’anni dopo il dipinto della Mascarella, il Miracolo di pani narrato dalle fonti viene scelto fra le sei storie che ornano il monumento funebre di San Domenico, opera di rilevanza istituzionale e paradigmatica per tutto l’Ordine. Gli altri episodi dell’Arca sono la Prova del fuoco che brucia i libri degli eretici; la Resurrezione di Napoleone Orsini caduto da cavallo; I santi Pietro e Paolo consegnano a Domenico la missione dell’Ordine; l’Approvazione dell’Ordine da parte del papa; Reginaldo d’Orleans entra nell’Ordine.

Nicola Pisano e aiuti, pannello dell’Arca di San Domenico, Basilica di San Domenico, Bologna

Nel Miracolo dei pani, San Domenico è al centro e i frati lo affiancano simmetricamente, tre da un lato e tre dall’altro, due a figura intera. Il numero di sei, la metà di dodici, evidenzia sinteticamente l’analogia con l’Ultima cena di Cristo riunito con gli apostoli, come già nella tavola duecentesca della Mascarella.

I frati non hanno niente da mangiare (si intravedono due scodelle rovesciate, come in Sogliani lo sono i bicchieri) e al centro, in primo piano, due figure pressoché identiche, di dimensioni più piccole rispetto ai frati, stanno portando i pani su panni ricamati. Non appaiono come angeli alati, ma, con fedeltà letterale alle fonti, come due giovani, vestiti allo stesso modo e simili nell’aspetto (Costantino/Umberto): qui indossano semplici cuffie sul capo e tuniche legate in vita, analogamente ai due personaggi che, nel pannello con la Resurrezione di Napoleone Orsini, sostengono il giovane caduto da cavallo, anch’egli vestito allo stesso modo. Questo abbigliamento, con cui, ad esempio, è raffigurato anche San Francesco nei primi episodi giotteschi ad Assisi, sembrerebbe indicare l’età giovanile. Seguendo il racconto di Cecilia/Teodorico, i due giovani hanno già servito gli altri frati e si ritrovano al centro per offrire il pane a san Domenico. Secondo Joanna Cannon, “i due giovani frati seduti in primo piano (…), diversamente dai loro compagni, non hanno ancora ricevuto la piena tonsura; in altre parole, sono dei novizi, seduti in fondo al tavolo. Come nel racconto di Cecilia, e come era nella tradizione domenicana, essi sono stati serviti per primi” (Cannon 1998, p. 36). Anche in Sogliani, abbiamo visto, alle estremità del tavolo siedono due conversi.

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Al pannello dell’Arca segue, alla fine del ‘200, la tavola attribuita a Giovanni da Taranto con San Domenico e, nelle ante laterali aggiunte probabilmente agli inizi del ‘300, dodici storie della sua vita. Proveniente da Gaeta o da una chiesa napoletana dell’Ordine domenicano, è oggi conservata al Museo Nazionale di Capodimonte.

Giovanni da Taranto, San Domenico e storie della sua vita, Museo di Capodimonte; il Miracolo dei pani è in basso a sinistra

Una delle storie raffigura il Miracolo dei pani, dove le architetture, una chiesa e un refettorio conventuale, inquadrano due momenti dell’episodio: a destra l’orazione di San Domenico e, a sinistra, cinque frati seduti ad una mensa vuota, mentre, in primo piano, appaiono due piccole figure alate (della seconda si intravede solo la testa): i due giovani del racconto sono raffigurati come angeli. Manca la simmetria, lo stile è vivace e popolaresco.

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Degli stessi anni, e non dissimile nell’impostazione, è un’opera spagnola: San Domenico e dodici episodi della sua vita (primo quarto del ‘300), tavola aragonese proveniente dalla scomparsa chiesa di San Michele a Tamarite de Litera, oggi al Museo Nazionale d’Arte di Catalogna a Barcellona.

San Domenico e storie della sua vita, Museo Nazionale d’Arte di Catalogna, Barcellona; al centro il Miracolo dei pani

Il miracolo dei pani è dipinto in forma molto semplificata, ma efficace: una mensa imbandita con due brocche e due grandi scodelle; San Domenico e un confratello ricevono i pani da due angeli, raffigurati eccezionalmente accanto a loro e non davanti alla tavola. Un’altra particolarità è che i pani sono trasportati in ceste e non su drappi di stoffa. L’unica fonte che parla di canistra, ovvero “ceste” o “panieri”, è fra Bonviso negli Acta (poi ripreso da Teodorico di Apolda) dove però in una cesta ci sono pani e nell’altra fichi secchi. In questa rassegna, gli angeli portano ceste di pani in dieci casi.

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La studiosa Joanna Cannon (Cannon 1998, Cannon 2013), prendendo in esame corali miniati di conventi e monasteri domenicani dell’Italia centrale tra fine Duecento e inizi del Trecento, ne ha individuati tre con Storie della vita di San Domenico che includono il Miracolo dei pani .

Jacobello da Salerno, Graduale miniato, J. Paul Getty Museum, Malibu

Datato attorno al 1270 e proveniente forse da un monastero femminile bolognese, un Graduale miniato da Jacobello da Salerno, detto Muriolus, presenta l’Introito per la Messa della festa di San Domenico con una iniziale I (In medio ecclesie) che raffigura il santo frontale in una nicchia e, in fondo alla pagina, tre episodi fra cui quello dei pani, purtroppo tagliato in basso, con un tavolo rotondo e quattro frati con San Domenico al centro che prega a mani giunte, come nel racconto di Cecilia (J. Paul Getty Museum, Malibu, Ms. 83H 84, fol. 38r).

Ambito umbro, Graduale miniato, Biblioteca Comunale Augusta di Perugia

Un Graduale del convento di San Salvatore a Spoleto, poi acquisito dal convento di San Domenico a Perugia, per l’Introito della festa di San Domenico mostra un’elaborata iniziale I (In medio ecclesie) con quattro storie di San Domenico tra busti di santi (Biblioteca Comunale Augusta di Perugia, Ms. 2795 A, fol. 46v). In fondo alla pagina, due scenette incompiute, disegnate ma prive di colori, una delle quali raffigura due giovani che si avvicinano ad un frate benedicente portando pani su drappi. Non hanno ali e indossano una cuffia, come nel pannello scolpito dell’Arca. Di ambito umbro, viene datato all’ultimo quarto del XIII secolo.

Corale miniato, Gubbio, Archivio Comunale

Variamente datato tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo è un Graduale, forse di un maestro bolognese, proveniente dal convento di San Martino o San Domenico di Gubbio, che presenta l’iniziale I dell’Introito per la festa di San Domenico (In medio ecclesie) decorata al suo interno da cinque storie della vita del santo fra angeli: Domenico in gloria, Il miracolo dei pani, La visione dei santi Pietro e Paolo, La resurrezione del fanciullo, Il sogno di Innocenzo III; in fondo alla pagina, un tondo con le Esequie di Domenico. Nel miracolo dei pani la simmetria e il numero di frati (sei) ricorda l’Arca, ma i due giovani che portano ceste di pani, come nella tavola di Giovanni da Taranto, hanno le sembianze di due angeli alati (Gubbio, Archivio Comunale, Corale C, fol. 76v).

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Alle tre miniature del centro Italia indicate da Joanna Cannon se ne può aggiungere una francese, segnalata da Louis Réau (Réau 1958), tratta da un Messale proveniente dal convento domenicano di Clermont, soppresso ai tempi della Rivoluzione (Ms 62, Bibliothèque du Patrimoine di Clermont-Ferrand). Realizzato localmente nella regione dell’Alvernia, ma influenzato dall’arte miniatoria della Francia del Nord, il codice viene datato agli anni 1280-90. Al foglio 235, l’iniziale D (Deus) di un’orazione liturgica domenicana presenta sinteticamente il Miracolo dei pani, con un solo angelo e due frati che affiancano San Domenico.

Messale domenicano, Ms 62, Bibliothèque du Patrimoine de Clermont-Ferrand

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All’inizio di questa rassegna, abbiamo già introdotto il Miracolo dei panidella Mascarella” a Bologna, che attorno al 1332, quando la versione duecentesca venne nascosta da una ridipintura, fu realizzato sull’altro lato della tavola.

Tavola della Mascarella, versione di XIV secolo, dettaglio della parte centrale, Chiesa di S. Maria e S. Domenico della Mascarella, Bologna

Come nell’Arca di San Domenico, la composizione è simmetrica, con San Domenico benedicente al centro: benedisse (fra Bonviso, Acta), benedisse Dio (Costantino/Umberto), benedisse le mense (Cecilia/Teodorico). Lo affiancano sei frati a sinistra e sei a destra, con i due angeli in primo piano, raffigurati a mezzo busto, molto rovinati; per la prima volta, è importante sottolinearlo, il numero dei frati, dodici più San Domenico, esplicita pienamente l’analogia con l’Ultima Cena, con i frati/apostoli attorno a Domenico/Cristo. La versione trecentesca della Mascarella, al pari e forse più dell’Arca di San Domenico, divenne dunque un modello iconografico per la lettura eucaristica e apostolica dell’episodio, come sarà nel Miracolo di XV sec. del monastero di San Niccolò a Prato e poi in Sogliani a San Marco.

Tavola della Mascarella, versione di XIV secolo, dettaglio di una parte laterale

Fuori scena, alle estremità della tavola, due figure a mezzo busto di difficile leggibilità, forse un angelo e la Vergine annunciata, oppure, meglio, la Vergine e san Giovanni Evangelista, i tipici “dolenti” nelle scene di Crocifissione, a sottolineare, come sarà in Sogliani, il legame tra la mensa domenicana e il sacrificio eucaristico.

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Il primo affresco della rassegna, riferibile alla prima metà del ‘300, si trova a Bevagna (Perugia), nel coro della chiesa di San Domenico e del Beato Giacomo, che un tempo era parte del convento domenicano. L’episodio si inserisce in un ciclo, piuttosto rovinato, di Storie della vita di San Domenico, per alcuni di scuola fabrianese, ma, più verosimilmente, opera di un artista umbro “attivo a Perugia nella prima metà del XIV secolo, educato nella cerchia dei miniatori perugini (…) influenzato dalla cultura assisiate e da Meo da Siena” (Todini 1989). Rimangono leggibili due scene: la Disputa con il miracolo del fuoco e, al di sopra, il Miracolo dei pani.

Affresco nella chiesa di San Domenico e del Beato Giacomo a Bevagna, Perugia

Nonostante le lacune, il soggetto rimane leggibile e lo stile è vivace e attento a diversificare gesti e stati d’animo. San Domenico, al centro, prende un pane allungando il braccio sinistro, mentre col destro offre un altro pane ad un confratello; i due angeli, vestiti di bianco, portano i pani su drappi di stoffa. Sulla scia degli esempi bolognesi (Arca di San Domenico e tavola trecentesca della Mascarella), il soggetto appare già iconograficamente delineato, con un’impostazione simmetrica e “paratattica” che, nei secoli, sarà seguita dalla maggior parte degli artisti, incluso Sogliani.

5.3 Quattrocento

Nella prima metà del Quattrocento si distinguono, per qualità e fama, tre scomparti di predella dipinti da Beato Angelico.

I primi due pannelli risalgono agli anni Trenta: uno fa parte della tavola con l’Incoronazione della Vergine (1430-32), proveniente dalla chiesa conventuale di San Domenico di Fiesole, dove era collocata sul tramezzo, oggi esposta al Museo del Louvre; l’altro fa parte della predella del Trittico di Cortona (1434-38), dalla chiesa del convento di San Domenico, oggi al Museo diocesano di Cortona.

Nella predella fiesolana, da cui deriva quella cortonese, Beato Angelico, con poche varianti rispetto all’Arca di Nicola Pisano, seleziona sei episodi-chiave della vita di San Domenico: Papa Innocenzo III sogna Domenico che sostiene la chiesa in rovina, l’Apparizione dei Santi Pietro e Paolo che gli conferiscono la missione, Domenico resuscita Napoleone Orsini caduto da cavallo, la Disputa con gli eretici e il miracolo del libro salvato dalle fiamme, il Miracolo dei pani, la Morte di Domenico. Nel pannello di Cortona, dopo il Sogno di Innocenzo III, è aggiunto anche l’Incontro fra San Francesco e San Domenico.

Beato Angelico, predella dell’Incoronazione della Vergine, Museo del Louvre

Nel pannello di Fiesole (Museo del Louvre), Beato Angelico ambienta la scena nella sala di un refettorio disegnata prospetticamente. Secondo il testo di Cecilia/Teodorico un frate cominciò la lettura che si faceva durante i pasti: a sinistra in alto, si vede un frate, senza cappa, che legge un libro da un pulpito di legno. Prosegue il racconto: Domenico con le mani giunte iniziò a pregare sulla tavola, e così lo raffigura l’Angelico. L’impostazione è simmetrica, ma non completamente: Domenico è sì al centro con gli angeli affiancati di fronte, come negli esempi trecenteschi (alla Mascarella e specialmente a Bevagna), ma i frati seduti al suo fianco sono tre da una parte e quattro dall’altra. Fa da “contrappeso” visivo un frate in piedi, a sinistra in primo piano, che sta portando una cesta vuota, ad indicare la mancanza di cibo. Di questa figura, presente anche negli altri due esempi angelichiani, terrà forse conto Sogliani, quando, come abbiamo visto, alle estremità della scena centrale dipingerà due frati in piedi. Il fatto che i due tavoli laterali proseguano idealmente oltre i bordi della tavola, e che si intravedano altri pani, fa immaginare che vi siano altre figure “fuori campo”. Un dettaglio curioso è quello di una campanella che pende da una trave del soffitto in corrispondenza di San Domenico: si tratta della nola, una piccola campana che veniva suonata dal priore per consentire l’ingresso in refettorio e per scandire i momenti del pasto.

Beato Angelico, predella del Trittico di Cortona, Museo diocesano di Cortona, Arezzo

Il pannello di Cortona deriva da quello di Fiesole, semplificandolo: la sala è senza soffitto, i frati seduti con San Domenico sono quattro, non c’è il pulpito con il lettore, ma c’è ancora il frate in primo piano a sinistra che porta una cesta, qui capovolta, ad evidenziare ancora di più l’assenza di cibo. Come a Fiesole, gli angeli portano i pani in realistiche “sacche” a tracolla, distribuendoli a partire dalle estremità del tavolo per finire con San Domenico al centro, secondo la narrazione di Cecilia/Teodorico.

Non si conosce l’origine del terzo pannello di predella, oggi alla Staatsgalerie di Stoccarda. C’è l’ipotesi che, con una datazione tarda (1453-55), potesse far parte della pala per l’altare maggiore della chiesa del convento della Minerva, dipinta negli ultimi anni romani di Beato Angelico.

Beato Angelico, pannello di predella, Staatsgalerie, Stoccarda

Come a Cortona, manca il lettore e il frate in piedi a sinistra regge una cesta capovolta, un dettaglio che ritroveremo anche negli affreschi dei refettori di San Niccolò a Prato e di San Domenico a Forlì. La disposizione delle figure e la salda impostazione, una sorta di “scatola prospettica”, lo avvicinano al pannello di Fiesole. Interessante la presenza, al centro della parete dietro San Domenico, di una Crocifissione, ad imitazione di un affresco o di uno stendardo dipinto: un elemento che conferma la presenza, ancora nel Quattrocento, di scene di Crocifissione a decorazione di refettori domenicani. Lo stesso Beato Angelico, abbiamo visto, ne aveva affrescate due, una per il refettorio del convento di Fiesole, oggi al Louvre, e l’altra per quello di San Marco, perduta.

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Sulla linea di Beato Angelo, ma con una più rigida impostazione frontale e simmetrica, è lo scomparto di predella dipinto da Giovanni Francesco da Rimini, oggi nei Musei civici di Pesaro, un tempo parte della collezione Hercolani-Rossini.

Giovanni Francesco da Rimini, pannello di predella, Musei civici di Pesaro

Il numero dei frati, sei più san Domenico, richiama il pannello scolpito dell’Arca; la mensa è priva di cibo, gli angeli portano i pani su canestri; il primo frate a sinistra, con il cappuccio alzato, potrebbe raffigurare il committente o il priore. Si ritiene che possa provenire da un polittico con la Vergine e il Bambino, oggi nel Museo della Basilica di San Domenico a Bologna, dipinto e firmato dallo stesso Giovanni Francesco nel 1459. Secondo Valerio Mosso, il confronto stilistico dei due angeli con il Compianto bolognese di Niccolò dell’Arca collocherebbe il dipinto verso il 1463-64 (Mosso 2014).

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Di anonimo artista del ‘400, forse di ambito fiorentino, è la predella con tre Storie della vita di San Domenico che negli anni ’70 del Novecento risultava presso la Collezione J.A. Murnaghan di Dublino (Fototeca Fondazione Zeri, n. 14827).

Anonimo del XV secolo, collezione privata

Lo scomparto centrale raffigura il Miracolo dei pani, con soli quattro frati più Domenico, e i due angeli decentrati a sinistra che portano un paniere di pani.

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Una versione affrescata del Miracolo dei pani, piuttosto lacunosa, si trova in una cappella della Chiesa di San Domenico a Fano, all’interno di un ciclo che raffigura la Trinità e Storie di San Domenico, attribuito al pittore umbro Ottaviano Nelli con aiuti.

Ottaviano Nelli, Chiesa di San Domenico, Fano (Pesaro e Urbino)

L’episodio è ridotto a due frati (ma possiamo immaginarne altri due) con San Domenico che prega a mani giunte, mentre un angelo porta un vassoio di pani. Viene datato al 1434. Il ciclo include la Nascita di Domenico, Domenico riceve l’abito dalla Vergine, la Vergine placa l’ira di Cristo contro gli uomini presentandogli Domenico, Domenico sostiene la Chiesa in rovina, l’Approvazione della Regola, le Esequie di Domenico e, infine, il Miracolo dei pani.

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Ancora più rovinato è un affresco nell’ex convento di San Domenico a San Miniato di Pisa, riferibile ad un artista toscano del XV secolo ancora legato a stilemi trecenteschi.

Ambito toscano, ex convento di San Domenico, San Miniato di Pisa

Domenico, che non è al centro ma a capotavola (in testa a una delle tavole, secondo il testo di Costantino/Umberto), stende il braccio (come a Bevagna) per prendere i pani da un angelo. Di difficile identificazione la figura in piedi sul margine destro, forse un religioso che mostra un piatto o un canestro vuoto.

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In Lombardia, attiguo alla chiesa di San Filastrio a Tavernole sul Mella (Brescia), l’oratorio di San Domenico, forse sede di una confraternita di laici domenicani e poi utilizzato come sagrestia, presenta una ricca decorazione ad affresco, su registri sovrapposti, che illustra quindici Storie della vita di San Domenico.

Oratorio di San Domenico, Chiesa di San Filastrio a Tavernole sul Mella (Brescia)

Tra di esse troviamo un Miracolo dei pani molto semplificato, anche nello stile, con quattro frati che affiancano Domenico, mentre due angeli vestiti di verde con ali rosse portano i pani su drappi di stoffa; i bicchieri e le bottiglie, curiosamente, appaiono piene di vino. Il ciclo, datato alla metà del ‘400, è solitamente attribuito al cremonese Andrea Bembo, che con il padre Giovanni e i fratelli, tutti pittori, fu molto attivo a Brescia.

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Un grande affresco di metà Quattrocento, nell’ex monastero domenicano femminile di San Niccolò a Prato, oggi Conservatorio sede di istituzioni scolastiche, mostra un particolare legame iconografico con il Miracolo di Sogliani a San Marco.

Bartolomeo  Bocchi, Refettorio “delle educande”, Conservatorio di San Niccolò, Prato

Nel refettorio “delle educande”, detto anche “a grasso” perché utilizzato dalle monache malate, esentate da digiuni e astinenze, una parete è interamente affrescata su due registri. In quello inferiore è raffigurato il Miracolo dei pani: San Domenico al centro e dodici frati, sei alla sua destra e sei alla sua sinistra, siedono ad un lungo tavolo rettangolare, dotato di sedile e alta spalliera di legno; le figure, rigide nei volti, differiscono nelle pose e nei movimenti delle mani; la mensa, priva di cibo, è imbandita con coltelli, boccali, bottiglie, bicchieri e saliere; al centro, due angeli vestiti di rosso e violetto portano i pani su drappi e li offrono a San Domenico. La netta simmetria è in linea con il precedente trecentesco di Bevagna e, solo in parte, con i pannelli di Beato Angelico; i frati seduti a mensa con San Domenico sono dodici, come nella tavola trecentesca della Mascarella (e come sarà in Sogliani), ad evidenziare l’analogia con l’Ultima Cena e la valenza eucaristica.

In primo piano sono raffigurati: al centro, inginocchiati, un fanciullo e una monaca domenicana, forse la committente, per tradizione identificata, poco verosimilmente, con Margherita Bandini vedova di Francesco di Marco Datini.

A sinistra e a destra, due frati conversi che accorrono mostrando ciascuno un cesto vuoto, quello a sinistra capovolto (come in Beato Angelico a Cortona e Stoccarda), ad indicare la mancanza di cibo, quello a destra rivolto verso l’alto (come nell’Angelico al Louvre), quasi ad implorare un intervento dal Cielo.

Il registro superiore, scandito da sei riquadri, presenta al centro una Crocifissione con la Vergine, San Giovanni Evangelista e Maria Maddalena; la affiancano angeli e santi: San Vincenzo Ferrer, San Michele Arcangelo con una donna orante, Santa Caterina di Alessandria con una monaca, Tobiolo con l’Arcangelo Raffaele, Santa Margherita di Antiochia.

Per quanto attiene l’autore, se un tempo si facevano i nomi di Pietro di Miniato (G. Guasti) o Paolo Schiavo (R. van Marle), oggi l’attribuzione generalmente accettata è quella proposta da Enrica Neri Lusanna (Neri Lusanna 1992): il pittore pistoiese Bartolomeo di Andrea Bocchi, che lavorò a Prato per il convento delle Sacca e a Figline, e che potrebbe avere eseguito l’affresco attorno alla metà del ‘400.

Di un certo interesse è il contributo di Anna Moore Valeri, che, sulla tavola imbandita del Miracolo pratese, identifica sei boccali di maiolica italo-moresca policroma, uno dei quali presenta uno stemma di tipo mediceo, rosso con palle forse gialle. La tipologia delle ceramiche e lo stemma suggerirebbero una datazione dell’affresco “al terzo quarto del XV secolo” (Moore Valeri 1989, p. 166).

Indubbiamente, l’ubicazione in un refettorio, la scena divisa in due registri sovrapposti e, soprattutto, la corrispondenza fra Crocifissione con santi in alto e il Miracolo dei pani in basso ne fanno un modello per l’affresco di Sogliani a San Marco. Alcuni piccoli dettagli, comuni ad entrambi gli affreschi, rivelerebbero una conoscenza de visu da parte di Sogliani: il coltello che, a Prato, pende dalla cintura del converso di sinistra è analogo, in Sogliani, al coltello del primo frate seduto a destra, anch’egli un converso; il rosario che, a Prato, pende dalla cintura del converso di destra è simile, in Sogliani, ai rosari che si intravedono nei primi due frati a sinistra, il novizio in piedi e il converso seduto.

5.4 Cinquecento

Un esempio rilevante, pressoché coevo all’affresco di Sogliani, è il Miracolo dei pani raffigurato in una tarsia lignea realizzata da fra Damiano Zambelli da Bergamo (1480 c.-1549), converso domenicano, tra i massimi intagliatori del Cinquecento. Per la chiesa del convento di San Domenico a Bologna fra Damiano realizzò il dossale del presbiterio, la spalliera della cappella dell’Arca di San Domenico e, infine, il grandioso coro. Questa tarsia, assieme ad altre quindici (due sono perdute), proviene dalla spalliera, realizzata attorno al 1530-35 e smontata alla fine del secolo quando la cappella dell’Arca fu ricostruita; nel 1662-63 le sedici tarsie furono riutilizzate come decorazione degli sportelli di due armadi della sagrestia, dove si trovano ancora oggi. Le tarsie, otto per armadio, raffigurano in alto episodi dell’Antico testamento, in basso Storie della vita di San Domenico: (armadio di sinistra) Domenico predica il Vangelo, Battesimo di Domenico, Il miracolo dei pani, Disputa contro gli albigesi; (armadio di destra) Liberazione delle donne albigesi possedute dal diavolo, Recupero del breviario caduto in acqua, Il bambino risuscitato, Testamento e morte di Domenico. Nella disposizione originaria nella spalliera, ad ogni storia biblica corrispondeva, per analogia, un episodio preciso della vita di San Domenico.

Fra Damiano da Bergamo, Basilica di San Domenico, Bologna

Nell’armadio di sinistra, il Miracolo dei pani, che nella spalliera corrispondeva al Banchetto di Assuero, si distingue per l’arditezza architettonica e prospettica della scena, che include, divisi da un pilastro, un vasto refettorio a sinistra e, a destra, un loggiato laterale affollato di personaggi; attorno al tavolo, a ferro di cavallo, siede Domenico, al centro, assieme a dieci confratelli, mentre un altro frate legge dal pulpito, come nella predella fiesolana di Beato Angelico; un novizio e un converso portano piatti e un cesto vuoti (in Sogliani, un novizio e un converso portano il vino); due angeli, uno di fianco e uno di spalle, offrono a Domenico i pani su vassoi. Sulla base del pilastro si legge: PANIS OBLATUS COELITUS FRATRUM SUPPLET INOPIAM (il pane portato dal Cielo soccorre il bisogno dei frati).

Se fra Damiano fu l’esecutore degli intarsi, con alcuni aiuti, e fra Leandro Alberti, erudito umanista, fu verosimilmente l’ideatore del programma iconografico, resta difficile stabilire quali artisti fornirono i cartoni per le tarsie; si sono fatti i nomi, ad esempio, di Serlio, Vignola e Baldassare Peruzzi.

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Degli stessi anni del Miracolo di Sogliani a San Marco (1536), e ad esso in qualche modo legati per alcune interessanti analogie, sono gli affreschi con la Crocifissione e il Miracolo dei pani, molto lacunosi, dipinti per il refettorio dell’ex convento domenicano di San Giacomo a Forlì, meglio noto come San Domenico; un convento che, come altre sedi della congregazione di Lombardia, nella seconda metà del ‘400 aderì all’Osservanza domenicana.

La grande sala rettangolare del refettorio di Forlì fu affrescata su entrambe le pareti brevi. La parete nord è divisa in tre scene: al centro, una Crocifissione con la Maddalena ai piedi della croce, tra la Vergine, San Giovanni Evangelista e un frate domenicano; a sinistra, i Santi Pietro e Paolo appaiono a San Domenico; a destra, San Domenico resuscita Napoleone Orsini caduto da cavallo. La parete sud, più deteriorata dell’altra, presenta il Miracolo dei pani.

Refettorio dell’ex convento di San Domenico, parete nord, Museo di San Domenico, Forlì

Come in Sogliani, e prima ancora nell’affresco di San Niccolò a Prato, si evidenzia una corrispondenza fra il Miracolo dei pani e la Crocifissione, anche se in questo caso dipinta sulla parete opposta; una situazione simile a quella del refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie a Milano, dove, sulle pareti brevi, sono la Crocifissione di Donato Montorfano (1495) e l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci (1494-98).

Alcuni dettagli della parete nord sembrano richiamare l’affresco di Sogliani: le colonne in marmo screziato su plinti addossate a pilastri, dipinte ad inquadrare la Crocifissione; San Domenico in ginocchio nelle due scene laterali, analogo ai santi Antonino e Caterina inginocchiati nell’affresco di San Marco; i drappi delle vesti e le mani giunte, pur in pose diverse, di San Giovanni Evangelista; i toni di rosa del cielo sullo sfondo; la presenza di Caterina da Siena, qui dipinta su uno dei plinti.

Per quanto riguarda l’autore, l’attribuzione tradizionale al forlivese Girolamo Ugolini, con datazione al 1520, è stata messa in dubbio in favore di un artista di area fiorentina o toscana, dai colori proto-manieristi e attento alle novità romane di Michelangelo e Raffaello, mentre alcuni dettagli di minore qualità farebbero pensare ad aiuti di bottega (Muscolino 2013).

Nella parete sud, il Miracolo dei pani, seppur ampiamente compromesso, mostra la tipica impostazione simmetrica, con un lungo tavolo rettangolare dotato di spalliera e i due angeli al centro che portano i pani con ceste (purtroppo, la figura di Domenico è andata perduta). Come in Sogliani, e prima ancora in Beato Angelico, sul margine sinistro della scena c’è un frate in piedi, molto somigliante a quello di San Marco (una citazione?): senza cappa, un novizio o forse un converso, che sta portando un paniere vuoto capovolto, un dettaglio che, come abbiamo visto, è presente in due pannelli dell’Angelico e nell’affresco di Prato.

Refettorio dell’ex convento di San Domenico, parete sud, Museo di San Domenico, Forlì
Refettorio dell’ex convento di San Domenico di Forlì, parete sud
Refettorio dell’ex convento di San Domenico di Forlì, parete sud
Refettorio dell’ex convento di San Domenico di Forlì, parete sud

Analogamente alla Crocifissione della parete nord, anche per il Miracolo dei pani, un tempo riferito a Girolamo Ugolini, si ipotizza l’intervento di un “artista attivo nel convento qualche decennio dopo rispetto al ciclo affrescato sull’opposta parete, ma ugualmente proiettato verso la cultura artistica toscana” (Muscolino 2013, p. 186). A mio parere, la presenza, nelle lunette in alto, di tre “finestre” con paesaggi sullo sfondo, sembra richiamare analoghi elementi dei cenacoli fiorentini affrescati da Franciabigio (Convento della Calza, 1514) e Andrea del Sarto (Cenacolo di San Salvi, 1511-27). Anche alcuni gesti, movimenti e pose dei frati dipinti a Forlì, nei frammenti ancora leggibili, mi ricordano l’Ultima Cena di San Salvi.

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Di ambito forlivese del XVI secolo è anche un Miracolo dei pani su tavola, in collezione privata, un tempo ritenuto opera di Livio Agresti (1508-1580), poi attribuito a Francesco Menzocchi (1502-1574) e infine a suo figlio Pier Paolo Menzocchi (1532c.-1589).

Pier Paolo Menzocchi (XVI sec.), collezione privata

Il dipinto si discosta dalla tradizione iconografica, frontale e simmetrica, grazie ad una più moderna impostazione prospettica e architettonica. Sullo sfondo, su una gradinata oltre un arcone, è eccezionalmente raffigurato l’antefatto della storia, secondo il racconto di Cecilia/Teodorico, con due frati che informano San Domenico di non avere trovato niente da mangiare; segue, in primo piano, l’episodio del Miracolo, con soli quattro frati che, a coppie, affiancano Domenico e i due angeli che entrano in scena da destra portando ceste di pani.

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Un altro esempio su tavola, di ambito romano, datato in via ipotetica alla metà del XVI nel Catalogo generale dei Beni Culturali, è quello che si trova a Roma, Monte Mario, nel refettorio del Monastero domenicano femminile dei SS. Domenico e Sisto in Santa Maria del Rosario.

Tavola di Monte Mario, Monastero dei SS. Domenico e Sisto, Roma

Le dimensioni e l’impostazione, frontale e simmetrica, sembrano ispirarsi alla tavola trecentesca della Mascarella. San Domenico, al centro, affiancato da dieci frati, cinque a destra e cinque a sinistra, riceve il pane da due angeli vestiti di rosso, con gli sguardi rivolti verso lo spettatore, che portano i pani su drappi legati al collo; tra i due angeli si stende un cartiglio con l’iscrizione: S. DOMENICO VOLENDO MANGIARE CON QVARANTA FRATI NON HAVENDO PANE FECE ORATIONE E CONPARSERO DOI ANGELI ET SOPRA QVESTA TAVOLA LI SOCCORSERO ABONDANTEMENTE.

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Un’iscrizione analoga alla precedente si trova in una tavoletta rettangolare menzionata nel Catalogo della Fototeca Zeri come opera di ambito fiorentino della prima metà del XVI secolo (scheda n. 42223) e che, nella prima metà del Novecento, faceva parte della collezione parigina di Maurice de Rothschild.

Ambito fiorentino di XVI secolo, collezione privata

Di ispirazione angelichiana, mostra una piccola mensa rettangolare con sei frati e San Domenico al centro, gli angeli simmetrici ma decentrati che portano cesti di pani, a destra un lettore sul pulpito e, sul margine sinistro, un frate converso che mostra ad un confratello senza cappa, un converso o un novizio, una cesta vuota capovolta, come in Beato Angelico e nei refettori di Prato e Forlì. In basso si legge: QUESTO E’ UN PEZZO DELLA TAVOLA DOVE RITROVANDOSI IL PADRE SAN DOMENICO CON QUARANTA FRATI SONZA PANE PER CIBARLI FATTA ORATIONE DOI ANGELI NE PORTORONO ABONDANTEMENTE.

L’iscrizione, simile a quella della tavola romana di Monte Mario, evidenzia il carattere devozionale di opera-reliquia: come nel caso della Tavola della Mascarella, il supporto ligneo sarebbe un frammento della antica tavola del miracolo.

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 Un altro esempio, datato alla seconda metà del XVI secolo, si trova ad Arcevia (Ancona) nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, edificata dai domenicani alla fine del ‘400 con annesso convento.

Chiesa di Santa Maria delle Grazie, Arcevia (Ancona)

Nella cappella di San Domenico, affrescata per volere di don Alessandro Cristiani quando la chiesa passò al clero secolare, le Storie della vita di San Domenico, molto lacunose, mostrano un riquadro con il Miracolo dei pani in versione ridotta, con Domenico, i due angeli e probabilmente quattro frati.

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 Alla fine del ‘500, a Firenze, un’opera importante per qualità e ubicazione si ispira chiaramente a quella di Sogliani: la lunetta con il Miracolo dei pani e del vino affrescata nel 1582-83 da Santi di Tito (1536-1603) nel Chiostro Grande del convento domenicano di Santa Maria Novella. Fa parte di un ampio ciclo di Storie di Cristo e di santi domenicani, tra cui molti episodi della vita di San Domenico, cinque dei quali eseguiti da Santi di Tito: (lato ovest del chiostro) Domenico salva quaranta pellegrini dal naufragio, Incontro tra San Domenico e San Francesco, Visione dei santi Pietro e Paolo; (lato nord) Miracolo dei pani e del vino, Morte di San Domenico (a cui assiste anche Savonarola).

La commissione si deve a frate Alessandro Capocchi, allora priore del convento, che, forse, incaricò Santi di Tito di coordinare l’intero ciclo, a cui parteciparono diversi artisti dell’epoca fra i quali Bernardino Poccetti, Ludovico Buti, Ludovico Cigoli, Lorenzo Sciorina, Giovanni Maria Butteri, Alessandro Fei.

Santi di Tito, Chiostro grande del Convento di Santa Maria Novella, Firenze

Il Miracolo dei pani e del vino fu finanziato dai parenti di fra Antonino Berti, fiorentino, che aveva preso l’abito a San Marco. I Berti e Santi di Tito si conoscevano bene, anche perchè frequentavano la Compagnia di San Tommaso d’Aquino, con sede a San Marco, di cui Santi era confratello e dove si avvicinò alla spiritualità savonaroliana.

L’artista segue l’impostazione frontale e simmetrica della tradizione iconografica, ma senza rinunciare alla misura, naturalezza e sobria eleganza tipiche della sua arte. Alcuni dettagli sono ripresi da Sogliani: il tavolo a ferro di cavallo, i bicchieri capovolti, San Domenico orante con le braccia alzate, l’attenzione naturalistica per le espressioni e i volti (molti, come osservò il Baldinucci, sono ritratti dal vivo dei frati di allora). I due magnifici angeli, che richiamano Sogliani nei drappeggi, sono privi di ali secondo le fonti duecentesche (due giovani bellissimi): un’eccezione iconografica che, in precedenza, abbiamo trovato solo nell’Arca di Nicola Pisano e in una miniatura umbra. La distribuzione dei pani, secondo il testo di Cecilia/Teodorico, è iniziata dalle estremità del tavolo, dove siedono i più giovani di professione (ab inferioribus) e si concluderà al centro, dove l’ultimo ad essere servito sarà San Domenico.

In alto a sinistra, un frate legge dal pulpito, secondo il racconto di Cecilia/Teodorico, come nel pannello fiesolano dell’Angelico e nella tarsia lignea di fra Damiano a Bologna.

Da Sogliani, inoltre, è ripresa l’idea di “aprire” la scena su un paesaggio: Santi di Tito lo fa disegnando sul fondo un’elegante serliana, non dissimile da quella vasariana degli Uffizi, come aveva già fatto nella sontuosa Cena in casa del fariseo (1573) affrescata per la SS. Annunziata di Firenze. Nelle piccole figure che si intravedono nel paesaggio, su una strada di campagna, mi pare di riconoscere l’antefatto della storia secondo i testi di Cecilia/Teodorico, con San Domenico che incontra i due frati di ritorno al convento senza avere trovato niente da mangiare.

Il soggetto affrescato è descritto in un cartiglio, in alto, sopra una testa di cherubino: meritò SAN DOMENICO CHE DAGL’ANGIOLI FUSSE PROVVEDUTO PANE ET VINO CHE A LUI ET A’ SUOI FRATI ERA MANCHATO. Un testo interessante sia perché si parla di angeli, anche se quelli raffigurati non hanno le ali, sia perché si fa un chiaro riferimento al miracolo del vino, peraltro attribuendolo agli stessi angeli. Il prodigio del vino, che Sogliani aveva indicato per la prima volta mostrando due frati che portano a tavola due brocche ed un vaso, qui è esplicitamente illustrato: sul margine destro, parzialmente nascosto dalla cornice, un frate in piedi regge un orciolo (o una mezzina) con cui sta versando il vino in una brocca. Sottolineo che le uniche attestazioni iconografiche del miracolo del vino, secondo le narrazioni duecentesche della monaca Cecilia e di Teodorico di Apolda, si trovano nei due principali conventi domenicani fiorentini, San Marco (Sogliani) e Santa Maria Novella (Santi di Tito).

La fama dell’opera è testimoniata da Padre Giuseppe Richa: “Santi di Tito dipinse gli Angioli, che portano alla mensa il Pane, opera per il disegno ammirata, e da’ principianti sovente copiata” (Richa 1755, tomo III, p. 91).

5.5 Seicento e oltre

Dei primi del secolo (1610 c.) è il grande olio su tela comunemente noto come Cena di San Domenico, dipinto da Leandro dal Ponte, detto Bassano (1557-1622), quartogenito del celebre Jacopo. Fu commissionato da un frate (fra Costanzo) del convento domenicano dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia (San Zanìpolo) e collocato nella basilica conventuale, sulla parete davanti all’altare, affiancato dalle figure dei santi Giovanni e Paolo. A metà ‘700, a seguito dell’apertura di due finestroni, mentre i santi laterali rimasero in chiesa, l’imponente scena centrale (di oltre sei metri per due) fu trasportata nel refettorio del convento, dove rimase fino alla soppressione napoleonica del 1810. Acquistata da Teodoro Correr nel 1815, la tela è oggi conservata nel Museo Correr di Venezia.

Leandro Bassano, Museo Correr, in origine Basilica e convento dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia

San Domenico è al centro, in preghiera con le mani giunte (versione di Cecilia/Teodorico), affiancato a tavola da tredici frati, i cui volti sono verosimilmente dei ritratti. Sulla mensa imbandita i bicchieri sono capovolti, come in Sogliani e in Santi di Tito, e compaiono anche saliere, come in Sogliani, assieme ad alcuni frutti. A destra i due angeli, uno biondo vestito di rosso e uno moro vestito di blu, distribuiscono i pani prendendoli da una grande cesta appoggiata a terra. A sinistra l’antefatto dell’episodio, secondo il racconto di Cecilia/Teodorico: due frati questuanti con indosso la cappa fanno ritorno al convento senza avere trovato niente da mangiare; l’unico pane, infatti, è donato da uno di loro ad un povero mendicante, raffigurato seduto sul margine sinistro della scena. Sullo sfondo, oltre un loggiato, una veduta di Roma: l’episodio di svolge nel convento di San Sisto.

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Nel convento di San Domenico di Taggia (Imperia), retto dai domenicani dalla sua istituzione nel 1456 fino al 2008, il chiostro quattrocentesco presenta lunette affrescate con Storie di San Domenico, eseguite nel 1613 da artisti locali (Alfonso di Pietro e Gio Batta Merulo).

Convento di San Domenico di Taggia (Imperia)

Nel Miracolo dei pani, San Domenico è al centro della tavola affiancato da quattro frati, mentre i due angeli, che non sono disposti simmetricamente, distribuiscono il pane portato con ceste. Sul bordo inferiore della lunetta si legge: In premio di eroica elemosina e per preghiera del Santo Padre Domenico due angeli sovvengono di cibo i poveri frati. Ex co(mmun)i(bus) elee(mosyn)is 1613.

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Nella basilica di San Domenico a Bologna, la cappella absidale è decorata con una grande ancona lignea di primo ‘600 che incornicia tre tele dipinte dal pittore bolognese Bartolomeo Cesi alla fine del’500: al centro l’Adorazione dei magi, ai lati i santi Nicola e Domenico. Attorno al 1625, probabilmente, fu aggiunta la predella su tela, raffigurante il Miracolo dei pani, opera di Vincenzo Spisanelli (1595-1662), artista piemontese molto attivo in Emilia.

Vincenzo Spisanelli, Basilica di San Domenico, Bologna

L’eccezionalità di questa versione è spiegata da fr. Gianni Festa: “A partire dal tardo XV secolo, soltanto le fonti bolognesi collocano il Miracolo dei pani di san Domenico nella Chiesa della Mascarella, forti della credenza secondo la quale la Tavola sia la mensa del miracolo. Per superare la contraddizione con le agiografie, alcune fonti locali distinguono tra due miracoli avvenuti a Bologna: alla Mascarella gli angeli avrebbero portato del pane, mentre in San Domenico del pane e dei fichi. (…) L’opera (di Spisanelli) raffigura il Miracolo dei pani secondo un vero e proprio unicum iconografico. Infatti, il pittore ha rappresentato in primo piano due angeli che portano del pane ai frati riuniti a tavola, e sullo sfondo un altro angelo recante un vassoio di fichi. Questo dettaglio, apparentemente insignificante, è rivelatore del fatto che i Frati di San Domenico vollero avere sull’altar maggiore un’opera raffigurante il miracolo che, secondo la tradizione locale, ebbe luogo proprio nel loro Convento” (Festa-Toli 2024, p.68).

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Verosimilmente di scuola fiorentina è una grande tela con il Miracolo dei pani, databile alla seconda metà del ‘600, di grande interesse iconografico perché deriva chiaramente dall’affresco di Sogliani in San Marco. Proviene dal Monastero di San Domenico del Maglio, in origine detto di Cafaggio, il più antico cenobio domenicano femminile in Firenze (assieme a quello di San Jacopo a Ripoli), fondato nel 1297 nei pressi dell’odierna piazza San Marco e definitivamente soppresso nel 1866 per ospitare i locali della Scuola di sanità militare. Il dipinto è oggi conservato nella sala espositiva del nuovo Monastero domenicano femminile di Santa Maria della neve e San Domenico a Pratovecchio (Arezzo), dove sono state riunite opere d’arte provenienti da tre monasteri femminili domenicani: il vecchio monastero di Santa Maria della neve di Pratovecchio, il monastero di Santa Maria Novella di Arezzo e il monastero fiorentino del Maglio, il cui patrimonio artistico si distingue per quantità e qualità degli artisti, fra i quali Ridolfo del Ghirlandaio, Antonio del Ceraiolo, Benedetto Veli, Filippo Tarchiani, Francesco Curradi e bottega di Lorenzo Lippi.

Scuola fiorentina di XVII secolo, Monastero domenicano femminile di Santa Maria della neve e San Domenico a Pratovecchio (Arezzo)

Il Miracolo dei pani del monastero del Maglio, nella foggia di un lunettone quasi inscrivibile in un quadrato (cm 258×246), riprende il Miracolo di Sogliani con alcune varianti: i frati che affiancano San Domenico sono otto e non dodici come a San Marco (i due alle estremità sono un converso a sinistra e un novizio o un terziario a destra); non si fa riferimento al miracolo del vino, se non nel dettaglio dei bicchieri rovesciati, ripreso da Sogliani; nell’Adorazione del Crocifisso del registro superiore, rispetto all’affresco di San Marco, sono omessi i “dolenti” tradizionali (la Vergine e San Giovanni), mentre ritroviamo i santi domenicani dell’Osservanza, Antonino e Caterina da Siena, raffigurati l’uno in piedi e l’altra in ginocchio con le braccia allargate. Sant’Antonino indica il Crocifisso con la mano sinistra, mentre con la destra regge un libro in cui si leggono le parole di Isaia, 55: OMNES SITIENTES VENITE AD AQUAS (O voi tutti che avete sete, venite all’acqua). Questa citazione e il cartiglio in basso con la scritta SILENTIO fanno pensare che la collocazione originaria fosse in un refettorio. Secondo il Richa, per volere del domenicano Papa Pio V e del Granduca Cosimo I, le monache del Maglio furono poste sotto la direzione spirituale dei frati di San Marco fino al 1693, quando l’incarico fu assunto dall’arcivescovo di Firenze (Richa 1758, tomo VII, pp. 109-110). Proprio un legame particolare con il convento di San Marco potrebbe spiegare la stretta dipendenza dall’affresco di Sogliani.

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La chiesa di Santa Maria del Glorioso a San Severino Marche (Macerata), costruita nella prima metà del ’500, fu retta dai domenicani fino al 1860. Attorno all’altare dedicato a San Domenico si conservano sei dipinti su tela, due rettangolari e quattro ovali, che raffigurano episodi della vita del santo. Attribuiti a Paolo Marini, artista locale nato a San Severino, vengono datati alla seconda metà del XVII secolo.

Paolo Marini, Chiesa di Santa Maria del Glorioso, San Severino Marche (Macerata)

Tra di essi, il Miracolo dei pani risolve la difficoltà dell’orientamento verticale della tela con un’originale impostazione prospettica del tavolo visto dall’alto e con il lato breve in primo piano, con gli angeli che portano panieri di pani. Quattro frati e San Domenico siedono a destra, a sinistra un’altra figura, forse il committente o il refettoriere, il frate responsabile del servizio a tavola.

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Di grandi dimensioni, oltre 5 metri di larghezza e 2,50 di altezza, è l’affresco con il Miracolo dei pani conservato a Cercemaggiore (Campobasso), nel refettorio minore, detto anche “ospizio”, del complesso conventuale di Santa Maria della Libera, retto dai domenicani dalla fondazione nel 1489 fino al 2017.

Convento di Santa Maria della Libera, Cercemaggiore (Campobasso)

La scena del Miracolo, rigidamente simmetrica, presenta San Domenico affiancato da dieci frati seduti ad una tavola a ferro di cavallo, imbandita ma priva di cibo. I frati sono in veste bianca tranne i due alle estremità dallo scapolare nero, forse due conversi. Proprio cominciando da loro, secondo il racconto di Cecilia/Teodorico, i due angeli, vestiti uno di verde e l’altro di azzurro, stanno distribuendo il pane portato in ceste di vimini. Di ignoto artista locale, viene datato al primo ‘600.

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Nel convento domenicano di Santa Maria dell’Arco in Sant’Anastasia (Napoli), la parete di fondo del refettorio antico, poi sala capitolare, è affrescata con tre scene e tre lunette, riferite ad ignoto artista napoletano del ‘600, databili forse agli inizi del secolo: al centro, nel riquadro più grande, Cristo adorato dai santi domenicani, fra i quali Antonino e Caterina da Siena; a sinistra la Moltiplicazione dei pani e dei pesci e a destra il Miracolo domenicano dei pani, impostato frontalmente e simmetricamente secondo la tradizione.

Convento di Santa Maria dell’Arco in Sant’Anastasia (Napoli). A destra, Il Miracolo dei pani

Ad un tavolo a ferro di cavallo siedono san Domenico e dodici frati, come alla Mascarella, a Prato e a San Marco; a sinistra, un frate legge dal pulpito, come in Beato Angelico, Fra Damiano e Santi di Tito. I frati vestono di bianco, tranne un converso con scapolare nero (il primo da sinistra); gli angeli, pressoché identici, stanno distribuendo i pani dagli ultimi, i più lontani dal santo, secondo il racconto di Cecilia/Teodorico. Al di sopra delle tre scene, le lunette di soggetto mariano raffigurano al centro una copia della Madonna dell’Arco venerata nel santuario, a sinistra la Vergine della Misericordia protegge i domenicani e, a destra, sopra il Miracolo dei pani, la Vergine consegna l’abito domenicano al Beato Reginaldo.

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Fra gli esempi di XVII secolo segnalo anche il foglio stampato da Andrea Vaccari a Roma nel 1604 con San Domenico e storie della sua vita su disegno di Francesco Vanni, noto pittore e incisore senese (1564-1610). La stampa (cm 49 x 37) fa parte di una serie agiografica in cui al santo protagonista, raffigurato al centro in un riquadro più grande, si affiancano tutt’intorno piccole scene con episodi della sua vita accompagnate da una didascalia. Il Rijksmuseum di Amsterdam, ad esempio, ne possiede dieci (i santi Agostino, Alberto degli Abati, Caterina da Siena, Domenico, Francesco di Assisi, Papa Gregorio Magno, Girolamo, Pietro Apostolo, Stefano, Carlo Borromeo), ma è verosimile che ve ne fossero altre. Tutte recano i nomi di Andrea Vaccari (stampatore) e Vanni (inventor), così come la data 1604 e la licenza pontificia.

Andrea Vaccari (stampatore) e Francesco Vanni (disegnatore), Roma, 1604; il Miracolo dei pani è in alto a destra

Nel foglio dedicato a Vita et Miracula S. Dominici, il Miracolo dei pani, molto semplificato con quattro frati e Domenico, reca in basso la scritta: S. Domenico et sociis non habentibus quid manducarent cibus ab Angelis miracolose affertur (Quando San Domenico e i suoi compagni non ebbero di che mangiare, il cibo venne portato miracolosamente dagli Angeli).

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L’ultimo esempio di XVII secolo si trova nella chiesa di Santa Maria di Castello a Genova, che dal 1441 al 2015 è stata retta dai domenicani assieme all’annesso convento, oggi musealizzato. Negli anni Novanta del ‘600 il pittore cremonese Francesco Sigismondo Boccaccino (1660-1750) realizzò per la controfacciata della chiesa tre tele con soggetti domenicani: sopra le porte laterali, di dimensioni più piccole, Il crocifisso parla a San Pietro da Verona e San Pietro da Verona riattacca il piede ad un giovane; al centro, sopra la porta centrale, un grande Miracolo dei pani, poi trasferito nel transetto sinistro, dove si conserva ancora oggi. Le tre opere vennero commissionate da Padre Alberto Solimano, genovese, allora inquisitore generale del tribunale di Cremona, che le inviò a Santa Maria di Castello nel 1693.

Francesco Boccaccino, Chiesa di Santa Maria di Castello, Genova

Lo stile è aggiornato (movimento, contrasto fra luci ed ombre, turbinio angelico e luce divina in alto), ma la composizione rimane sostanzialmente fedele alla tradizione iconografica in termini di prospettiva centrale e simmetria. I frati sono in numero di dodici, più San Domenico, come alla Mascarella, a Prato e in Sogliani, a sottolineare la valenza apostolica ed eucaristica.

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Alla metà dell’Ottocento, il francese Padre Giacinto Besson, frate domenicano e pittore allievo di  François Souchon e Paul Delaroche, esegue pitture murali a olio con Storie di San Domenico nella sala capitolare del convento di San Sisto Vecchio a Roma (1852-1859). In sintonia con la corrente purista, lo stile e la composizione si ispirano ai “primitivi” e in particolare ai dipinti di Beato Angelico. In una lunetta, la scena con il Miracolo dei pani, incompiuta, reca la scritta: ANGELI PANE COELITVS OBLATO FRATERNAE INOPIAE SVCCVRRVNT (Gli angeli con il pane offerto dal Cielo soccorrono la fraterna indigenza).

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Alla fine di questa rassegna, propongo un esempio estero più vicino ai nostri tempi, a testimonianza della fortuna del soggetto.

St. Dominic Church, Washington DC, Stati Uniti d’America

Nella chiesa di San Domenico a Washington D.C., Stati Uniti, retta dai frati domenicani, una delle vetrate istoriate con Storie di San Domenico e altri santi, realizzate nel 1965 dallo Studio Hiemer in sostituzione di quelle andate distrutte nell’incendio del 1885, raffigura il Miracolo dei pani: quattro frati con Domenico orante seduto di fronte a loro, piatti vuoti e bicchieri rovesciati (come in Sogliani), in alto due giovani vestiti allo stesso modo e senza ali angeliche, come nell’Arca di San Domenico e in Santi di Tito, portano i pani su teli di stoffa bianca.

6. Conclusioni

L’analogia fra il Miracolo dei pani di San Domenico e l’Ultima cena di Cristo, secondo lo studioso domenicano fr. Emilio Panella, è un caso di “esemplarità, preparata e sostenuta dalla spiccata spiritualità cristocentrica di Domenico da Caleruega (Imitatio Christi); e preparata dalla forte impronta dell’evangelismo medievale ritagliata sul ripristino e imitazione della vita apostolorum; esemplarità e predicazione evangelica definite sul modello degli apostoli. (…) Perfino i testi giuridici preservano l’istanza simbolica dell’imitazione esemplare. Fin dalle primissime costituzione domenicane, si dispone che «citra numerum duodenarium» non esiste convento. Un convento domenicano formalmente costituito non si dà se i frati non sono almeno dodici. Come gli apostoli.” (Panella O.P., pagina web, v. bibliografia).

Secondo Joanna Cannon, la raffigurazione del Miracolo dei pani “avvicinava la vita quotidiana dei frati ad una rievocazione del passato: il passato dei primi giorni dell’Ordine (a Roma e/o Bologna) quando i frati riuniti attorno al fondatore seguivano l’incoraggiamento di Domenico a vivere di elemosine e ricevevano in compenso aiuti miracolosi; e, ancora più lontano nel tempo, il passato apostolico che i primi frati cercavano di imitare: vivere di carità e spezzare il pane nell’Ultima Cena, quando Cristo sedeva tra gli apostoli.” (Cannon 1998, p.38).

Contemplare il Miracolo dei pani, in chiesa o in refettorio, significava quindi, prima di tutto, alimentare l’anelito a rivivere il duplice passato delle origini, quello dei primordi dell’Ordine e quello della prima comunità cristiana. La potente analogia Domenico/Cristo e frati/Apostoli riuniti a mensa, densa di significati eucaristici, avrebbe mantenuto la sua efficacia comunicativa in ogni epoca. Perché mai, mi chiedo, i frati di San Marco avrebbero dovuto allontanarsi da questa tradizione? Qui sta, a mio parere, e non in una “contesa basata su questioni di gusto” (Muzzi 1992, p. 51), la motivazione principale che nel 1536 li spinse a preferire questo soggetto domenicano alla Moltiplicazione dei pani proposta da Sogliani.

Attraverso una disamina delle narrazioni agiografiche e di un gruppo consistente di opere d’arte, ho cercato di mostrare la solidità e l’importanza di questa tradizione. La scelta dei frati di San Marco comportò innanzitutto la ripresa e la reinterpretazione delle antiche fonti scritte dell’Ordine, anche quelle meno istituzionali, come il testo della monaca Cecilia dal particolare “sapore” eucaristico, in cui al miracolo dei pani segue quello del vino. Fu una scelta che, al contempo, impose ai frati committenti, e soprattutto all’artista, il confronto con una precisa tradizione iconografica domenicana, che ebbe origine con la Tavola della Mascarella e con l’Arca di San Domenico, a cui fu deciso di aderire fedelmente, anche in termini compositivi di frontalità e simmetria, ma non senza innovazioni. Per la prima volta, infatti, accanto al miracolo dei pani era mostrato anche quello del vino, come poi farà Santi di Tito a Santa Maria Novella; la Crocifissione in alto, che richiama l’affresco quattrocentesco del refettorio di San Niccolò a Prato, evidenziava ulteriormente il carattere sacrificale-eucaristico del soggetto, dove il pane portato dagli angeli e il vino comparso nella botte assimilavano la mensa domenicana ad un “memoriale” dell’Ultima Cena. Allo stesso tempo, il Miracolo domenicano dei pani e del vino, rievocando le radici storiche e spirituali dell’Ordine, ne riaffermava visivamente l’identità e la missione originaria: apostolica, sacerdotale, mendicante e comunitaria.

Al di là del giudizio critico sull’opera, inevitabilmente soggettivo e mutevole, a Giovanni Antonio Sogliani e ai suoi committenti di San Marco deve essere riconosciuto l’indubbio merito di avere bene interpretato, con profondità religiosa e sincerità artistica, questa bella e importante tradizione domenicana. Ed è significativo, mi pare, che ciò sia avvenuto in un convento dell’Osservanza, la cui cifra più originale, ispirata a Caterina da Siena, Giovanni Dominici, Antonino Pierozzi e Savonarola, non è mai stata un’antimodernità ideologica, come qualcuno potrebbe pensare, bensì una rigorosa tensione spirituale, un desiderio ardente di poter rivivere nell’oggi l’autenticità evangelica delle origini dell’Ordine e della prima Chiesa.

Alessandro Santini

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Le citazioni dal latino, anche quando disponibili in versione italiana, sono state nuovamente tradotte dal testo originale. Anche le traduzioni dall’inglese sono a cura dello scrivente.

 

7. BIBLIOGRAFIA

 Fonti agiografiche

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Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di Giovanni Paolo Maggioni, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007: vol. 1, pp. 804-829 (San Domenico); vol. II, pp.1608-1611 (commento e note al testo).

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Marchese 1845: Vincenzo Marchese, Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani, Volume secondo, Presso Alcide Parenti, Firenze 1845, pp. 156-157.

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Rassegna iconografica

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Richa 1755: Giuseppe Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, tomo III, 1755, p. 9 (su Santi di Tito a Santa Maria Novella).

Richa 1758: Giuseppe Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, tomo VII, 1758, pp. 109-110 (sul monastero del Maglio).

Romano 1994: Serena Romano, Domenico di Guzmàn, Santo, in Enciclopedia dell’Arte medievale, vol. V, Treccani, Roma 1994, pp. 701-705.

Spinelli 2017: Riccardo Spinelli, Il chiostro Grande e i suoi dipinti murali, in Santa Maria Novella. La basilica e il convento. Dalla ristrutturazione vasariana e granducale a oggi, volume III, a cura di Riccardo Spinelli, Mandragora, Firenze 2017, pp. 141-167.

Todini 1989: Filippo Todini, La pittura umbra dal Duecento al primo Cinquecento, Tomo I, Longanesi, Milano 1989, p. 179.

Viroli 1993: Giordano Viroli, Cena di San Domenico o Miracolo dei pani, in Pittura del Cinquecento a Forlì, Vol. 2, Nuova Alfa, Bologna 1993, p. 133.

La maggior parte delle immagini proviene da risorse pubbliche sul web. Alcune notizie e immagini provengono dalle schede delle opere consultate su:

Catalogo generale dei Beni Culturali

Fototeca Fondazione Federico Zeri – Università di Bologna

BeWeb – Portale dei beni culturali ecclesiastici

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8. Ringraziamenti

a mia moglie Stefania, cura e sostegno di vita; 

a Cristina Tenti, ineguagliabile maestra di magazzino, e a tutte le colleghe della Biblioteca Marucelliana, dove ho ritrovato libertà di spirito e desiderio di scrivere;

a Carmelo Argentieri, infaticabile editor e autore appassionato, senza il quale questo Blog non esisterebbe;

per la disponibilità e i suggerimenti: a Lucia Bencistà, storica dell’arte; a Mariella Carlotti, preside del Conservatorio di San Niccolò a Prato; a Domenico Granata, bibliotecario e archivista del Santuario della Madonna dell’Arco a Sant’Anastasia (Napoli); a Sonia Melideo, funzionario storico dell’arte presso la Soprintendenza di Ancona Pesaro e Urbino; allo staff della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, della Biblioteca Classense di Ravenna e della Biblioteca Domenicana di Santa Maria Novella a Firenze.

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SOMMARIO

Il “miracolo domenicano dei pani e del vino”. Fonti, significati e iconografia dell’affresco di Sogliani a San Marco

1.Giudizio della critica e fedeltà alla tradizione

2. Il Miracolo di Sogliani: appunti di lettura

3. Il miracolo nelle antiche fonti domenicane

3.1 Il miracolo del vino

3.2 La distribuzione dei pani

3.3 I due giovani angeli

3.4 Provvidenza ed Eucaristia

4. Due esempi eucaristici in San Marco

5. Le immagini del miracolo: rassegna iconografica

5.1 La Tavola della Mascarella

5.2 Duecento e Trecento

5.3 Quattrocento

5.4 Cinquecento

5.5 Seicento e oltre

6. Conclusioni

7. Bibliografia

8. Ringraziamenti

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