Guido Carocci a San Marco: un museo tra arte e storia


Il 15 ottobre del 1869 veniva inaugurato il Museo di San Marco. Lo stesso giorno di dieci anni fa, in un pomeriggio di sole, in una terrazza di Via San Zanobi a Firenze, nasceva questo blog, su iniziativa di un gruppo di intrepidi assistenti museali. Nell’occasione di queste due ricorrenze speciali, vorremmo celebrare la memoria di Guido Carocci (Firenze 1851 – 1916), tra i direttori del Museo di San Marco e dei Cenacoli fiorentini quello più ingiustamente dimenticato e misconosciuto

Perché proprio Carocci? Perché oggi più che mai sentiamo il bisogno di maestri umili ed esigenti come lui, in parte involontari, sicuramente “eretici”, in quanto portatori di idee personali. Perché lo consideriamo un fratello maggiore più che un padre, infinitamente fragile e contraddittorio forse, ma con un’aspirazione sincera al bene e al bello. Perché resta un modello di come dovrebbe essere un funzionario pubblico, alieno da facili atteggiamenti alla moda, al servizio della conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale.

Lapide commemorativa dedicata a Guido Carocci, Lapidario, Museo di San Marco, Firenze

Non tutti sanno che nel lapidario del Museo di San Marco, il piano sotterraneo che custodisce lapidi funerarie e frammenti architettonici del Vecchio Centro di Firenze, in fondo a una rampa di scale, al centro di una collezione di insegne di compagnie religiose, si trova una lapide commemorativa dedicata a Guido Carocci. Il ritratto a bassorilievo in bronzo, modellato dallo scultore Valmore Gemignani nel 1917, un anno dopo la sua morte, ce lo mostra paffutello, dal sorriso bonario, la barba risorgimentale e un elegante cappello. Ma chi era esattamente questo professionista della tutela ante litteram? E come ci è finito nell’inconscio del nostro Museo, tra le memorie rimosse dei Chiostri di Sant’Antonino e San Domenico?

L’epigrafe, composta dal filologo classico Ermeneglido Pistelli, così recita:

Guido Carocci n. il XVI settembre MDCCCLI m. il XX settembre MCMXVI dell’arte e della storia toscana della topografia fiorentina indagatore instancabile. Del Museo di San Marco primo ordinatore per dieci anni Direttore benemerito. Semplice e schietto così negli scritti come d’animo e di costume. Qui rivive tra i ricordi della Firenze antica da lui amorosamente raccolti e dottamente illustrati.

Auspici il Ministro della Pubblica Istruzione e il Comune di Firenze posta per pubblica sottoscrizione q.m.

GIUGNO MCMXVI

Lapide commemorativa di Guido Carocci, Lapidario, Museo di San Marco, Firenze

Nella vulgata storico-artistica il nome di Carocci è immediatamente associato al ruolo di salvaguardia del Vecchio Centro di Firenze e quindi all’allestimento del Museo di Firenze Antica a San Marco. Una semplificazione di comodo che ha finito per ridurre uno studioso di prim’ordine a una specie di collezionista di fossili del futuro, a scapito di un’eredità culturale enorme, completamente ignorata. Quanti sanno che Carocci fu anche esperto di araldica e genealogia? Quanti conoscono il suo impegno nella tutela e nell’accrescimento del patrimonio artistico toscano? Quanti conoscono la sua attività di compilatore di schede (oltre 40.000, scritte a mano) con criteri non solo inventariali ma scientifici, e questo ancor prima che uscissero norme amministrative ufficiali in proposito? Proviamo quindi a tracciarne un profilo per quanto possibile “semplice e schietto”, come la sua prosa e il suo carattere.

L’Università del giornalismo

Di Carocci sappiamo che si formò come autodidatta, frequentando musei, biblioteche e archivi, e copiando i dipinti dei grandi maestri sotto la guida dei pittori e disegnatori Giuseppe Moricci (Firenze, 1806-1879) e Nicola Sanesi (Firenze, 1818-1889). Sappiamo che da giovanissimo si dedicò al giornalismo militante, occupandosi in particolare dei problemi sociali e culturali della sua città. L’attività pubblicistica fu la sua università. Scrisse per varie testate tra cui la Gazzetta d’Italia, la Gazzetta del Popolo e la Nazione, negli anni in cui Firenze capitale d’Italia era al centro di un eccezionale fervore editoriale. Sull’onda di quel fervore, Carocci fondò nel 1882, a 31 anni, la rivista «Arte e storia», prima settimanale poi mensile, di cui fu direttore per tutta la vita. Gli intenti, già impliciti nel titolo, sono dichiarati ai lettori nel primo numero: «patrocinare gli interessi dell’arte, tener vivo l’amore per gli studi storici: desideriamo d’essere l’organo spassionato e fedele degli artisti e degli studiosi, ed in questa via che abbiamo scelta, speriamo di trovare quell’onesta accoglienza e quella benevola cooperazione che valgano a rendere i nostri sforzi utili ed efficaci». Il periodico, cui collaborarono a titolo gratuito artisti ed eruditi di tutta Italia, voleva essere uno strumento di libera informazione, fuori da scuole e ideologie, allo scopo di favorire il dibattito delle idee e lo sviluppo delle arti. Un progetto editoriale e culturale ambizioso, cui Carocci tenne fede per 35 anni, dandosi come imperativo morale una divulgazione rigorosa e mai pedante. La vocazione divulgativa non fu solo prerogativa di «Arte e Storia» ma caratterizzò tutte le pubblicazioni di Guido Carocci: dai due imprescindibili volumi Dintorni di Firenze a La Villa Medicea di Careggi; da Riflessioni sull’origine storica e giuridico-canonica delle Pievi e loro Parrocchie filiali alla monografia Donatello. Memorie e opere; fino alla raccolta delle conferenze Firenze scomparsa, che tenne contro le demolizioni del vecchio centro di Firenze. Per citarne solo alcune.

Guido Carocci, prima edizione di Firenze scomparsa, 1897

Sapienza locale e ricerca sul campo

Autodidatta e insofferente agli studi accademici, Carocci può essere accostato, fatte le debite distinzioni, a connoisseurs come Giovanni Battista Cavalcaselle (Legnago, 1819 – Roma, 1897). Mossi esclusivamente dalla passione per l’arte e la conoscenza, entrambi seppero incarnare fino in fondo il legame tra la scrittura e la vita, tra il pensiero e la prassi, tra lo studio delle fonti e la verifica sul campo. In un momento storico che precede l’istituzione di un organico ministeriale di professionisti della tutela, personalità come Carocci si misero in gioco in modo generoso e disinteressato, portando alla neonata nazione i primi e fondamentali contributi alla conservazione del patrimonio artistico. Se le ricerche di Cavalcaselle avevano itinerari più internazionali, e si concentravano soprattutto sulle opere di pittura, quelle del nostro Carocci, proprio perché avevano orizzonti più provinciali, ebbero il merito di far conoscere il patrimonio diffuso della Toscana nel suo intreccio complesso di arte, storia e cultura. Il “provincialismo” fu il limite di Carocci: quanto avrebbe potuto incidere il suo pensiero se avesse girato l’Europa, se il suo magistero non si fosse consumato solo all’ombra della cupola di Brunelleschi! Carocci fu fondamentalmente un esploratore del territorio toscano, che percorse in lungo e in largo instancabilmente, a costo di sacrificare la propria vita privata. La scarsità di informazioni sulla sua biografia, infatti, coincide con un vuoto che dovette essere reale: le sue vicende personali sono significative di un’esistenza infelice e sfortunata. All’amarezza che traspare dal suo epistolario, si accompagna il tono compassionevole, spesso anche ironico delle testimonianze dei suoi contemporanei. È molto triste leggere i necrologi e gli articoli scritti in sua memoria; al netto dell’inevitabile retorica da elogio funebre, molti indugiano su descrizioni fisiche caricaturali, al limite del body shaming: «Guido Carocci era una singolare e caratteristica figura fiorentina: obeso, rossiccio e pacifico» (Il Nuovo Giornale, 1916); oppure ce lo rappresentano di indole solitaria, riferendo che «… è morto serenamente in mezzo ai libri che gli eran cari» (Ibidem), quasi non avesse altri affetti. Perfino l’amico e sodale Carlo Papini su «Arte e Storia» non ci risparmia particolari sulla sua infermità, raccontando dettagliatamente, quasi con una punta di sadismo, le cadute di Carocci nell’esercizio del suo lavoro di Regio ispettore dei Monumenti: «…la prima volta trovandosi nel 1896 a S. Gimignano in Provincia di Siena, la seconda, nel 1905 a Montepulciano, essendo caduto, si era gravemente fratturato le gambe, rimanendo lungamente infermo, a motivo della sua corpulenza, che aveva reso più gravi gli effetti di quelle cadute. Un’altra volta era caduto in piana terra nel 1904 in Via Rondinelli in Firenze, tantochè Egli ormai poco poteva camminare appoggiandosi al suo fedele bastoncello che non lasciava mai» («Arte e Storia», n.10,1916).

Ruggero Panerai, Ritratto di Guido Carocci, Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Pitti, Firenze

Il riordino del Museo di San Marco

Esistono almeno dieci Guido Carocci. Il giornalista culturale, lo storico militante, il divulgatore scientifico, il compilatore di schede su artisti, case, chiese, palazzi (il Fondo Carocci, oggi è alla Biblioteca degli Uffizi), il connoisseur, l’ispettore per le Antichità e Belle Arti della Toscana, l’ispettore regionale ai monumenti, il conservatore, l’esperto di topografia e toponomastica, l’esperto di araldica. Delle tante rifrazioni di Carocci, quella su cui vorremmo soffermarci è il lavoro di ordinatore e direttore del Museo di San Marco.

Al momento del suo arrivo il museo si presentava, a suo stesso dire, come un «insigne e glorioso edifizio che riassumeva in sé la memoria di grandi avvenimenti storici […] un museo privo di vitalità nel quale dominava solo l’immagine del convento abbandonato» («Il Bollettino d’Arte», V, 10, 1911).

In una lettera del 2 settembre 1893, indirizzata a Luigi del Moro, direttore dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti di Firenze, Carocci difende il valore storico e artistico di San Marco, proponendogli alcuni interventi: dal ricongiungimento della cornice marmorea del Tabernacolo dei Linaioli con la relativa tavola dell’Angelico alla creazione di una sezione fotografica dedicata agli artisti della Scuola di San Marco; dal migliorare l’esposizione dei codici manoscritti e accrescerne il numero, «trasportandone al Museo alcuni lasciati tuttora a logorarsi in qualche chiesa di campagna», alla creazione di una parte del museo da destinare a monumenti araldici e funerari provenienti da chiese ed edifici, in continuità con l’avvenuta sistemazione nel Chiostro di San Domenico delle lastre sepolcrali provenienti dalla Chiesa di San Pancrazio (oggi nel Chiostro dei Silvestrini). Anche se Carocci non si può considerare l’iniziale promotore della concentrazione delle opere di Beato Angelico a San Marco, ritenendo che «Non si dovrebbero togliere alle altre gallerie delle città tutte le opere dell’Angelico perché anche quel maestro singolarissimo possa essere degnamente rappresentato nella raccolta dei capolavori dell’arte toscana», sicuramente è il primo a ipotecarne la nascita: «certo il Museo di San Marco sarebbe sede degnissima e adattata a molte opere che potrebbe completare così questa Galleria Domenicana» (Lettera di Carocci a Del Moro, su G. Di Cagno, 1991). Sarà Giovanni Poggi, negli anni ’20 del Novecento, a portare a compimento l’intuizione di Carocci di radunare tutte le opere su tavola dell’Angelico a San Marco.

Beato Angelico, Tabernacolo dei Linaioli, Museo di San Marco, Firenze

Realizzata la sezione fotografica e quella dei monumenti sepolcrali, la proposta di ricongiungimento del Tabernacolo dei Linaioli di Carocci a San Marco si scontrò con il rifiuto di Enrico Ridolfi che, in uno scambio di lettere con il Ministero dell’Istruzione Pubblica nel 1893, si oppose all’idea di ricomporre nel Museo la cornice di Ghiberti con la tavola dell’Angelico, perché l’opera avrebbe dovuto diventare il fulcro di una sala dedicata al pittore domenicano, nel nuovo allestimento degli Uffizi. Ridolfi non contestava il ricongiungimento della tavola alla cornice, ma riteneva che questo dovesse avvenire agli Uffizi e non a San Marco. L’annosa questione si concluderà temporaneamente nel 1909, con una ricomposizione dei due pezzi agli Uffizi.

La vicenda del Tabernacolo dei Linaioli rappresenta solo l’inizio della battaglia ingaggiata da Carocci, lungo tutto il venticinquennio della sua direzione, in favore dell’accrescimento delle collezioni dell’ex convento domenicano, portata avanti su due fronti principali: da un lato la fondazione del Museo di Firenze Antica in alcuni ambienti inutilizzati del Museo, dall’altro il potenziamento della pinacoteca domenicana, attraverso il trasferimento di dipinti dai magazzini delle Regie Gallerie.

I tempi erano maturi per la realizzazione della pinacoteca domenicana, più volte auspicata e resa finalmente possibile grazie alla riqualificazione di alcuni spazi espositivi, fra tutti la sala dell’Ospizio (attuale Sala dell’Angelico), che all’epoca era ancora divisa in più vani.

All’acquisizione di settantuno dipinti, formalizzata in un verbale del 4 gennaio 1907, fecero seguito altri cinque quadri nel 1909. Si tratta di opere a soggetto religioso, cronologicamente comprese tra il XIV e il XVII secolo: ci sono dipinti di Lorenzo Monaco, Suor Plautilla Nelli e fra Paolino, ma anche numerose copie di scuola.

Contestualmente all’incremento delle collezioni, Carocci ne volle progettare anche l’allestimento. Una bozza del programma espositivo dei settantuno dipinti ricevuti nel 1906 è oggi conservato nel relativo incartamento presso l’Archivio Storico delle Gallerie Fiorentine. Si tratta di una semplice lista delle opere in questione, con l’indicazione dell’autore o della scuola di appartenenza, del periodo e del soggetto, che ci permette di capire come Carocci intendesse distribuirle nelle sale del Museo: la sala del Lavabo ne avrebbe ospitate dodici – tra cui Il Compianto sul Cristo morto di Plautilla Nelli -, il Refettorio grande ventitré, la sala dell’Ospizio trentadue; nel corridoio fra i due chiostri furono inoltre collocati altri quattro dipinti di grandi dimensioni. La rivista «Arte e storia» documentò le trasformazioni in corso, descrivendo i criteri espositivi utilizzati per la pinacoteca: «Per quanto lo consentissero le dimensioni dei dipinti e le condizioni della luce si è cercato di dare un certo ordine cronologico alla disposizione di cotesti dipinti. Nell’Ospizio si sono riunite tavole del XIV e del XV secolo, la sala del Lavabo è stata destinata ai dipinti del XVI secolo e nel Refettorio grande si sono collocati i quadri di maggiore mole appartenenti al XVI e XVII secolo» («Arte e Storia», n.19-20, 1906). Tra i meriti di Carocci c’è anche il trasferimento della tela con Sant’Antonino ai piedi del Crocifisso dal Chiostrino dei morti, accanto alla basilica, alla Sala Capitolare del Museo. Il dipinto, stando all’aperto, era stato esposto alle intemperie: «Le bufere, i geli, gli ardori dell’estate compievano su di lui l’opera più spietata e ultimamente la tela si vedeva cadere a brandelli e la bella cornice si ricopriva di muffa e di sudiciume» (Carocci, «Bollettino d’Arte», V, 10, 1911). Carocci la fece restaurare, compresa la cornice, dubitando dell’attribuzione al Baldovinetti e sostenendo quella al Pollaiolo (Antonio, alla stregua di Vasari, e non Piero cui invece recentemente l’hanno riferita Tartuferi e Galli).

Piero del Pollaiolo, Sant’Antonino ai piedi del Crocifisso, Museo di San Marco, dopo il restauro

Se negli anni la collezione continuò ad arricchirsi di nuovi pezzi provenienti da diverse città della Toscana, spesso bisognosi di restauri, nel 1911 il museo dovette rinunciare al ritratto di Cosimo de’ Medici del Pontormo, che andò ad aggiungersi agli altri ritratti medicei nella sala del Barocci agli Uffizi. Questo passaggio provocò un’ulteriore disputa tra la Direzione delle Regie Gallerie e Guido Carocci che, in tutti i modi, senza successo, provò a convincere Ridolfi a evitare al “suo” museo la perdita di una tavola che faceva parte della collezione fin dal 1869, anno dell’istituzione di San Marco. L’opera di Pontormo fu rimpiazzata da una copia di Alessandro Pieroni, collocata al posto dell’originale nella cella di Cosimo il Vecchio (oggi esposta in Sala Greca).

Alessandro Pieroni, Ritratto di Cosimo il Vecchio, Sala Greca, Museo di San Marco

Parallelamente all’incremento della pinacoteca, Carocci arricchì San Marco di una nuova sezione, il Museo di Firenze Antica, che raccoglieva alcuni resti dell’antico centro di Firenze, salvati dalle demolizioni del piano di “risanamento”.

Il Museo di Firenze Antica

Il progetto di un intervento di sventramento della parte più antica della città per ridurla ai nuovi criteri urbanistici di igiene, decoro e sicurezza, costituisce una costante delle grandi città europee nel corso dell’Ottocento, si pensi ai piani di Parigi e di Vienna. A Firenze la questione del “risanamento” del vecchio centro venne posta per la prima volta all’inizio del XIX secolo sotto la dominazione napoleonica, per via delle condizioni igienico-sanitarie dell’area, che rappresentavano un pericoloso focolaio per l’epidemia di colera del 1835; ma solo con il trasferimento della capitale a Firenze, nel 1865, si pensò concretamente al riordino del centro. Diverse furono le proposte presentate. Quella dell’ingegnere comunale Luigi Del Sarto prevedeva l’abbattimento degli edifici che ingombravano la piazza del Mercato Vecchio, fatta eccezione della vasariana Loggia del Pesce, rimontata in Piazza dei Ciompi solo negli anni ’50 del Novecento. Il progetto fu approvato dal Consiglio comunale nel 1866, sostenuto da una classe borghese rampante e in cerca di legittimazione sociale, e divenne esecutivo, nonostante molti pareri contrari, nel 1882. La zona del Mercato Vecchio, presso l’attuale piazza della Repubblica, fu dunque quella maggiormente colpita dalle demolizioni. Dietro le evidenti ragioni economiche sostenute dai difensori dell’igiene pubblica e dai fautori dello sventramento, c’erano in realtà anche ragioni politiche più nascoste, considerato che l’Internazionale contava nel 1878 più di duemila iscritti e che la sede della Federazione anarchica era proprio dentro l’area del Mercato Vecchio.

Mercato Vecchio di Firenze, prima delle demolizioni

In prima linea tra i fiorentini impegnati nella difesa degli antichi quartieri si schierò anche Guido Carocci. Le sue posizioni rispetto alle demolizioni, tuttavia, maturarono nel tempo, parallelamente al maturare della sua attività giornalistica. Da un’ambiguità iniziale, dovuta forse alla collaborazione con la «Nazione», che tra le testate giornalistiche fiorentine era la più scopertamente favorevole ai lavori di “riordinamento”, Carocci pervenne a una più fiera consapevolezza critica in difesa del tessuto urbano medievale dal momento in cui, nel 1882, fondò e diresse «Arte e Storia», la rivista più contraria in assoluto alle demolizioni. Nel 1884 pubblicò Il mercato vecchio di Firenze, in cui proponeva un modello di risanamento fondato sui principi di salvaguardia del carattere urbanistico e di restauro degli edifici degradati per evitare le demolizioni. La sua voce, considerata nostalgica e passatista, rimase inascoltata. Viste le intenzioni municipali di procedere rapidamente alle demolizioni, Carocci sollecitò la necessità di effettuare studi e rilievi su ciò che sarebbe andato perduto. Mentre le distruzioni procedevano e venivano salvati soltanto pochi edifici isolati, secondo criteri di selezione arbitrari, nel 1888 il Comune di Firenze nominò una Commissione storico–archeologica cui si affiancò presto una sottocommissione composta da Luigi del Moro, Gaetano Milanesi e Guido Carocci con l’incarico di individuare, documentare e studiare i pezzi artistici da preservare. I beni coinvolti in quest’opera di salvataggio includevano esempi di scultura monumentale, brani di pitture murali di interni, spesso nascosti sotto lo scialbo delle pareti, arredi sacri, stemmi gentilizi, monumenti sepolcrali, tabernacoli. I pezzi, prelevati dal contesto originario, vennero depositati alla rinfusa, dapprima in un locale del museo del Bargello, poco capiente e inadatto ad accogliere una raccolta in continua crescita; successivamente nel Quartiere di Eleonora in Palazzo Vecchio (1888) e nel palazzo dell’arte della Lana (1889).

Veduta della Piazza del Mercato Vecchio di Firenze, attr. a pittore fiorentino, prima metà del XVII sec., copia da Filippo Napoletano, Museo di San Marco, Firenze

Nel 1893, dalle pagine di «Arte e Storia», si dava conto della nascita di una nuova sezione nel Museo di San Marco che avrebbe raccolto i pezzi salvati dell’antico centro di Firenze. Nell’anno successivo Corinto Corinti, delegato della Commissione Storico-Artistica Comunale, documentò con meravigliosi disegni i primi trasferimenti di materiali dal palazzo dell’arte della Lana al Chiostro di San Domenico. A questo primo nucleo si aggiunsero nuovi frammenti, il cui incremento andò di pari passo con l’opera di demolizione del centro storico: «Questo museo di ricordi fiorentini avrà in seguito uno sviluppo anche maggiore, giacché altri locali opportunamente ridotti vi saranno aggiunti per raccogliere, oltre a molti altri oggetti, anche tutte quelle parti di decorazioni murali tolte dai fabbricati in demolizione e che costituiscano di per se stesse una collezione rara ed artisticamente preziosa» («Arte e Storia», n. 17, 1895).

La notevole quantità di reperti in continua crescita, indusse l’Ufficio regionale a chiedere l’annessione al Museo di San Marco di ulteriori ambienti del piano terra, precedentemente destinati ad altre funzioni. È così che nel 1898 fu inaugurata la prima sezione del Museo di Firenze Antica, sebbene questa poté dirsi compiuta solo a partire dal 1904.

L’allestimento di Carocci, documentato da alcune fotografie d’epoca e da un lungo articolo pubblicato in due parti su «Arte e Storia», obbediva a criteri tipologici e di provenienza: frammenti lapidei, stemmi, portali e porzioni di pitture murali vennero sistemati sulle pareti, lungo il corridoio della Foresteria, nei due chiostri di San Domenico e Sant’Antonino con intenti didattici e decorativi, formando veri e propri “repertori” per eventuali studi di archeologia medievale. Il percorso espositivo comprendeva anche le sei sale annesse alla Foresteria e l’attigua corte del Granaio. Nel Chiostro dei Silvestrini, per la prima volta incluso nel percorso museale in seguito all’eliminazione di alcune superfetazioni, trovò invece ricovero materiale eterogeneo proveniente dallo stesso convento di San Marco e da altri edifici di proprietà pubblica. Negli ultimi anni di direzione, Carocci raggruppò nel Museo anche un cospicuo numero di antiche campane delle chiese del contado, alcune delle quali provenienti dal Museo Nazionale del Bargello (oggi sono collocate nel Lapidario).

Museo di Firenze Antica, Museo di San Marco, Firenze

L’opera di salvataggio attuata da Carocci riscosse molti consensi, in un clima culturale che, in Italia come all’estero, celebrava la conservazione del passato dei grandi centri urbani in trasformazione all’interno delle mura sicure di un museo. A questa operazione si opponevano coloro che, nel rifiuto totale delle demolizioni, difendevano l’inscindibile legame tra opere d’arte e originario contesto d’appartenenza.

Fra difensori del salvataggio dei frammenti e detrattori di un concetto di museo inteso come “prigione dell’arte”, l’allestimento del Museo di Firenze Antica, diretta da Carocci fino al 1916, resterà sostanzialmente invariato per alcuni anni. Dopo la prima guerra mondiale, una volta affievolitesi le polemiche per la distruzione dell’antico centro di Firenze, l’attenzione nei confronti di questa raccolta, sempre meno apprezzata, andò gradualmente scemando, fino a provocare una parziale dispersione dei pezzi. In particolare, una parte di essi entrò a far parte del Museo Bardini, dopo che il Comune di Firenze aveva acquisito l’eredità dell’antiquario collezionista. Un’altra parte fu trasferita al palazzo di Parte Guelfa. Negli anni Cinquanta, su iniziativa di un comitato per l’Estetica Cittadina presieduto da Pietro Bargellini, furono restaurati moltissimi tabernacoli fiorentini, e in quell’occasione vennero prelevati da San Marco i più belli, provenienti dal vecchio centro e, una volta restaurati, rimurati in varie zone della città, senza un criterio topografico rigoroso. Dopo l’alluvione del 1966, che fortunatamente non colpì San Marco, fu avviato il restauro dell’intero complesso museale. In tale occasione furono ripristinati i locali sotterranei dove, tra il 1972 e il 1973, furono trasferite le iscrizioni sepolcrali ottocentesche del Chiostro di San Domenico e i frammenti della Firenze distrutta che rischiavano di deteriorarsi, sotto le intemperie. Fu in quegli anni che la lapide commemorativa di Guido Carocci fu smurata dal Chiostro di San Domenico e montata sotto le scale del Lapidario.

Non solo Firenze Antica

Oltre alla fondamentale opera di ampliamento delle collezioni, con la creazione della sezione di Firenze Antica e la nascita della “pinacoteca domenicana”, Guido Carocci, nei suoi anni di direzione, affrontò altre problematiche nella gestione del Museo di San Marco.

Tra le questioni ereditate dalle amministrazioni precedenti, c’era il degrado della facciata lungo l’attuale via La Pira, già sottoposta a interventi in passato. Nel 1910 la situazione peggiorò vistosamente a causa di violenti eventi meteorologici, provocando la caduta di frammenti di pietra dagli stemmi medicei e da altri elementi decorativi. In quell’occasione Carocci, vista l’insufficienza dei fondi ordinari del museo, chiese e ottenne l’intervento della Soprintendenza ai monumenti di Firenze per un restauro integrale del prospetto.

Ben presto tornò all’attenzione dell’opinione pubblica, stavolta clamorosamente, anche la questione della sicurezza delle opere, a causa del furto del tabernacolo reliquiario con la Madonna della Stella dell’Angelico, conservato allora nella cella n. 33 del Dormitorio. L’opera venne sottratta misteriosamente nella notte tra il 19 e 20 novembre del 1911, per essere recuperata fortunosamente dalla polizia dopo appena una settimana. Così Carlo Papini racconta la reazione di Carocci al furto, con il solito tono compassionevole e vagamente derisorio, nell’elogio funebre pubblicato su «Arte e Storia»:

«Quando gli venne l’annunzio che la notte del 19 novembre 1911 la Madonna non era più al suo posto, era stata involata; non voleva crederlo, un tremito lo scosse, proruppe in pianto, e fu preso da fortissima febbre. Corse al Museo, constatò il fatto insieme all’autorità, diresse animosamente le ricerche. E quando dopo quattro giorni, la “Sua Madonnina”, com’ei voleva chiamarla, fu ritrovata, la sua commozione, la sua gioia furono grandi al punto che fu ripreso nuovamente dalla febbre» («Arte e Storia», n.10, 1916).

Beato Angelico, Madonna della Stella, Museo di San Marco, Firenze

Nonostante il ritrovamento dell’opera, che portò tra l’altro all’incriminazione di due addetti alla vigilanza, il furto rivelò le falle nei sistemi di sicurezza del Museo, provocando un serrato dibattito tra conservatori, operatori museali e opinione pubblica. E’ considerazione abbastanza diffusa che questo genere di sottrazioni fossero riconducibili a precise commissioni di collezionisti, che non avevano difficoltà ad appropriarsi di tesori artistici custoditi negli edifici museali in ragione della loro vulnerabilità.

L’episodio non rimase senza conseguenze e finì per riflettersi nell’allestimento delle sale di San Marco: dopo il furto, per l’esposizione di opere mobili saranno preferite, con poche eccezioni, le sale del pian terreno, più facilmente soggette a controlli, rispetto alle celle del Primo piano. La sala dell’Ospizio e il Refettorio grande, dotati di maggiore sorveglianza, diventarono così gli ambienti più adatti all’uso di pinacoteca.

Oltre alla soluzione di criticità ed emergenze, la direzione di Carocci fu caratterizzata da una nuova concezione del museo come istituzione attiva, più aperta e moderna: azzardando una terminologia attuale, il museo con Carocci divenne un laboratorio polifunzionale a disposizione sia degli studiosi sia del pubblico meno esperto di materie artistiche.

In quest’ottica si inscrivono la costituzione di una sezione fotografica, la volontà di far riemergere dai depositi una serie di pezzi altrimenti invisibili, e la promozione di numerosi interventi di restauro. Carocci intraprese inoltre, da bravo catalogatore, una lunga e tormentata opera di inventariazione delle collezioni, che fu terminata dai suoi successori solo dopo la prima guerra mondiale. Il periodo di direzione del museo di San Marco si interruppe bruscamente per Carocci con la morte, sopraggiunta il 20 Settembre 1916.

Una sintesi della sua importante opera di studioso, funzionario, specialista a tutto tondo dell’arte e della storia toscana fu pronunciata da Carlo Papini in occasione dell’inaugurazione della lapide dedicata allo studioso e collocata nel chiostro di San Domenico, pubblicata sulle pagine di «Arte e Storia». A proposito della lunga e operosa attività che Carocci profuse per l’ex convento domenicano, Papini scrive:

«Il primitivo Museo era unicamente costituito da molti e preziosi affreschi che adornavano l’antico Convento dei domenicani, insigne e glorioso edifizio che riassumeva la memoria di grandi avvenimenti storici, che ricordava la dimora e l’opera di religiosi illustri, fra i quali emerge la figura quasi apocalittica del Savonarola, i convegni di filosofi e di umanisti attorno a Cosimo il Vecchio de’ Medici. Negli ampi chiostri tristi e paurosi, percorrendo i lunghi dormitori, affacciandosi alle celle deserte, entrando nei vasti refettori ove un solo affresco rompeva la squallida nudità delle pareti, il visitatore provava come un senso di tristezza, che né le mistiche e devote composizioni dell’Angelico, né l’evocazione di tanti ricordi storici valevano a dissipare. “Ma un alito di vita” così si esprime il Carocci sul Bollettino d’Arte del Ministero della P. istruzione dell’Ottobre 1911, “un raggio di giocondità apparve entro l’ampio e stupendo edifizio, quando si comprese che i vasti e squallidi ambienti, molti dei quali vuoti affatto o destinati ad usi inadatti e sconvenienti, avrebbero potuto accogliere molte altre opere efficaci ad accrescere e completare l’interesse di quelle che vi si trovavano da secoli. E si potrebbe dire che il vecchio Convento divenne un museo vero e proprio quando vi si aggiunsero i nuovi ambienti sottratti ad un lungo abbandono, quando dipinti importanti, liberati dalla clausura dei magazzini delle gallerie, adornarono le nude pareti dei refettori e quando con paziente cura si ricercarono e si disposero dovunque preziosi oggetti, atti a costituire come il cospicuo nucleo d’un Museo d’arte sacra. E lo squallore del cupo edifizio monastico scomparve del tutto, allorché nei chiostri, unicamente consacrati al culto dei morti, si crearono vaghi giardini dove i fiori rigogliosi arrecano oggi tutto il fascino e la leggiadria della vitalità nuova”» («Arte e Storia», n. 6-7, 1917).

Conclusioni

Nel dizionario della lingua italiana Gabrielli, alla parola “eredità” leggiamo: «complesso dei beni lasciati da un defunto e di cui altri diviene padrone per successione legittima o testamentaria». Questa idea che un’eredità riguardi un lascito di esperienze defunte non rende giustizia alla vitalità che vogliamo riconoscere alla figura di Guido Carocci. Esiste un’altra parola, più convincente di eredità: è «legato». Legato nella definizione di «bene lasciato in retaggio a persona diversa dall’erede», a sottolineare la valenza di retaggio sovraindividuale, storico e sociale di un certo patrimonio, sembra essere più calzante se si pensa a tutte le esperienze che Carocci ci ha lasciato. Il rischio è che il retaggio di queste esperienze venga, se non dimenticato (sono molte le tentazioni di dissolvenza della memoria in questi anni), quanto meno travisato. Il nostro auspicio è che la lettura dell’opera di Carocci non rimanga appannaggio di pochi addetti ai lavori, ma, come lui stesso avrebbe desiderato, diventi patrimonio di tutti.

Carmelo Argentieri

Valmore Gemignani, Ritratto di Guido Carocci, bronzo, 1917, Lapidario, Museo di San Marco, Firenze

Per saperne di più:

Guido Carocci, Necrologio di Carlo Papini in «Arte e Storia», serie VI, n.10, 1916

La solenne inaugurazione della lapide di Guido Carocci nel Museo di San Marco in «Arte e Storia», serie VI, n. 6-7, 1917

Serenita Papaldo, Carocci Guido in Dizionario biografico degli italiani, Vol. 20, Treccani, 1977

Maria Sframeli (a cura di), Il Centro di Firenze restituito, 1989

Gabriella Di Cagno, Arte e Storia. Guido Carocci e la tutela del patrimonio artistico in Toscana, Ponte alle Grazie, 1991

Isabella Ponsiglione, Il Museo di San Marco a Firenze: origini e sviluppi di un museo cittadino, Tesi di dottorato, 2002-2004

Angelo Tartuferi (a cura di), Sant’Antonino Pierozzi nel Museo di San Marco, Sillabe, 2023

2 commenti

  1. Vivo in Ucraina. Ad ottobre sono stato nella vostra bellissima città e ho visitato San Marco. GRAZIE mille per il tuo meraviglioso blog. Grazie a lui ho imparato molti dettagli sulla storia della creazione del vostro museo e delle sue mostre. Grazie per avermi fatto conoscere Guido Carraci e per il Museo dell’Antica Firenze, di cui purtroppo in Internet si trovano così poche informazioni.
    Ti auguro ulteriore successo, scoperte e nuove storie.

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