Angelico e Kafka, due maestri (dis)simili a confronto

Il 2025 è indubbiamente l’anno di Beato Angelico. L’attesissima mostra Beato Angelico, che si svolgerà a Firenze, tra Palazzo Strozzi e il Museo di San Marco, dal 26 settembre 2025 al 25 gennaio 2026, a cura di Carl Brandon Strehlke, in collaborazione con Angelo Tartuferi e Stefano Casciu, si preannuncia ricca di succose scoperte e inedite letture critiche.

Il 2024 è stato invece l’anno di Franz Kafka. Un anno in cui la sterminata letteratura secondaria sullo scrittore praghese, si è ampliata, nel centenario dalla sua morte, di ulteriori e variegate pubblicazioni, nell’attesa dei nuovi Meridiani Mondadori a lui dedicati.

Ma cosa c’entra Kafka con Angelico? Cosa mai potranno avere in comune uno scrittore “notturno”, cupo, disperato come Kafka, con la pittura di luce, aerea, metafisica di Angelico?

Me lo sono chiesto ossessivamente per mesi, dopo aver letto Kafka di Mauro Covacich (la Nave di Teseo, 2024): un agile libretto in cui l’autore, senza alcuna pretesa filologica, dialoga da scrittore, non da germanista, con Franz Kafka. Niente di insolito, fin qui: la letteratura su Kafka è costellata di esempi simili, da Elias Canetti a Milan Kundera, da Philip Roth a David Foster Wallace, da Franco Fortini a Giorgio Fontana, per dirne solo alcuni. Poi però si giunge a Kafkiani, il capitolo finale del libro, e ci si imbatte nel nome di Beato Angelico all’interno di un elenco molto assortito di artisti, scrittori, filosofi, danzatori e cineasti, citati da Covacich “in ordine di apparizione, guidando sull’autostrada da Praga-Bratislava”. Nell’elenco compaiono intellettuali di comprovata kafkianità, si potrebbe dire, come Dino Buzzati, Albert Camus, Orson Welles, Federico Fellini, Walter Benjamin, Maurice Blanchot, Gilles Deleuze, Felix Guattari, Amelia Rosselli, Bobi Bazlen, Pina Bausch, Ingmar Bergman, Roberto Calasso, Giorgio De Chirico, David Lynch, e molti altri. E dunque cosa ci fa Beato Angelico in questa lista? E in che senso può dirsi “kafkiano”? La questione potrebbe risolversi all’istante, negando ogni possibile corrispondenza tra i due artisti: liquidando come boutade l’accostamento proposto da Covacich; come proiezione indebita, da cui dovremmo difendere Kafka e Angelico, come ogni altro artista che amiamo. Eppure, l’idea che un filo sottile possa legare i due artisti si è ormai insinuata nella mente, come un tarlo, anzi come una talpa kafkiana che scavi un tunnel sotterraneo e profondo per collegare due mondi distanti nel tempo e nello spazio. Il mondo di un pittore domenicano del Quattrocento, con quello di uno scrittore ebreo di inizio Novecento. Le righe che seguiranno sono un gioco. Scopo di questo gioco è saltare da un campo all’altro, dalla pittura alla scrittura, per rintracciare, a partire dell’intuizione di Mauro Covacich, quanto di kafkiano ci sia in Angelico e quanto di angelichiano ci sia in Kafka.

Prima di tutto il corpo

Fra Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro, era chiamato anche, in confidenza, Guidolino. Forse perché minuto. Ce lo immaginiamo piccolino e agile, come chi debba balzare da un cantiere all’altro, da una pala d’altare a un codice miniato. L’effige della sua tomba a Santa Maria Sopra Minerva a Roma non rende giustizia alle sue sembianze; né c’è d’aiuto il ritratto ideale che gli dedicò Carlo Dolci, in cui appare estenuato e vagamente savonaroliano. Ne indoviniamo comunque la corporatura esile.

Di Franz Kafka abbiamo invece diverse foto, anche a figura intera, con la bombetta e il cappotto a stringere un corpo pressoché filiforme. Così Philip Roth lo descrive in una foto del 1924, l’anno della sua morte, appena quarantenne: «Il viso è affilato e scheletrico, la faccia di uno che vive a credito: zigomi pronunciati resi ancora più evidenti dall’assenza di basette; orecchie con la forma e l’inclinazione delle ali di un angelo; un’espressione intensa e creaturale di sbigottita compostezza».

Beato Angelico nel ritratto di Carlo Dolci del 1648, Firenze, Museo di San Marco. Franz Kafka, in un ritratto fotografico degli anni Venti

Non sappiamo se la magrezza per Guidolino, frate dell’ordine mendicante dei predicatori, fedele alla regola di povertà volontaria di San Domenico, fosse un dato costitutivo o l’effetto di una continenza scelta e praticata. Di Kafka sappiamo che la magrezza per lui era un assillo. Nelle lettere a Felice Bauer, la sua prima fidanzata berlinese, si definisce l’uomo più magro del mondo; soprattutto a confronto col padre Hermann, un omone grande e grosso, commerciante dalle aspirazioni piccolo-borghesi. Vegetariano, salutista, quasi ascetico, è come se Kafka si percepisse privo di gravità.

Ma della magrezza dei due ci importa solo in funzione della loro arte. Di continenza nel linguaggio, di dimagrimento della prosa si può parlare a proposito di Kafka, che evita certe parole come certi alimenti. Il protagonista di uno dei suoi racconti più celebri, Un digiunatore, ha fatto della fame auto-indotta e prolungata la sua arte. Nel finale, prima di spirare, l’artista del digiuno sussurra al custode della gabbia del circo in cui si esibisce: «ho voluto sempre che ammiraste il mio digiuno», per poi subito dopo confessare di essere stato costretto a digiunare, per non aver mai trovato un cibo che gli piacesse. Quasi una dichiarazione di poetica. La sfida di questo performer del digiuno non è con gli altri umani, ma con Dio. Sarebbe stato capace di digiunare anche oltre i quaranta giorni previsti dal suo spettacolo (quaranta giorni digiunò Gesù nel deserto). La sovversione che mette in atto è di ordine metafisico.

La continenza è anche una prerogativa della tavolozza dell’Angelico, soprattutto nel ciclo di affreschi del dormitorio di San Marco, destinati alla meditazione dei suoi confratelli: una tavolozza povera, eticamente povera, fatta di pochi pigmenti miscelati con oculato senso dell’economia. Molte terre e tanto bianco di San Giovanni, ottenuto con calce spenta; pochissimo blu, perché l’azzurrite è un minerale costoso, da usare solo negli affreschi comunitari, magari su richiesta della famiglia Medici, finanziatrice dell’intero ciclo. Una frugalità che obbliga a un lavoro di distillazione formale, di sintesi compositiva e concettuale. Si pensi al Cristo deriso della cella 7, luminoso esempio di questa capacità di giungere al cuore del mistero della passione, concentrando il racconto evangelico in un’unica, nitida scena teatrale.

Beato Angelico, Cristo deriso, cella 7, dormitorio dei chierici, Firenze, Museo di San Marco

Lo stile di Kafka è tutto nella sottrazione, nell’inesorabilità della sintassi, nella semplicità perfezionata della riduzione all’osso. La tessitura, la superficie della sua scrittura, prodigiosamente elaborata, è fatta di poche parole che tornano spesso; ma ciò non disturba, anzi avvince: la loro ripetizione agevola la lettura. Lo stesso modo di procedere vale per la pittura di luce di Fra Giovanni da Fiesole, limpida come acqua marina. Ma si tratta di una semplicità solo apparente: la refrattarietà all’enfasi, non vuol dire facilità. La loro è un’arte esigente, radicale, che nasce da una vocazione irresistibile.

Quando un autore diventa aggettivo

Sul dizionario Treccani all’aggettivo “kafkiano” troviamo la seguente definizione: “Che richiama l’atmosfera tipica dei racconti di Kafka, e quindi inquieto, angoscioso, desolante, o paradossale, allucinante, assurdo: situazioni kafkiane”. Non c’è niente di tutto questo nella pittura di Angelico, certo. Ma forse non c’è niente di tutto questo nemmeno nella scrittura di Kafka. Bisogna sgombrare il campo dalle semplificazioni. Se ci affidiamo alle nostre cognizioni predefinite, viziate da interpretazioni banalizzanti, allora Beato Angelico ci sembrerà un artista tardogotico, o “di transizione”, solo perché usa la foglia d’oro, “ornato” e devozionale; e Kafka uno scrittore tragico, il santo protettore dei nevrotici, degli anoressici, dei tisici o, nella migliore delle ipotesi, un profeta della Shoah. Ma Kafka non subordinava la dimensione artistica a idee preconcette o a dati biografici; né le situazioni da lui evocate alludono soltanto alla colpa e all’arbitrio burocratico. L’arte di Beato Angelico, lungi dall’essere consolatoria o edificante, come una certa vulgata vuole rappresentarcela, è un’arte che ci scuote nel profondo, ci esorta alla preghiera, ci interpella nelle coscienze, ci porta altrove facendoci intravedere l’invisibile. Kafka e Angelico sono stati spesso trasformati, rispettivamente, in simboli di alienazione e di devozione, senza che si entrasse nella complessità delle loro opere. La loro arte non ci conforta, non ci ristora, non ci intrattiene; ci sbalza piuttosto lontano dalle nostre convinzioni, dalle nostre comfort zone.

La fortuna di Kafka è postuma e si deve all’impegno inesausto di Max Brod, amico, curatore ed esecutore testamentario della sua opera. Brod, però, è anche il traditore delle ultime volontà di Kafka, che lo aveva pregato di consegnare alle fiamme i suoi diari, le lettere e i romanzi incompiuti. Milan Kundera, uno dei più acuti lettori di Kafka, ne I testamenti traditi parla di “kafkologia”, una sorta di deriva esegetica per cui le interpretazioni su Kafka – a partire da Max Brod – hanno sostituito la lettura diretta delle sue opere. Sulle orme di Brod la kafkologia ha espulso Kafka dal mondo degli scrittori, per ricollocarlo in quello dei santi, dei profeti, dei saggi. La biografia diventa così la chiave principale per comprenderne l’opera. Gli scritti di Kafka sono ridotti a “enigmi”, allegorie da decifrare, piuttosto che essere apprezzati in se stessi.

Anche Beato Angelico è stato oggetto di un’esegesi agiografica, letteralmente beatificante. Esiste una vasta letteratura secondaria anche sul nostro frate pittore. Una sorta di “angelicologia” che per secoli ha assoggettato la dimensione estetica della sua pittura a una visione moralizzante. Domenico da Corella, un confratello domenicano, nel Theotocon, un poema sui santuari della Vergine pubblicato nel 1469, quattordici anni dopo la morte dell’artista, ce lo rappresenta come angelicus pictor: un pittore consumato dalla devozione religiosa, una specie di santo filosofo della pittura, alla stregua di Tommaso d’Aquino, detto anche il doctor angelicus. Un altro domenicano, Alberto Castellano, nella Cronica brevis ab initio ordinis (1504 e 1516), definisce l’Angelico «Vir sanctus et pictor egregius». Ancora una volta l’intenzione agiografica prevale sullo specifico pittorico. Vasari, nella seconda edizione delle Vite, pubblicata nel 1568, in piena Controriforma, è responsabile del cliché dell’artista votato alla preghiera: «Dicono alcuni che fra’ Giovanni non arebbe messo mano ai penelli, se prima non avesse fatto orazione. Non fece mai Crucifisso che non si bagnasse le gote di lagrime». Padre Vincenzo Marchese nelle Memorie dei più insigni pittori, scultori e architetti domenicani del 1845, a proposito del ritratto che Carlo Dolci dedicò all’Angelico, scrive che pur non essendo somigliante al pittore domenicano, ne esprime «a maraviglia l’indole soavissima e grandemente religiosa». 

Quest’immagine dell’Angelico, ridotto a santino, ha per secoli eclissato il suo genio artistico. Beato Angelico è evidentemente un artista colto, impregnato di cultura neoplatonica e tomismo, ma non è certo un Dottore della Chiesa. Resta prima di tutto un pittore che ha seguito la sua vocazione artistica fino all’ultimo. Allo stesso modo, Kafka non è un profeta o un mistico o un santo, ma uno scrittore incomparabile che ha seguito la sua vocazione artistica fino alla consumazione. C’è un solo modo per capire i romanzi di Kafka: leggerli come si legge un qualsiasi romanzo. C’è un solo modo per capire la pittura di Angelico: assaporarla con gli occhi, coglierne il rapporto con la verità, come si fa con qualsiasi opera d’arte.

L’arte preghiera

«Lo scrivere come forma di preghiera», annota Kafka nei Diari. Scrivere non è conciliabile con una vita coniugale o famigliare: lo ribadisce più volte alla fidanzata Felice Bauer nelle lettere, per scoraggiarla da ogni possibile ambizione matrimoniale. Lo scrittore è un uomo «che può vivere soltanto da anacoreta o da parassita. È eremita unicamente per costrizione», scrive nel diario del 1910. «La letteratura è lo stigma del deragliamento, della solitudine. Scrittori non si nasce né si diventa, la letteratura è semplicemente la missione per la quale si è deciso di prendere i voti» (Covacich); «io sono fatto di letteratura, non sono nient’altro e non posso essere nient’altro che letteratura», scrive ancora a Felice Bauer. Se scrivere è una forma di preghiera per Kafka, dipingere lo è per Angelico. Fra Giovanni da Fiesole è autorizzato dai suoi confratelli a dedicarsi alla pittura: è quello il suo talento; è con la tavolozza e i pennelli che può assolvere al suo compito di predicatore. Ecco, l’arte esige una dedizione assoluta, che impone sacrificio, rinunce, celibato. E richiede tempo: un tempo al di fuori del lavoro alle Assicurazioni Generali, all’ufficio infortuni; un tempo al di fuori della liturgia delle Ore e dell’esercizio dell’ufficio sacerdotale. È curioso sapere che l’alloggio che lo scrittore subaffitta dalla sorella più amata, Ottla, in Alchimistengrasse, a Praga, nel 1916, dove scriverà Un Medico di campagna, la raccolta di racconti pubblicata in vita nel 1919, misura circa 12 mq, le dimensioni di una cella domenicana a San Marco.

Casa della sorella Ottla a Praga, dove Kafka abitò tra il 1916 e il 1919, attualmente ridipinta e in Vicolo d’Oro n.22

Un alloggio minuscolo, silenzioso, non troppo distante dal castello, dove visse anni di serena produttività: «Perfetto silenzio: questo le parole dovrebbero produrre. Il mutismo è uno degli attributi della perfezione per Kafka. Le sue parole, è vero, egli ama leggerle ad alta voce, appena le ha scritte. Ma questo non contraddice affatto la loro natura silenziosa» (Fusini).

Quanto silenzio si trova nella pittura di Beato Angelico! Si pensi ancora una volta al ciclo di affreschi a San Marco, dedicato alla contemplazione silenziosa dei suoi confratelli. Si pensi all’affresco dell’Annunciazione della cella 3, nel Corridoio Est: l’incontro tra l’Angelo e Maria, appena adolescente, si svolge all’interno di un porticato bianco, inondato dalla luce, testimonianza della Grazia, in un dialogo silenzioso, intimo, tra i due, alla presenza discreta di San Pietro Martire.

Beato Angelico, Annunciazione cella 3, dormitorio dei chierici, Firenze, Museo di San Marco

Maestri

Il dibattito sui maestri è sempre avvincente perché inesauribile. Per Beato Angelico si cerca ancora il documento, la fonte d’archivio che provi la sua formazione presso quello o quell’altro artista. Si fanno i nomi di Lorenzo Monaco, di Battista di Biagio Sanguigni, Don Simone Camaldolese, Masolino da Panicale. E poi ancora si evocano i numi tutelari di Giotto, Pietro Lorenzetti, Gherardo Starnina, Gentile da Fabriano. Ma forse bisognerebbe superare questo approccio, che implicherebbe un apprendistato solo all’interno di una bottega, e ammettere che uno i maestri se li sceglie, anche tra i contemporanei. Angelico guarda con entusiasmo il lavoro prospettico e naturalistico di Masaccio; si accosta con fervore alle sperimentazioni plastiche di Ghiberti e Donatello; assimila con diligenza il linguaggio dell’architettura classicistica divulgato da Brunelleschi e Michelozzo e canonizzato da Leon Battista Alberti. Prende a prestito forme, immagini, dispositivi, temi e li rielabora, facendoli propri. Ma chi non lo fa? Trovarne uno che intraprenda una grande attività artistica senza un capitale preso a prestito.

Per Kafka il discorso è analogo, solo che è lui stesso a indicare in una lettera a Felice Bauer quelli che definisce i suoi “consanguinei”: Grillparzer, Kleist, Flaubert, Dostoevskij. Sono i suoi modelli. Avere più modelli contemporaneamente, gli permette di trovare in mezzo a loro una specie di libertà. In particolare Kafka venera Flaubert. Sogna di leggere ad alta voce, pubblicamente, in francese, l’Educazione sentimentale e La tentazione di S. Antonio. Contrariamente a quanto si possa credere, Kafka non è solo l’autore dell’incubo e dell’assurdo, come spesso viene letto. L’accumulazione di dettagli, l’esattezza descrittiva, ci fanno piuttosto pensare all’eredità del grande realismo ottocentesco. Tuttavia un senso di vertigine ci afferra quando, all’interno di una situazione realistica, scivoliamo, senza nemmeno accorgercene, in circostanze che fanno collassare il piano di realtà, con effetti concreti sulla vita dei personaggi. Si potrebbe dire che il naturalismo flaubertiano si mescola all’elemento fantastico del teatro jiddish; così come nella pittura dell’Angelico il naturalismo di Masaccio si mescola alle visioni fiabesche, sovrannaturali di Lorenzo Monaco. Lontano da sperimentalismi e avanguardie, Kafka è un classicista: tra i suoi modelli c’è anche Goethe. La sua scrittura è cristallina, ma si serve della chiarezza per diventare oscura. Anche Angelico può essere definito un classicista. Il suo ideale di bellezza come «stato di semplicità totale, di pura luce» deriva dalla “ruminazione”, come usava dire Antonino Pierozzi, suo maestro spirituale, dei testi di Platone e Plotino, presenti nella biblioteca di San Marco: la vera funzione dell’arte è “euristica”, grazie a essa scopriamo, attraverso l’opera che cerca di imitarlo, il modello eterno, l’idea di cui la realtà sensibile non è che un riflesso. La ricerca dei maestri, delle eredità culturali, apre molti orizzonti. Tentare di circoscriverli è impossibile. Certo è che le opere di Angelico e Kafka sono una prodigiosa fabbrica di immagini. A volte ne producono di nuove, altre attingono al patrimonio iconico esistente e lo modificano, lo ampliano a piacimento. Ma anche il contesto è fondamentale. Le città in cui si formano sono, per dirla con un eufemismo, culturalmente in fermento: personalità eccezionali sono tutte concentrate in attività artistiche, nella Firenze del Quattrocento; tutti scrivono e leggono, nella Praga magica dell’inizio del Novecento.

Il paradosso del tempo

Un altro tema che avvicina Kafka a Angelico, è quello della nozione del tempo. Un tempo disgregato, fluido, in cui eternità e attimo coincidono, si toccano. Nel primo romanzo incompiuto di Kafka, Il disperso, nella sequenza dentro l’enorme villa di Pollunder, quando il protagonista Karl Rossman chiede l’ora a un servitore, ansioso com’è di arrivare in tempo all’appuntamento di mezzanotte, i minuti scorrono vertiginosamente, se paragonati al tempo della narrazione. Così avviene nel racconto Un Medico di campagna, in cui la corsa notturna del vecchio medico su una carrozza, trainata da cavalli sbucati dal nulla, verso la casa del malato, dura un istante; mentre il viaggio notturno di ritorno, nella tempesta di neve, non finirà mai. Forse non è un dettaglio irrilevante sapere che già nel 1910, a Praga, Kafka avesse incontrato i migliori intellettuali del tempo, tra cui il giovane Albert Einstein.

Nella pittura di Angelico, il tempo è sorprendentemente circolare, curvo. Nella logica della narrazione continua, che non è certo una sua invenzione ma una convenzione già nota nell’arte gotica che il pittore porta alle estreme conseguenze, il passato scivola nel presente. Ne sono un esempio le storie dei santi padri del deserto nella Tebaide, dove giorno e notte coincidono, dove la narrazione fa coesistere il prima e il dopo, la vita e la morte.

Beato Angelico, Tebaide, Firenze, Museo di San Marco

Così accade nello scomparto della predella del Tabernacolo dei Linaioli, nel Martirio di San Marco, dove nella stessa scena, a sinistra, vediamo San Marco ricevere in carcere la visita divina, e a destra lo ritroviamo trascinato dai suoi carnefici, mentre, contemporaneamente, una tempesta di grandine li disperde per permettere ai discepoli dell’Evangelista di dargli degna sepoltura. Nella metafisica della rimeditazione teologica, è del tutto naturale trovare la presenza anacronistica di un santo domenicano in contemplazione silenziosa dei misteri illustrati, nelle celle del Dormitorio di San Marco. Il tempo, in Kafka e Angelico, non è che la trasposizione, nell’elemento contingente, della perpetuità dell’infinito. Per questo presente e passato sono nello stesso orizzonte narrativo.

Beato Angelico, Tabernacolo dei Linaioli, scomparto di predella con il Martirio di San Marco Evangelista, Firenze, Museo di San Marco

Bestiari

La narrativa di Kafka è costellata di animali. Una misteriosa talpa gigante diventa l’ossessione di un maestro di campagna, unico ad averla vista (Il maestro del villaggio); una talpa piccola, o un tenace e paranoico roditore, scava senza sosta per cercare silenzio e riparo sottoterra (La tana); una scimmia che ha imparato a scimmiottare l’uomo, si esibisce nei teatri per salvarsi dal rischio di finire in uno zoo (Una relazione per un’Accademia); sciacalli parlanti che da secoli, nel deserto, hanno ingaggiato una lotta senza quartiere contro gli arabi (Sciacalli e arabi); cavalli stregati che compaiono nel porcile della casa di un medico condotto e sfrecciano nella notte come saette (Un medico di campagna); un uomo, trasformato in un grosso insetto, la cui unica preoccupazione è perdere il tram per andare a lavorare (La Metamorfosi); un cane investigatore, che prova a venire a capo del mutismo della specie canina (Indagine di un cane); una topolina cantante che regala il suo fischio a un pubblico di topi non sempre in grado di cogliere la grandezza della sua arte (Josefine la cantante, ovvero il popolo dei topi). Tutto un bestiario immaginifico, reso credibile dalla prosa implacabile di Kafka. Un approssimarsi al regno animale, un piegarsi al suo livello, alla sua naturale innocenza. Sono animali antropomorfi, con le stesse ansie e preoccupazioni degli umani.

Animali nella pittura di Beato Angelico. In alto, da sinistra, La Fuga in Egitto (asino) e la Natività (bue e asinello) dell’Armadio degli Argenti; in basso, a sinistra, La sepoltura di Cosma e Damiano e i loro fratelli (dromedario parlante), Predella della Pala di San Marco; a destra, Adorazione dei Magi (cavalli), Predella del Tabernacolo dei Linaioli

Il Bestiario angelichiano è altrettanto immaginifico, ancorché inscritto nella tradizione iconografica medievale. C’è il famoso dromedario parlante della scena della Sepoltura di Cosma e Damiano, nella predella della Pala di San Marco, che raccomanda di seppellire Damiano nella stessa fossa di Cosma, nonostante avessero litigato, la fonte è la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine; cavalli compaiono nelle Adorazioni dei Magi, su tavola e affresco (scomparto della predella del Tabernacolo dei Linaioli e Cella di Cosimo); c’è la rondinella dell’Annunciazione del Prado, portatrice del messaggio primaverile dell’Incarnazione; le colombe dello spirito santo delle altre Annunciazioni su tavola (Cortona e San Giovanni Valdarno); le tortorelle della Presentazione al tempio (Cella 10, Corridoio Est); il pellicano nella cornice della grande Crocifissione con santi della Sala Capitolare, che si dà in pasto ai propri cuccioli, a significare il mistero del sacrificio della Croce; il bue e l’asinello delle Natività (Cella 5, Corridoio Est e Armadio degli Argenti); l’asino della Fuga in Egitto (Armadio degli Argenti); e poi cervi, leoni, corvi, asinelli, muli, orsi, coccodrilli, volpi e galline della Tebaide; e ancora le miniature con il cane che porta la fiaccola della fede, attributo di Domenico di Guzmán, fondatore dell’ordine dei predicatori, farfalle variopinte e un’aquila nel Codice 558. Per non parlare degli animali fantastici del tappeto anatolico della Pala di San Marco, stilizzati, forse astrologici, affascinanti nella loro geometrica spigolosità, un tributo alla famiglia Medici e alla prospettiva centrale brunelleschiana. Tutto un mondo creaturale, rappresentato con tenero divertimento affabulatorio, nella pittura di Angelico; con sbalorditiva adesione metamorfica, nella scrittura di Kafka.

Animali nella pittura di Beato Angelico. In altro a sinistra, Annunciazione Prado (rondine); a destra, Annunciazione San Giovanni Valdarno (colomba dello Spirito Santo); in basso a sinistra, Annunciazione Cortona (colomba dello Spirito Santo); a destra, dettaglio Pellicano della Crocifissione del Capitolo di San Marco (simbolo del sacrificio della Croce)
Alcuni animali presenti nella Tabaide di Beato Angelico, Firenze, Museo di San Marco
Beato Angelico, Pala di San Marco, dettaglio del tappeto anatolico con gli animali fantastici, Firenze, Museo di San Marco

Conclusioni

Il gioco delle analogie prende un po’ la mano e molte similitudini sarebbero ancora esplorabili, tra Kafka e Angelico. Su una è il caso di soffermarsi. È la comune avversione al potere, che porta a schierarsi sempre dalla parte degli umiliati, dei condannati, degli afflitti, dei “perseguitati a causa della giustizia”. Le predelle delle pale d’altare di Angelico, sono storie illustrate a beneficio dei non letterati, degli analfabeti, dei “poveri in spirito”. Sono la biblia pauperum che si esprime per immagini, raggiungendo tutti, al di là del censo e del tempo. Sono le “dipinture devote”, destinate alle chiese, che Antonino Pierozzi, teologo e priore di San Marco, definiva libri degl’idioti, proprio perché si rivolgevano al popolo. Le storie dell’Armadio degli Argenti non sono che parabole – il linguaggio scelto da Gesù per farsi capire dai semplici – in cui il pittore spiega la Grazia agli idioti. Con sapienza e carità. Con compassionevole capacità di immedesimazione.

Kafka in una lettera a Grete Bloch, amica della sua prima fidanzata Felice Bauer, si definisce un asociale, inviso alla comunità ebraica praghese perché «non sionista e non credente». È però indubbio che tutta l’opera di Kafka sia attraversata da una spiritualità misteriosa e ambivalente; una sorta di teologia negativa, che sul piano politico potrebbe corrispondere a un’utopia negativa. Uno degli esempi più significativi dell’originale religiosità kafkiana è il racconto Davanti alla legge. Tra i pochi pubblicati in vita, ha la brevità dell’apologo, l’enigmaticità della parabola biblica. Non per niente viene inserito all’interno del Processo e raccontato da un sacerdote a Joseph K., in occasione di una sua visita nel duomo. La storia è questa: un uomo di campagna chiede di entrare nella Legge, ma un guardiano all’ingresso gli spiega di non poterlo autorizzare. La porta è aperta; il guardiano è solo il primo: gli altri guardiani, all’interno, sono molto più potenti e severi di lui. Il campagnolo spera invano di avere il permesso di entrare. Si siede su uno sgabello e aspetta pazientemente per mesi e anni. Invecchia sul posto. Prima di morire pone un’ultima domanda al guardiano: «come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?». Il guardiano gli grida la risposta in un orecchio: «nessun altro poteva entrare da qui, questo ingresso era destinato solo a te. Adesso me ne vado e lo chiudo». Dato il suo carattere di parabola, il racconto resta aperto alle interpretazioni più disparate. Sostanzialmente rimane intangibile e sfuggente. Anche qui, lo sforzo ermeneutico non deve farci perdere di vista il valore estetico del testo, la sua sublime perfezione formale. Resta tuttavia il fatto che il racconto è anche innegabilmente un testo sovversivo. La sua dimensione critica, politico-religiosa, ci fa propendere per un’interpretazione in chiave antiautoritaria, di rifiuto di qualsiasi potere, dottrinale e politico, che imponga interdizioni e divieti. Il disperso, Il processo e il castello possono essere letti anche come grandi romanzi sull’inaccessibilità della Giustizia e della Legge.

È evidente che Angelico e Kafka declinino il tema del potere da prospettive diverse. Kafka lo indaga a più livelli, dall’autorità paterna (La Condanna e La lettera al padre) a quella burocratica (Il processo, Il castello, Nella colonia penale), dandocene una rappresentazione ambigua e incomprensibile; Angelico lo dipinge come una forza salvifica, che porta ordine e redenzione (il tema del Giudizio Universale, affrontato dall’artista quattro volte, è significativo di questa escatologia semplice e inesorabile). Entrambe le visioni, tuttavia, pongono l’individuo di fronte a un potere superiore che è impossibile da sfidare, inattingibile e imperscrutabile.

La sensibilità di Kafka e Angelico rispetto al tema della condanna e della colpa mi fa pensare alla scena finale de Il processo, in cui Joseph K, condotto al patibolo dai due boia, scorge, prima di morire, una finestra illuminata all’ultimo piano della casa prossima alla cava dove verrà giustiziato: «come una luce che s’accenda a un tratto, si spalancarono i battenti di una delle finestre, e un uomo, scialbo e minuto per la distanza e l’altezza, si sporse fuori di slancio, tendendo le braccia ancora più fuori. Chi era? Un amico? Un buono? Un partecipe? Uno che lo voleva aiutare? Ce n’era uno solo o lo volevano tutti? Un aiuto era ancora possibile? C’erano eccezioni, non sollevate per negligenza?». Quella luce in lontananza che si illumina a un tratto, è una piccola scintilla di speranza, in un finale disperato in cui Joseph K. verrà ucciso «come un cane».

Incoronazione della Vergine e Crocifissione, medaglioni, originariamente facce di una stessa tavola, Firenze, Museo di San Marco

Penso ai dipinti che Angelico realizzò per la Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio: il Compianto sul Cristo morto e i due tondi con la Crocifissione e i dolenti e l’Incoronazione della Vergine (la questione della provenienza e dell’uso dei due piccoli tondi resta ancora aperta; io mi attengo all’ipotesi di Magnolia Scudieri, secondo cui servivano a confortare i condannati alla pena capitale nell’attesa della sentenza). I membri laici della Compagnia si incaricavano di accompagnare i condannati a morte fino al patibolo, posto fuori dalle mura di Firenze. Trascorrevano con il condannato gli ultimi istanti della sua vita, provando a offrirgli sostegno. I dipinti dell’Angelico venivano usati per recare sollievo al condannato, per dargli un piccolo barlume di fiducia in una possibile redenzione dopo la morte. Dovevano apparire, al condannato, come quella finestra illuminata nel finale del Processo: uno spazio di luce, uno spicchio di speranza da cui qualcuno, un amico? un buono? tende le mani.

Carmelo Argentieri

Beato Angelico, Compianto sul Cristo morto, Firenze, Museo di San Marco

Per saperne di più:

Letteratura su Kafka consultata

Mauro Covacich, Kafka, La nave di Teseo, 2024

Giorgio Fontana, Kafka. Un mondo di verità, Sellerio, 2024

Nadia Fusini, Due. La passione del legame in Kafka, Universale Economica Feltrinelli, 2024

Elias Canetti, Processi su Franz Kafka, Adelphi, 2024

Philip Roth, «Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno», ovvero, guardando Kafka, in Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti. 1960-2023, Einaudi, 2018

Milan Kundera, I testamenti traditi, Adelphi, 2010

Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle, Elèuthera, 2007

Opere di Kafka consultate e citate

Franz Kafka, Il disperso, Il Saggiatore, 2023

Franz Kafka, Il processo, Einaudi, 1983

Franz Kafka, Racconti, Meridiani mondadori, 1970

Letteratura su Beato Angelico consultata

Renzo Villa, Beato Angelico, Pacini editore, 2018

Angelo Tartuferi e Gianluca Tormen (a cura di), La fortuna dei primitivi. Tesori d’arte dalle collezioni italiane fra Sette e Ottocento, Giunti, 2014

Georges Didi-Uberman, Beato Angelico. Figure del dissimile, Abscondita, 2009

Diane Cole Ahl, Beato Angelico, Phaidon, 2008

Magnolia Scudieri e Sara Giacomelli (a cura di), Fra Giovanni Angelico. Pittore miniatore o miniatore pittore?, Giunti, 2007

Carl Brandon Strehlke, Angelico, Jaca Book, 1998

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