INTERVISTA A GIORGIO BONSANTI. FONDARE E RESTAURARE

Giorgio Bonsanti è indubbiamente una delle figure più eminenti della scena culturale fiorentina e quasi non avrebbe bisogno di presentazioni. Storico dell’arte, curatore di importanti mostre su Donatello, Raffaello e il Rinascimento, autore di una quantità straordinaria di pubblicazioni su Giotto, Beato Angelico, Donatello, Michelangelo e altri artisti tra Trecento e Cinquecento, consulente per numerosi progetti di restauro e museologia in Italia e all’estero, dal 1979 al 1988 è stato nella Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici a Firenze come Direttore delle Cappelle Medicee, del Museo di San Marco, della Galleria dell’Accademia e dell’Ufficio Restauri.

Nei nove anni di direzione del Museo di San Marco, tra il 1979 al 1988, Bonsanti ha ampliato il percorso museale aggiungendo al riordino della Scuola di San Marco nel Refettorio Grande, la Sala di Fra Bartolomeo, la Sala detta di Alesso Baldovinetti, ora Sala di Piero del Pollaiolo per la presenza della grande tela raffigurante Sant’Antonino ai piedi del Crocifisso, e ha diretto Dino Dini nel grandioso restauro di tutti gli affreschi di Beato Angelico del primo piano. Soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure e dei Laboratori di Restauro fino al 2000, professore di Storia e Tecnica del Restauro presso l’Università degli Studi di Torino e poi di Firenze, Segretario generale dell’Accademia dell’Arte del Disegno, Bonsanti non ha mai interrotto il suo lavoro culturale nel campo dell’arte e della ricerca scientifica.

Con questo prestigioso ex direttore dall’inconfondibile fascino british, che conosciamo bene perché viene a trovarci spesso come visitatore e come esperto in occasione di conferenze e presentazioni, cominciamo un ciclo di interviste su San Marco, per sapere come vedono oggi il nostro museo i funzionari che in passato l’hanno curato, valorizzato, custodito e amato prima di noi. L’idea è di costruire un archivio di testimonianze, saperi e visioni che ci consenta di mettere in una prospettiva storica il difficile lavoro di tutela, conservazione e amministrazione di un’istituzione museale.

Incontriamo Giorgio Bonsanti un caldo pomeriggio di settembre a San Marco. Bonsanti non è semplicemente puntuale: arriva sempre almeno un quarto d’ora in anticipo sull’orario convenuto. Ci accomodiamo accanto al finestrone del primo piano, nella calma del museo chiuso, e cominciamo a conversare.

Prof. Bonsanti qual è, secondo lei, la specificità di un museo come San Marco?

La specificità è data da un fatto immediatamente apparente, che la storia di questo edificio e le sue decorazioni si identificano con il museo, con qualche piccola differenziazione. Se c’è un museo di se stesso, questo è il convento di San Marco.

Quali sono i punti di forza del Museo di San Marco?

Il punto di forza credo che derivi dal fatto di aver costruito un’idea più complessa di museo rispetto al solo e semplice contenitore inerte degli affreschi di Beato Angelico. Io arrivai nella soprintendenza di Firenze nel 1979, dopo cinque anni in quella di Modena, dove ero diventato soprintendente reggente ancora durante il periodo di prova, perché come funzionario c’ero soltanto io. Arrivato qui, dopo un mese di “parcheggio” in biblioteca, aspettando che si creassero dei posti di lavoro, l’allora soprintendente Luciano Berti mi affidò il Museo di San Marco e la Galleria dell’Accademia, in prima battuta, lasciati liberi da Luciano Bellosi e, subito dopo, le Cappelle Medicee e l’Ufficio Restauri, lasciati liberi da Paolo Dal Poggetto. Su San Marco io ritenni, questa è stata la finalità che mi ha guidato in nove anni di direzione, che fosse opportuno, proprio per dare un’identità più complessa a questa splendida realtà, di articolare il discorso rispetto al semplice contenitore degli affreschi. Perché il Museo di San Marco faceva parte, a sua volta, di un organismo maggiore che comprendeva la chiesa e il chiostro grande, ma anche la storia di quello che era successo a Firenze, sia durante i secoli a partire dalla metà del Quattrocento, sia e soprattutto dopo l’Unità d’Italia. Perciò, in questa azione tesa a diversificare le realtà museali della città, creando anche entità nuove – penso al Bargello, esemplato sul Victoria and Albert Museum di Londra – bisognava farsi carico dell’enorme patrimonio ecclesiastico derivato dalle secolarizzazioni conventuali. Tutte le opere provenienti da contesti ecclesiastici erano state in buona parte già distribuite, ma in grande quantità erano ancora alla ricerca di una sistemazione. Allora, secondo un principio che mi è sempre sembrato giudizioso e ragionevole, quello della compatibilità, credetti che si potesse integrare l’identità di San Marco facendone una sede dell’arte religiosa del Cinquecento fiorentino.

Cosa intende per principio di “compatibilità”?

Evidentemente queste opere che erano sparse avevano scarsa possibilità di ritornare al loro posto originale di provenienza, altrimenti non si sarebbero trovate qui. Allora, cos’era più compatibile con la loro storia passata? A questo punto precisare una loro identità museale e fare in modo che, nel loro insieme, rispondessero a un’idea, a un progetto che poteva essere discusso ma che fosse comunque riconoscibile. Così nacque la sistemazione del Refettorio Grande, nacque il Giudizio Finale di Fra Bartolomeo nella Sala del Lavabo, nacque poi, attraverso gli spostamenti progressivi del Museo verso Nord, la possibilità di aggiungere nuovi spazi spostando gli ambienti dei custodi nei locali che venivano lasciati liberi dalle persone che abitavano materialmente lì. Quindi ci fu la creazione della Sala di Fra Bartolomeo dove stavano un tempo le cucine, quella del Baldovinetti, la sistemazione del chiostro piccolo della Spesa, dei sotterranei e l’apertura del corridoio che ora serve per l’uscita del museo. Quindi potenziare l’idea di San Marco come soggetto e come emblema delle realtà conventuali fiorentine tra Quattro e Cinquecento.

Quindi quando lei ha assunto la direzione di San Marco, il museo constava del Primo Piano, della Sala con le opere su tavola di Beato Angelico e della Sala Capitolare. La Foresteria, il Refettorio Grande e le sale ad esso contigue erano escluse dal percorso museale.

Esattamente.

È stata un’operazione rivoluzionaria.

Se posso aggiungere una cosa, lo stesso modo di intervenire, negli stessi anni, lo mettevo in atto anche alla Galleria dell’Accademia, dove fu aperto per la prima volta il Primo piano, che era stato più o meno sistemato dalla soprintendenza monumenti qualche anno prima, ma poi era rimasto senza un allestimento. Andava allestito e aperto al pubblico. Come il Salone dell’Ottocento, che era direttamente attiguo e contiguo all’Accademia di Belle Arti. Era una visione di questo genere.

Una visione pionieristica.

Questo non tocca a me dirlo.

Con un’espansione delle superfici.

Certo l’espansione delle superfici ci fu, in modo molto avvertibile. Quando sento dire che alla Galleria dell’Accademia viene aperta al pubblico per la prima volta la Galleria dell’Ottocento mi viene un riso amaro… Ma questo vale anche per le collezioni. Ricordo che all’Accademia esposi per la prima volta la collezione delle icone, oggi agli Uffizi. Insomma, abbiamo avuto la fortuna di svolgere questo mestiere in un momento in cui c’erano, se ne avevamo la visione e la volontà, delle cose importanti da realizzare. E quindi a un certo punto ci siamo buttati.

C’è invece qualcosa che avrebbe voluto fare e che per mancanza di risorse e tempo non è riuscito a realizzare?

Allora, mancanza di tempo quella c’è sempre. D’altra parte se vi dico che in questi primi tre anni avevo San Marco, Galleria dell’Accademia, Cappelle Medicee e Ufficio Restauri, capite bene che il tempo non c’era. La questione dei soldi, invece, se devo essere sincero, io l’ho sempre avvertita meno, perché sono sempre stato convinto che se c’è un buon progetto i soldi si trovano. Mentre non è vero il contrario: se il progetto non c’è i soldi non li trovi. Per cui partire sempre dal progetto. In fondo, i lavori che ho menzionato ora li abbiamo fatti in quegli anni. Anni molto attivi. Quindi concludendo su questo punto, la penuria di finanziamenti l’ho sentita meno. Se si ha un progetto forte in testa, non generico ma, come si dice adesso, cantierabile, i soldi arrivano.

Professore, lei frequenta San Marco come visitatore e come conferenziere, e quindi ha una percezione diacronica del pubblico del Museo. Secondo lei è cambiato nel tempo?

Dovrei sapere qualcosa di più del pubblico di adesso, per rispondere. Ma sostanzialmente non credo, come mia impressione. Cioè, San Marco ha sempre avuto un pubblico selezionato, non un pubblico generalista, non è il pubblico dell’Accademia. È un pubblico che al primo passo che mette in direzione del chiostro, subito dopo la biglietteria, sente la sacralità del luogo. Comportamenti sguaiati, rumorosi del turismo peggiore, mi pare che il Museo ne sia tuttora indenne. Naturalmente bisogna tenere d’occhio le scuole, perché le giovani generazioni cambiano a seconda dei momenti storici, e io non sono sufficientemente al corrente dei comportamenti attuali. Ma sono convinto che questo luogo si fa rispettare da solo.

Secondo lei come si può valorizzare ulteriormente la collezione di San Marco?

Il museo, così com’è, mi sembra sufficientemente completo. Le attività che può svolgere sono senz’altro quelle di divulgazione e, come si dice ora, di valorizzazione, che io non voglio guardare né con diffidenza né dall’alto in basso. Sono cose che vanno fatte e sono il primo a riconoscere che nella mia generazione questa necessità non era abbastanza sentita. Ma erano altri tempi. Credo quindi che si possa lavorare in questa direzione, senza esagerare perché una realtà virtuale non risponderà mai appieno all’impatto e ai contenuti di una “realtà vera”. Sul versante della valorizzazione si potrebbe ad esempio spiegare che il Museo di San Marco non è soltanto il museo dell’Angelico, ma è una realtà conventuale complessa che corrisponde alla storia della città e della religiosità nella città.

Cosa ne pensa dell’uso dei social media per stabilire un dialogo con il pubblico di oggi?

Pensarne bene o male sarebbe come pensare bene o male del fatto che il sole sorge tutte le mattine e poi va a dormire. È così, vogliamo metterlo in dubbio, vogliamo contestarlo? Sono dei mezzi di comunicazione e uno deve usare quelli che sono propri del momento storico in cui si trova a vivere. Quindi sono favorevolissimo. Anche perché, questo è un punto critico, possiamo dimostrare che non servono soltanto a delle fesserie, ma per dire cose serie. Penso, ad esempio, ai post su Facebook dell’archeologo Maurizio Michelucci, recentemente scomparso, quasi delle piccole monografie di carattere archeologico, che oggi la moglie ha raccolto e presto pubblicherà. Quanto allo sterminato mondo di Youtube, confesso di esserne un grande fan. Insomma, il mezzo di per sé non è né buono né cattivo, dipende dall’uso che se ne fa. E l’uso che i nuovi media offrono è esaltante per certi aspetti, e ancora non esplorato fino in fondo.

C’è un’opera della collezione di San Marco che ama particolarmente, un’opera del cuore?

Direi la Madonna delle Ombre, il dipinto murale nel corridoio est del Dormitorio, perché ha delle particolarità di carattere tecnico che non siamo riusciti a spiegare né ci riusciremo mai. A differenza di tutti gli altri dipinti murali di Beato Angelico, sia nelle celle, sia nel chiostro e naturalmente nel Capitolo, non è un pieno affresco. C’è una base in finto marmo eseguita a fresco, dopo di che la Sacra Conversazione sopra è lavorata come se fosse dipinta su tavola, con dei colori che sono quelli tipici non del muro con la sua acidità, ma di un supporto ligneo. Se si guarda bene si vede che ci sono delle parti, come la mano del Bambino Gesù, che sono costruite con puro colore, senza disegno, una cosa di una modernità sconcertante. Si aggiunga che le ombre sono reali, cioè Beato Angelico ha dipinto le ombre proiettate dai capitelli tenendo conto della luce vera che arriva da Piazza San Marco, poi a un certo punto la luce della Piazza di sera va via e le ombre dipinte rimangono. Nella Madonna delle Ombre quello che mi ha sempre meravigliato sono le parti costruite senza disegno, come se Beato Angelico fosse Renoir.

Beato Angelico, Madonna delle Ombre, Corridoio est, Museo di San Marco, Firenze

È sbalorditiva la tenuta, la durevolezza di un “falso affresco” come questo.

I colori sono forti, se sono stati stesi bene. Beato Angelico la tecnica la conosceva. Poi dipende anche dal muro. In questo caso è un muro interno e ha resistito bene. Perché guardate che negli affreschi delle celle interne solfatazioni ce ne erano, e durante la campagna dei restauri è stato necessario l’uso del bario ovunque. Erano anni in cui pubblicazioni scientifiche non ce n’erano, io ne ho parlato in diverse sedi e occasioni.

Ecco, ci racconti meglio questa grande impresa che lei ha diretto, la campagna di restauri del primo piano.

Quello è stato un privilegio che ho avuto nella vita. Quando sono arrivato nel 1979, erano stati restaurati con fondi pubblici tre affreschi delle celle per iniziativa di Luciano Bellosi, allora direttore del Museo. All’inizio della mia direzione, una studiosa tedesca che abitava a Firenze e che conoscevo direttamente, Hanna Kiel, della cerchia di Bernard Berenson, sua traduttrice in tedesco, frequentatrice di Villa ai Tatti, fece da tramite con il barone Hans Heinrich von Thyssen, convincendolo a finanziare il restauro di tutti gli affreschi delle celle. Il barone è venuto tre o quattro volte durante i lavori, sempre in maniera discreta, con la sua ultima moglie Carmen Cervera, ex Miss Spagna, che poi si è molto adoperata per il Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid. Finimmo il restauro nel 1983, con un’inaugurazione a cui partecipò anche mio padre Alessandro, allora sindaco di Firenze. Esecutore e ispiratore del restauro fu il grande Dino Dini. Ricordo che ebbe un momento molto difficile da un punto di vista personale, e io temevo fortemente che non si sarebbe ripreso e non l’avremmo più rivisto. Invece una mattina l’ho visto ricomparire, ci siamo abbracciati e il lavoro è ricominciato fino alla sua conclusione.

Quale artista della collezione, a parte Beato Angelico, meriterebbe di essere maggiormente valorizzato?

Ci sono due cose importanti di Fra Bartolomeo, una è la Pala della Signoria, rimasta allo stato di abbozzo, la quale per uno studioso è quasi più interessante così che se l’avesse finita; e poi l’affresco del Giudizio Finale, un antico strappo, montato poi su un supporto di gesso al cui interno era annegata una rete da pollaio che si era completamente arrugginita, per cui si decise di arrivare a un ulteriore trasferimento su un nuovo supporto. Con queste due opere e con la serie delle “tegole” provenienti dal Convento michelozziano della Maddalena alle Caldine, e il restauro delle lunette del corridoio della Foresteria, l’altro grande domenicano artista di San Marco è sicuramente Fra Bartolomeo.

Se le proponessero di tornare a dirigere il Museo di San Marco e le dessero da gestire un budget di 1 milione di euro, a quali interventi si dedicherebbe?

Per prima cosa metterei a posto la facciata su Via La Pira, che è in condizioni indecenti da tempo immemorabile, per cercare di renderla adeguata a questo straordinario complesso. Con quello che mi avanza ci metterei un bel po’ di telecamere di videosorveglianza. E comunque mi occuperei soprattutto dell’architettura, che spesso passa in secondo piano.

Giorgio Bonsanti

Bibliografia essenziale di Giorgio Bonsanti

Giorgio Bonsanti, Firenze, l’Angelico al Convento di S. Marco, De Agostini, Novara 1982

Giorgio Bonsanti, Preliminari per l’Angelico restaurato, in “Arte Cristiana”, LXXI, 1983, pp. 25-34

Giorgio Bonsanti, Firenze. Il Museo di San Marco, Federico Garolla Editore, Milano 1985

Dino Dini, Giorgio Bonsanti, Fra Angelico e gli affreschi nel Convento di S. Marco (ca. 1441-50). Discussione , in Tecnica e Stile: esempi di pittura murale del Rinascimento italiano, vol. I, Silvana Editoriale, Milano 1986, pp. 17-24

Giorgio Bonsanti, Gli affreschi del Beato Angelico, in AA. VV., La chiesa e il convento di San Marco a Firenze, vol. II, Cassa di Risparmio di Firenze, Firenze 1990, pp. 115-172

Giorgio Bonsanti, Il Cenacolo del Ghirlandaio, in AA. VV., La chiesa e il convento di San Marco a Firenze, vol. II, Firenze 1990, pp. 173-177

Giorgio Bonsanti, Beato Angelico. Catalogo completo, Octavo Franco Cantini Editore, Firenze 1998

Giorgio Bonsanti, L’Annunciazione di Hildesheim e l’ultima attività di Fra Angelico, in Angelicus pictor. Ricerche e interpretazioni sul Beato Angelico, a cura di Alessandro Zuccari, Skira, Milano 2008, pp. 49-65

Giorgio Bonsanti, Anomalie del Beato Angelico, in Beato Angelico. L’alba del Rinascimento, a cura di A. Zuccari, G. Morello, G. de Simone, Skira, Milano 2009, pp. 25-32

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