Fra Giovanni da Fiesole fu uno degli astri più luminosi del primo Rinascimento fiorentino, di quella costellazione irripetibile di geni – pittori, scultori, architetti, orafi – emersi negli anni venti e trenta del Quattrocento. L’unicità dell’Angelico, che lo contraddistingue inconfondibilmente pur in una compagnia di talenti straordinari, sta nell’aver operato una sintesi personalissima e originalissima tra l’eredità tardogotica del suo maestro Lorenzo Monaco, di Masolino e Gentile da Fabriano da una parte, e l’avanguardia prospettico-rinascimentale dall’altra (la pittura di Masaccio, l’architettura di Brunelleschi e Michelozzo, la scultura di Donatello): una sorta di parallelo pittorico del percorso scultoreo di Lorenzo Ghiberti, di cui l’Angelico subì a più riprese l’influenza.
Con le sue splendide Annunciazioni, pale d’altare, affreschi – un processo che culmina con le commissioni per il convento di San Marco, la nuova fondazione dei domenicani osservanti –, il pittore conquista una reputazione che sopravanza anche i migliori dei suoi contemporanei (come Filippo Lippi, Paolo Uccello, Domenico Veneziano – Masaccio era ormai morto da tempo) e lo rende apprezzato e ricercato al di là dell’orbita fiorentina e domenicana. A rimanere più di tutti impressionato dalle doti del frate pittore fu il papa Eugenio IV, da anni esiliato a Firenze per la ribellione delle famiglie patrizie romane (in particolare dei Colonna): la notte prima della consacrazione della chiesa di San Marco, il 6 gennaio 1443, il pontefice veneziano pernottò nella cella 39 del convento, quella che il patrocinatore dell’impresa, Cosimo de’ Medici, si era fatto riservare per sé (l’Epifania con Cosimo divenne la festa prediletta dai Medici, i cui esponenti si autocelebravano sotto le spoglie dei Re d’Oriente in adorazione del Bambino).

Quando rientrò a Roma, papa Eugenio chiamò Fra Giovanni da Fiesole a decorare il Palazzo Vaticano. Gli affidò nel 1446 la decorazione della Cappella di San Nicola o del Sacramento, già Cappella Palatina di Niccolò III, dove prima della sua partenza forzata da Roma nel 1434 aveva fatto realizzare a Donatello un magnifico Tabernacolo eucaristico in marmo.

La cappella fu sede del conclave per l’elezione papale dal 1455 fino al 1534, per essere poi distrutta sotto il pontificato di Paolo III Farnese.
Dalle Vite di Giorgio Vasari, che contengono la biografia più dettagliata sul frate pittore, sappiamo che sulle pareti l’Angelico «aveva lavorato in fresco alcune Storie della vita di Gesù Cristo»: nulla purtroppo rimane, tranne forse un pregevole frammento con il Volto di Cristo, oggi conservato nel Museo di Palazzo Venezia a Roma. Per la frontalità e il torso nudo, il Cristo poteva essere parte di un Battesimo o di una Resurrezione.

Un altro frammento scampato alla distruzione, ma oggi disperso, raffigurante «nuestra Señora», fu tenuto per sé dal divino Michelangelo, che ammirava l’arte dell’Angelico. Ce ne informa il pittore e umanista spagnolo Pablo de Céspedes, che soggiornò a Roma tra il 1570 e il 1577; nel Discurso de la comparacion de la antigua y moderna pintura y scultura (1604) scrive:
«Vi en unas costras de un encalado de una capilla en palacio, que por agrandar el edificio se derrocó, un rostro de nuestra Señora al fresco, que se pudo salvar, y otras cosillas, y tanto más lo estimo porque el caballero que lo tenia me dixo, que Miguel Angel se lo habia dado, habiendolo tenido él muchos años, y porque sé que Miguel Angel celébraba sus obras, sobre todo una manera delicadisima».
Una definizione semplice e pregnante dello stile pittorico dell’Angelico. Che il Buonarroti lo apprezzasse è confermato da un contemporaneo del de Céspedes, il domenicano fiorentino Serafino Razzi, a proposito di un’altra opera angelichiana, proprio la “vostra” Annunciazione del Prado, che all’epoca era sull’altare del tramezzo di San Domenico a Fiesole (convento di cui il Razzi fu priore):
«Intanto che l’eccellentissimo Buonarroto, veggendo una volta una Nuntiata di mano di questo buon padre in San Domenico di Fiesole, nell’ultima cappella a man sinistra, hebbe a dire queste parole: “Bisogna che questo sant’huomo la vedesse sì fatta in Paradiso”».

Un altro confratello, stavolta romano, Ambrogio Brandi, nella Cronica manoscritta del convento di S. Maria sopra Minerva specifica che l’ammirazione di Michelangelo era rivolta in particolare al volto della Vergine, e ad un’altra opera, la gremitissima predella della National Gallery di Londra:
«considerando […] un Paradiso di picciole figure ch’era già sopra l’Altare Maggiore di detta Chiesa et oggi in Coro, […] di mano di questo Santo Uomo, disse: “Io credo che questo Frate vada in Cielo a considerar quei volti beati e poi li venga a dipingere qua in terra”».

Tornando alle Storie di Cristo della Cappella del Sacramento in Vaticano, una traccia degli affreschi perduti può cogliersi, come ha proposto Carl Strehlke, nei bellissimi disegni angelichiani su pergamena purpurea oggi divisi tra i musei Boijmans di Rotterdam e Harvard di Cambridge (Massachussetts).
L’insieme in cui questi pregevoli fogli erano riuniti, presumibilmente con altri episodi oggi perduti, è tuttora dibattuto: privi di scritte sul retro, pertanto non ritagliati da un codice, erano forse pertinenti alla parte istoriata di un reliquiario, o di un altarolo, in legno o metallo, una variante più economica di quelli realizzati in metalli preziosi e ornati di smalti o vetri graffiti. Ma è altresì possibile che essi costituissero i disegni di presentazione per la cappella vaticana, e ciò ne spiegherebbe il grado di rifinitura e la pregevolezza del supporto – purpuree erano le Bibbie miniate bizantine, come il Codex Purpureus e la Genesi di Vienna, e gli Evangeliari imperiali carolingi e ottoniani).
Quel che è certo, è che le composizioni di questi fogli presentano analogie molto strette con i pannelli dell’Armadio degli Argenti, costituenti in origine le ante di apertura e chiusura dell’armadio delle reliquie della SS. Annunziata di Firenze. Dipinti tra il 1450 e il 1452 su commissione di Piero de’ Medici, gli sportelli dell’Armadio offrono con la loro ricca serie narrativa (35 scene in totale) un ulteriore termine di paragone per ricostruire idealmente le Storie di Cristo della Cappella del Sacramento.

Un altro splendido disegno su carta preparata che spesso viene accostato al ciclo è la Vocazione di Pietro e Andrea conservata nel Cabinet de dessins del Louvre: il sapiente uso della biacca per le zone investite dalla luce conferisce alle figure un risalto quasi scultoreo.

Vasari aggiunge che negli affreschi l’Angelico avrebbe inserito «molti ritratti di naturale, di persone segnalate di que’ tempi» e li indica come fonte iconografica per la serie, perduta ma nota da copie, di Uomini illustri nella Villa-Museo di Paolo Giovio sul Lago di Como: la magnifica galleria, poi tradotta in libro a stampa nel 1546, avrebbe fornito a Vasari, secondo quanto lui stesso racconta, lo spunto per l’impresa storiografica delle Vite, per compensare la sintesi troppo succinta dedicata agli artisti nell’enciclopedia gioviana.
Tuttavia i personaggi indicati da Vasari (papa Niccolò V, l’imperatore Federico III, l’arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi, l’umanista Biondo Flavio e Ferrante d’Aragona, duca di Calabria ed erede al regno di Napoli), non hanno senso rispetto alla Cappella del Sacramento, decorata durante il precedente pontificato Eugenio IV. È invece possibile che questi ritratti figurassero, con altri, nell’ultima commissione vaticana dell’Angelico, lo Studiolo di Niccolò V (l’ambiente n. 4): nulla sappiamo di quest’opera, se non che i pagamenti al pittore cadono nel 1449, mentre quelli per le finiture si prolungano fino al 1454. La menzione nei documenti di tarsie lignee e dorature (di capitelli, cornici etc.) lascia immaginare un tipico studiolo umanistico, sul genere di quello più tardo di Federico da Montefeltro a Urbino, e forse analogamente ornato di ritratti di personalità illustri.

Se questa allo stato attuale è solo una suggestiva congettura, è invece assai probabile che le Storie di Cristo della Cappella del Sacramento si concludessero con un Giudizio Finale: una delle fonti più antiche, pre-vasariane, l’Anonimo Magliabechiano, ricorda la decorazione della cappella come ‘Paradiso’, una raffigurazione della corte celeste che in genere si accompagnava sempre a quella del Giudizio. L’Angelico aveva già affrontato il tema in più di un’occasione, ad esempio nel trittico oggi a Berlino, opera assai apprezzata dai papi della Controriforma; nei suoi primi anni romani lo raffigura in un trittico, fiancheggiato dall’Ascensione di Cristo e dalla Pentecoste, oggi alla Galleria Corsini di Roma e forse commissionato dal cardinale spagnolo Juan de Torquemada; e su scala monumentale nella Cappella di San Brizio ad Orvieto, dove nell’estate del 1447 realizzò nella volta le due vele con Cristo giudice e angeli e Profeti. L’affresco orvietano fu giudicato alla fine del Settecento da Filippo Della Valle, erudito e storico dell’arte senese che curò un’edizione commentata delle Vite del Vasari (1791), il precedente iconografico del Cristo giudice di Michelangelo, per l’analogo gesto di condanna rivolto ai dannati, dal Buonarroti caricato della sua proverbiale ‘terribilità’.




Il cantiere di Orvieto, come è noto, rimase incompiuto, e fu completato solo mezzo secolo più tardi da Luca Signorelli. Nello scegliere l’Angelico, l’Opera del Duomo si era rivolta a colui che, come recita il documento della commissione, era allora «famosus ultra omnes pictores ytalicos», celebre più di tutti i pittori italiani. Secondo gli accordi, poi non mantenuti negli anni successivi, Fra Giovanni poteva interrompere nei mesi estivi i lavori in Vaticano, evitando la calura romana al fresco delle colline umbre.
La fama del pittore, conquistata con la sua ormai lunga carriera dispiegata a Firenze, Fiesole, Cortona e Perugia, aveva raggiunto il suo acme con gli affreschi per il papa Eugenio IV. Prima di morire, il 23 febbraio 1447, il pontefice veneziano aveva con ogni probabilità già affidato all’Angelico una seconda commissione, relativa «a la chapella di Santo Pietro», vale a dire alla tribuna (il coro) della basilica petrina: da inizio marzo a fine maggio di quell’anno si registrano pagamenti per le «nuove dipinture» nella «chapella di Santo Pietro» al titolare della commissione, «frate Giovanni di Pietro» (che riceve 17 fiorini al mese), al suo ‘consocio’ «Benozzo dipintore» (Benozzo Gozzoli, 7 fiorini al mese), e ai loro assistenti «Giovanni d’Antonio della Checca» (nipote di Fra Giovanni), «Carlo di ser Lazzaro da Narni» e «Giacomo d’Antonio da Poli», «Pietro Jachomo da Forlì, retribuiti con appena 1 o 2 fiorini al mese.
La basilica di San Pietro si presentava – come vediamo nell’incisione del Ferrabosco – ancora nel suo aspetto paleocristiano, risalente alla fondazione costantiniana: nell’abside campeggiava il venerato mosaico con la Traditio legis (Cristo in maestà tra san Pietro e san Paolo), rifatto al tempo di papa Innocenzo III (1198-1216), poi distrutto alla fine del Cinquecento; nella fascia inferiore cinque Storie della vita di Cristo di Giotto, testimoniate da Vasari e dai Commentari di Lorenzo Ghiberti. Le immagini che mostrano l’interno della basilica ancora integro (tra cui un affresco di Angelico stesso e una miniatura di Jean Fouquet) non sono tuttavia sufficientemente dettagliate, ed è impossibile farsi un’idea precisa dell’intervento angelichiano (delle figure di Santi stanti tra i finestroni? un restauro / integrazione degli affreschi di Giotto?).


Fortunatamente conservata nella sua magnificenza è invece la Cappella Niccolina, così chiamata dal papa Niccolò V. Mentre il suo predecessore Eugenio, di formazione teologica e canonistica più tradizionale, era stato uno zelante riformatore degli ordini religiosi, Tommaso Parentucelli era un coltissimo umanista. Ligure (di Sarzana), di lignaggio non nobile, la sua elezione al soglio pontificio il 6 marzo 1447, appena tre mesi dopo la sua nomina a cardinale, fu una vera sorpresa. Non avendo uno stemma di famiglia, Niccolò scelse le chiavi di Pietro, sormontate dalla tiara, divenute simbolo del potere petrino sull’Ecclesia Romana ai tempi di Innocenzo III e Bonifacio VIII. Nella prima metà del Quattrocento era forte la disputa tra i conciliaristi, fautori di una condivisione del governo ecclesiastico tra il pontefice e il sinodo dei vescovi, e i papalisti, che sostenevano il primato del vescovo di Roma. I due fronti si erano aspramente fronteggiati ai Concilii di Basilea (1431) e di Ferrara/Firenze (1438-39). Il più agguerrito teologo filopapale era il cardinale domenicano spagnolo Juan de Torquemada: nel trattato De poenitentia, dedicato a Niccolò V nel 1449, si soffermò sul valore e l’esclusività delle chiavi assegnate al papa in qualità di successore di Pietro e vicario di Cristo.

L’amore per la cultura di Niccolò V lo porto a investire un ingente patrimonio nell’acquisto di codici latini e greci per la costituenda Biblioteca Vaticana, cui destinò una magnifica sala affrescata a finto colonnato; qualche decennio più tardi la fondazione della biblioteca sarà portata a compimento da Sisto IV, evento immortalato nel celebre affresco di Melozzo da Forlì.
Alla decorazione dei manoscritti papali secondo Vasari partecipò anche l’Angelico, cui il papa avrebbe fatto miniare «alcuni libri, che sono bellissimi», anche se per lo più il frate pittore delegò la decorazione dei codici ai suoi assistenti, sia presenti con lui a Roma come Benozzo Gozzoli, sia rimasti a Firenze come Zanobi Strozzi e il Pesellino.



Integralmente angelichiana è invece la paternità ideativa, e in gran parte esecutiva, della Cappella Niccolina. Il programma iconografico celebra i due protomartiri Stefano e Lorenzo, l’uno discepolo diretto dell’apostolo Pietro, l’altro vissuto alla metà del III secolo e martirizzato sotto l’imperatore Decio, dalla loro ordinazione diaconale fino al martirio. Nella volta a crociera campeggiano, come da consuetudine ormai canonica, i quattro Evangelisti, assisi su nubi che si inarcano a suggerire un circulum sovrapposto ai costoloni.

Ciascuno è accompagnato dal suo distintivo attributo iconografico – ad esempio Marco dal leone, Luca dal vitello; quest’ultimo è anche connotato come un ritratto, e sembra alludere sottilmente a san Luca come patrono dei pittori e miniatori (all’Evangelista Luca, che avrebbe ritratto la Vergine, erano dedicate al tempo le confraternite degli artisti).


Negli arconi che sorreggono la volta sulle pareti d’ingresso e d’altare sono raffigurati quattro Padri della Chiesa Latina (Ambrogio, Agostino, Girolamo, Tommaso d’Aquino), due Padri greci (Atanasio e Giovanni Crisostomo) e due papi (Leone e Gregorio Magno), a esprimere un messaggio di unione tra Chiesa romana e Chiesa ortodossa in linea con quanto sancito pochi anni prima al Concilio di Firenze – una riunificazione, come è noto, destinata a vita effimera: dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453 i cristiani d’Oriente non ratificheranno il Decreto dell’Unione.
Sulla parete d’altare era raffigurato, teste il Vasari, un «Deposto di Croce», andato distrutto probabilmente per le infiltrazioni d’acqua dal finestrone soprastante (oggi sostituito da una Lapidazione di santo Stefano di Giorgio Vasari). Una traccia della scena perduta si può però scorgere in un’incisione pubblicata a metà Ottocento (1853) sul periodico «L’Album», illustrante la visita alla cappella di papa Pio VI nel 1821: sulla parete d’altare un’ampia epigrafe commemora il restauro promosso dal pontefice, al di sotto di essa si intravede, dietro i candelieri, il profilo di un nudo virile adagiato al suolo, corrispondente alla posa del Cristo deposto nella tavola dell’Angelico oggi a Washington ma in origine appartenente a Piero de’ Medici.

Il Cristo sull’altare era allo stesso tempo motore e meta del doppio ciclo narrativo sulle pareti: l’ordinazione diaconale era conseguenza di una scelta di fede e di imitatio Christi, imitazione che culminava nel sacrificio della propria vita attraverso il martirio. All’Ordinazione di Stefano, derivante nello schema in primo piano dal ciclo tardo-duecentesco nel portico di San Lorenzo fuori le mura a Roma e aggiornata sulle novità architettoniche brunelleschiane, faceva seguito la Distribuzione di elemosine, espressione della virtù della caritas: lo schema ricalca quello del rito nuziale rappresentato in un sarcofago di età tardo-imperiale, reimpiegato nella tomba del cardinale Fieschi (morto nel 1256) nella stessa basilica del Verano: la celebrazione dell’amore matrimoniale pagano veniva così tradotta in celebrazione della forma suprema dell’amore cristiano. La basilica di San Lorenzo fuori le mura accoglieva le reliquie dei due protomartiri, e il papa la fece restaurare proprio mentre l’Angelico ne affrescava le storie in Vaticano.


La seconda lunetta del ciclo stefaniano, con la Predica e la Disputa nel sinedrio, rappresenta il potere della parola, l’evangelizzazione attraverso la predicazione del Logos, il Verbo di Cristo. L’orchestrazione prospettica, con un gioco studiato di piani primi, medi e lontani, farà scuola su Piero della Francesca, l’erede più alto della pittura angelichiana. Il gruppo delle donne accovacciate in ascolto del diacono è tra quelli più lodati dalla critica, per l’intensa carica umana e sentimentale che le figure trasmettono pur in una composizione così equilibrata, e non sorprende che questa scena sia stata riprodotta nel primo saggio mai dedicato alla Cappella Niccolina, scritto dal tedesco Johan Heinrich Lips nel 1789.

La sequenza conclusiva ci conduce all’apice del dramma: Stefano viene espulso dalla città e lapidato, ma rimane impassibile, inginocchiato in preghiera verso l’altare con il Cristo deposto. Il possente taglio delle mura di Gerusalemme è una citazione delle Mura Aureliane di Roma, sullo sfondo di un ampio e dolcissimo paesaggio collinare, punteggiato di borghi turriti, piuttosto toscano che laziale.

Veniamo alle Storie di Lorenzo: la prima, l’Ordinazione diaconale, è una scena manifesto del pontificato niccolino, con il papa regnante mirabilmente ritratto sotto le spoglie di Sisto II. Grande importanza è data alla liturgia, alle suppellettili di rito (calice, patena, navicella e incensiere), agli officianti: i cardinali dietro il papa, distinti dal colore del piviale secondo i tre ordini episcopale, presbiteriale, diaconale; i diaconi in dalmatica azzurra al centro; gli accoliti in tonacella bianca sulla destra. La chiesa inquadrata in prospettiva allude alla basilica di San Pietro.

La successiva Consegna a Lorenzo dei tesori della Chiesa contiene un altro cripto-ritratto di Niccolò V, che si investe così dell’aura di un papa santo dell’età paleocristiana, ed il probabile autoritratto del pittore che fa timidamente capolino dietro il pontefice.

In perfetto parallelo al ciclo stefaniano, si giunge alla celebrazione della caritas attraverso la Distribuzione di elemosine ai poveri: Lorenzo, la cui dalmatica è punteggiata di auree fiamme di carità, è in asse centrale con l’abside e l’altare, impersonando la Chiesa e la sua missione verso il prossimo. È evidente qui la fonte di ispirazione in Masaccio, i cui affreschi nella cappella Brancacci a Firenze avevano disvelato venti anni prima un inedito realismo congiunto ad un profondo senso morale, intriso di gravitas antica.

La sequenza si chiude con tre episodi in narrazione continua: Lorenzo condotto a giudizio al cospetto di Decio, la Conversione del pagano Lucillo operata dal diacono in carcere grazie alla parola di Cristo, e il Martirio sulla graticola, in parte ridipinto alla fine del Cinquecento.


Gli affreschi della Niccolina segnano un raggiungimento altissimo nel percorso del Beato Angelico, riconosciuto come il suo massimo capolavoro da uno dei primi e più autorevoli commentatori, il francese Seroux d’Agincourt, nell’Histoire de l’art par les monuments (la prima storia dell’arte medievale mai scritta, pubblicata postuma nel 1823, a fascicoli dal 1810):
«L’abilità colla quale questi affreschi sono terminati, è veramente prodigiosa. Nulla di più dolce all’occhio del loro colorito; poche ombre forti, un chiaroscuro armonioso. Da vicino questi affreschi hanno tutte le grazie della miniatura; da lontano esse producono col vigor delle tinte tutto l’effetto di un pennello libero e largo».
Nel rapporto tra figure e architetture, nella combinazione di elementi romani (antichi) e fiorentini (moderni), nel ritmo pausato e solenne, nel supremo controllo formale e cromatico, gli affreschi della cappella riflettono la conoscenza delle teorie sulla compositio e sull’historia formulate da Leon Battista Alberti nel trattato De pictura (1435-36). Il grande architetto e teorico era a Roma in quegli anni, e il suo coinvolgimento nell’impresa della Cappella di Niccolò V è dimostrato anche dal bellissimo pavimento a marmi intarsiati, il cui disegno è perfettamente sovrapponibile a quello albertiano del frontone di S. Maria Novella a Firenze.


Il primo soggiorno del Beato Angelico a Roma si concluse verso la fine del 1449: a maggio del 1450 il pittore risulta priore del suo convento di San Domenico di Fiesole, carica che manterrà per due anni, succedendo al fratello Benedetto. Ancora entro il 1449 si pone l’esecuzione di una grande Madonna col Bambino su tela dipinta per la sede romana del suo ordine, S. Maria sopra Minerva, e probabilmente connessa con il Giubileo del 1450, visto il gesto di benedizione urbi et orbi di Gesù Bambino affacciato alla balaustra dell’edicola. Un’opera di capitale importanza per il rilancio dell’iconografia mariana a Roma nel primo Rinascimento.

Su questa linea si colloca un’altra ‘icona’ venerata come miracolosa contro le malattie, il frammento di affresco chiamato Madonna della febbre, in origine sull’altare della Rotonda di Santa Maria della Febbre, che a inizio Seicento fu inserito nel Tabernacolo donatelliano del Sacramento, seguendone le traslazioni tra le Grotte vaticane e la nuova basilica fino alla sistemazione attuale. Niccolò V promosse lavori all’oratorio della Madonna della Febbre nel 1452 e 1453, finanziati dai fratelli Piero e Giovanni de’ Medici. Per quanto ridipinta in età barocca, la Madonna della Febbre appare assai prossima alle Madonne angelichiane dei primi anni cinquanta, come la Pala di Bosco ai Frati.

Nella primavera del 1452, l’Angelico fu contattato dall’Opera del Sacro Cingolo di Prato per affrescare la cappella maggiore del Duomo: dopo aver effettuato un sopralluogo di persona, il 30 marzo, l’Angelico però declinò l’offerta, malgrado la mediazione di sant’Antonino, e la commissione, come è noto, venne poi affidata a Filippo Lippi. La ragione del rifiuto da parte dell’Angelico può essere messa in relazione con la convocazione a Roma per incarichi più prestigiosi e graditi presso la casa madre dei domenicani, Santa Maria sopra Minerva.
Per l’altare maggiore della basilica il pittore dipinse un’Annunciazione, perduta ma testimoniata da Vasari. Sopravvivono però tre scomparti della predella, individuati alcuni anni fa da Larry Kanter e raffiguranti Storie di san Domenico. Nel primo della serie dominano le architetture, e sul portale in primo piano, simile a quelli progettati in quegli anni a Roma da Bernardo Rossellino, si legge il monogramma NP, Nicolaus Pontifex.



Forte degli ingenti introiti assicurati alle casse vaticane dal Giubileo del 1450, il papa si lanciò in un’ambiziosissima campagna architettonica e urbanistica, coinvolgendo Rossellino e Leon Battista Alberti, volta a ridisegnare il volto della Città Eterna. La morte di Niccolò nel 1455 lasciò in larghissima parte incompiuti i suoi progetti grandiosi (uno dei quali riguardava la riedificazione in forme monumentali della tribuna di San Pietro), che si rivelarono però seminali per i suoi successori sul soglio di Pietro (a partire da Sisto IV e Giulio II) per la nascita della nuova Roma rinascimentale e poi barocca.
La commissione più estesa e impegnativa dell’ultimo Angelico fu la decorazione del chiostro di S. Maria sopra Minerva. Il cardinale Juan de Torquemada, che come Fra Giovanni risiedeva presso il convento domenicano, compose un ciclo di Meditationes per le pareti del chiostro, concepite insieme come testi e come immagini: 34 meditazioni su altrettanti episodi della Genesi e soprattutto della vita di Cristo, dalla Creazione del mondo fino al Giudizio finale, destinate ai confratelli come guida alla preghiera e alla contemplazione. Nel testo il cardinale si rivolge direttamente al lettore – “o anima fidelis “– e lo invita a penetrare il significato più profondo, teologico e spirituale, di ciascun episodio, con lodi ammirate alla bellezza del creato e alla bontà divina dimostrata dal sacrificio di Cristo. Un monaco era effigiato in calce ad ogni scena, come vediamo in altre opere dell’Angelico, nella posa della meditazione e per indicare allo spettatore il testo e l’immagine corrispondente.


Gli affreschi purtroppo sono andati perduti, ma le Meditationes si sono tramandate grazie alle copie manoscritte e a stampa che il cardinale promosse a distanza di alcuni anni. Tra i manoscritti, il più utile per ricostruire l’aspetto delle pitture si conserva alla Biblioteca Vaticana, ed è ornato di disegni acquerellati: il codice Vaticano Latino 973, sottoscritto dall’autore, indicato come «episcopus Sabinensis», vescovo di Sabina, titolo che il cardinale conseguì nel 1463. I quattro incunaboli più antichi, datati 1467, costituiscono il più antico libro illustrato stampato in Italia, opera del tipografo tedesco Ulrich Han. Il solo esemplare di Norimberga presenta delle xilografie colorate a mano dopo la stampa.


Il chiostro della Minerva era affrescato in terra verde, come molti chiostri monastici del tempo, a partire dal più celebre di tutti il Chiostro Verde di S. Maria Novella, i cui affreschi più noti si devono a Paolo Uccello. Il colore verde era considerato fin dall’antichità idoneo alla lettura e alla contemplazione, infatti fu usato anche per intonacare le più antiche biblioteche umanistiche, come quella di San Marco a Firenze e la Malatestiana di Cesena.
I disegni del manoscritto vaticano sono chiaramente opera di un autore centro-italiano, aggiornato sulle novità del primo Rinascimento toscano. Le xilografie dei primi incunaboli hanno invece un tratto più rozzo e marcatamente nordico, furono infatti intagliate dallo stesso stampatore, Ulrich Han. Tuttavia sia i disegni che le xilografie derivano in larga misura dagli affreschi perduti, e forniscono indizi preziosi per ricostruirli. Confrontando infatti una per una le singole scene con opere dell’Angelico, specie della sua tarda attività, le corrispondenze sono tante e tali da non lasciare dubbi sulla comune paternità: a cominciare dal soggetto angelichiano per eccellenza, l’Annunciazione, confrontabile con la versione affrescata nel convento di San Marco; e poi la Natività, accostabile all’Armadio degli Argenti; la Circoncisione, con riprese letterali dall’Armadio e dalla Cappella Niccolina; l’Adorazione di Magi , simile all’affresco di San Marco; nella xilografia una figura deriva dalla Niccolina; la Fuga in Egitto; la xilografia della Disputa tra i dottori si presta a rimandi multipli, dalla composizione nel suo insieme, alla nicchia albertiana come nella Pala di Bosco ai Frati, a singole figure come il personaggio inturbantato; la Tentazione di Cristo come nell’affresco di San Marco; la Trasfigurazione, come nell’affresco di San Marco; la Lavanda dei piedi come nell’Armadio Argenti; l’Ultima cena come nell’Armadio Argenti; la Cattura di Cristo come nell’affresco di San Marco e il soldato nella predella della pala di San Marco e nella Cappella Niccolina; Cristo davanti a Pilato, con riprese di singole figure dagli affreschi di San Marco e della Niccolina; Discesa di Cristo nel Limbo, come nell’affresco di San Marco; Ascensione di Cristo, come nell’Armadio Argenti e scomparto del Trittico Corsini; Pentecoste, idem; Cristo in gloria tra i santi come nel Giudizio Corsini.






Il Torquemada riservò una scena a sé stesso inginocchiato ai piedi di San Sisto, in omaggio al suo santo titolare (il titolo di San Sisto Vecchio era tradizionalmente riservato a un cardinale domenicano).

Il realismo del suo profilo avrebbe ispirato alcuni decenni più tardi Antoniazzo Romano nell’Annunciazione con le fanciulle povere che omaggia a 32 anni dalla morte il cardinale in quanto fondatore presso S. Maria sopra Minerva della confraternita dell’Annunziata, preposta a fornire di dote le giovani indigenti. Che la lezione di pittura sacra dell’Angelico trovasse in Antoniazzo un suo erede peculiare, per il tramite fondamentale di prelati iberici, è dimostrato anche dalla ripresa di uno degli affreschi del chiostro della Minerva nel ciclo dipinto dal pittore romano a Tivoli negli anni Ottanta del Quattrocento.

L’Angelico ritrasse il Torquemada in uno dei rari capolavori superstiti della sua fase tarda, la Crocifissione cuspidata oggi conservata al Fogg Museum di Cambridge (Massachussetts). Le figure allungate e patetiche sono tipiche di questa fase estrema. In origine il trittico era ad ante, una delle quali tuttora conservata, con la raffigurazione di San Sisto papa e sul retro lo stemma del committente, una ‘torre quemada’. Un inventario di inizio Seicento ci informa che sull’anta oggi mancante era effigiato San Domenico e che il trittico era di pertinenza della basilica di Santa Maria in Trastevere, il cui titulus il Torquemada ottenne nel 1446.


Gemella della Crocifissione Fogg era un’altra purtroppo nota solo in foto, con la Vergine, san Nicola e santa Brigida: il cardinale spagnolo aveva proclamato ufficialmente la legittimità delle Rivelazioni della mistica svedese al Concilio di Basilea nel 1435, ed è presumibile che lui stesso avesse chiesto di ritrarla in questa tavola.

Fra Giovanni da Fiesole morì il 18 febbraio 1455, e fu sepolto in una tomba monumentale in Santa Maria sopra Minerva.

L’onore di un sepolcro marmoreo era eccezionale all’epoca per un artista, riservato in precedenza all’alfiere del Gotico internazionale, Gentile da Fabriano – la sua lastra tombale, perduta, era in S. Maria Nova al Foro Romano –, e al padre del Rinascimento, Filippo Brunelleschi – il cui cenotafio tutt’oggi si ammira nella Cattedrale di Firenze. Alterata nei secoli, la tomba dell’Angelico era accompagnata da due epitaffi composti dall’umanista Lorenzo Valla, per volere di Niccolò V: nel primo il pittore parla in prima persona rivendicando la totale dedizione a Cristo e al suo prossimo (cui ha destinato tutti i propri guadagni), ma al contempo si equipara con malcelato orgoglio al mitico pittore greco Apelle:
Non mihi sit laudi quod eram velut alter Apelles
Sed quod lucra tuis omnia Christe dabam
Altera nam terris opera extant altera coelo
Urbs me Joannem Flos tulit Etruriae
L’altra epigrafe celebrava il «vero servo di Dio» e il «maestro nel dipingere a cui nessuno era pari nell’arte sua», «gloria e specchio e decoro dei pittori», pianto sia dalla patria fiorentina che dai confratelli:
Gloria pictorum speculumque decusque Ioannes
Vir Florentinus clauditur hocce loco.
Religiosus era frater sacri ordinis almi
Dominici ac verus servulus ipse Dei.
Discipuli plorent tanto doctore carentes.
Penelli similem quis reperire queat?
Patria et ordo fleant summum periisse magistrum
Pingendi cui par non erat arte sua.
Addirittura il defunto è definito «tanto doctore», elevandolo al rango del Doctor Angelicus Tommaso d’Aquino, il sommo teologo domenicano da cui Fra Giovanni avrebbe ereditato l’appellativo di «Angelicus»: a indicare la santità di vita e la statura di pittore-teologo destinato ad essere proclamato ufficialmente “Beato” (1982) e “Patrono degli artisti” (1984).
Gerardo de Simone
Questo contributo è stato presentato in forma di conferenza il 18 febbraio 2022 nella Basilica di San Marco a Firenze in occasione della Festa di Beato Angelico. L’evento è stato organizzato dal Museo di San Marco di concerto con la comunità dei padri domenicani di Santa Maria Novella e San Marco.
Gerardo de Simone (Castellammare di Stabia, 1974) ha conseguito laurea, specializzazione e dottorato di ricerca in Storia dell’Arte presso l’Università di Pisa. Borsista del Kunsthistorisches Institut di Firenze e di Villa I Tatti – The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies, ha fondato e dirige la rivista semestrale di arti visive e beni culturali “Predella”.
Curatore di diverse mostre (tra cui Beato Angelico. L’alba del Rinascimento, nel 2009 e Benozzo Gozzoli a San Gimignano, nel 2016), è autore di numerosi contributi scientifici su riviste italiane e internazionali, cataloghi di mostre, atti di convegni. Tra gli ultimi suoi lavori si segnala l’ampia monografia Il Beato Angelico a Roma 1445-1455, Olschki, 2017.
Attualmente insegna Storia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara.