Se Manfredo Fanfani era anche un appassionato di Arte e Giorgio La Pira gli augurava che tutti i suoi malati potessero trovare «nell’ossigeno di pace e bellezza che respiravano «la medicina per guarire», non stupisce la vicinanza fisica e spirituale di entrambi al Museo di San Marco.
In una delle tante sale d’attesa dell’Istituto Fanfani, centro diagnostico fiorentino nato nel 1954 in Via della Pergola e poi trasferitosi dal 1964 in Piazza Indipendenza a Firenze, sono incorniciate, tra i dipinti di grandi pittori del XIX e XX secolo, alcune copertine di pubblicazioni del prof. Manfredo Fanfani.
Particolari di diverse opere angelichiane occhieggiano così, completamente inaspettate, in un contesto quanto meno inconsueto.
Le avevo notate per caso, parecchi mesi fa.
Il particolare momento storico che viviamo accende la curiosità verso una lettura specialistica diversa da quella degli storici dell’arte, e ci avvicina al mondo della medicina. Ma è anche vero che la medicina, attraverso le guarigioni miracolose, è sempre stata vicina all’arte, nei secoli. A tal proposito si rimanda alla mostra virtuale delle Gallerie degli Uffizi: Guarigioni miracolose.
L’area giochi di Piazza Indipendenza è stata riaperta da poco, dopo i lunghi mesi di lockdown. Passo accanto alle persone in attesa di fare i test sierologici all’esterno dell’Istituto, mi presento all’addetto che filtra gli ingressi, mi viene presa la temperatura, mi disinfetto le mani e vado incontro, nell’atrio, alla giovane dott.ssa Fanfani che mi fa accomodare in una saletta al piano terra, mentre va a prendermi le pubblicazioni del nonno, fondatore dell’Istituto.
Tra i magnifici quadri dell’atrio spicca, incorniciata, una lettera inviata al prof. Fanfani nel 1967 da Giorgio La Pira. Colpisce particolarmente l’ultima frase: «Possano i suoi malati, nell’ossigeno di pace e di bellezza che respirano, trovare la medicina che guarisce».
Impossibile non pensare alla pace e alla bellezza del vicino Museo di San Marco.
Tutto torna. Il cerchio perfetto si chiude.
Così, sulle tracce dell’Angelico, inizia questa ricerca che offre la possibilità di ricordare Manfredo Fanfani, scomparso a 98 anni nel febbraio del 2020. E ci appare la figura prismatica di un umanista medico proiettato nel futuro, che porta a Firenze le tecniche più innovative della diagnostica per immagini, raffinato collezionista e conoscitore di arte del XX secolo. Ce lo immaginiamo entusiasta amante delle burle, come il pievano Arlotto sepolto nel vicino oratorio di Gesù Pellegrino di Via San Gallo, tanto da far girare all’amico Mario Monicelli alcune scene di Amici miei, con il personaggio del professor dottor Sassaroli, nel proprio studio.


Meno noto il suo vivo interesse per la storia. La storia di Firenze, della medicina, e anche della pittura; in particolare dell’iconografia, con le mille letture che essa ci permette di elaborare della vita quotidiana e della scala di valori di altre epoche.
Nelle sue pubblicazioni non c’è bibliografia. Ci paiono quasi un divertissement di un uomo colto che si concede immersioni in campi che non sono i propri, con la passione autentica e la spensieratezza di chi guarda e ama mostrare i dipinti da prospettive nuove e insolite, e si gode il lusso di offrire, a chi lo legge, informazioni, interpretazioni e spunti di riflessione su dettagli che magari all’osservatore comune e perfino allo storico dell’arte sfuggono o non sono facilmente noti.
Fanfani, analizzando le figure dei due Santi medici e medicei Cosma e Damiano ci offre uno sguardo interessante sugli attributi iconografici che li contraddistinguono. Oltre alla palma del martirio, i due Santi si riconoscono per la scatola dorata contenente i medicamenti che uno dei due tiene in mano, e per l’uguale abbigliamento con cui vengono sempre rappresentati i due guaritori gemelli. Fanfani si sofferma in special modo sul particolare delle aureole poste al di sopra dei cappelli, a significare una sorta di santificazione della loro professione. I cappelli, infatti, completavano l’abito tipico dei dottori, composti da tuniche o mantelli rossi foderati di vaio, come lo erano gli stessi cappelli, e calzari anch’essi rossi. In Una storia di aureole e di cappelli. Quando l’abito non faceva il monaco ma, per il suo valore simbolico, faceva il medico (2009), il Professore, evidenzia come l’abito del medico servisse ad identificarne subito lo status di massimo prestigio sociale.

Attraverso la lente del clinico, anche particolari minimi, rappresentati dall’Angelico con la consueta cura al dettaglio e la maestria del pittore miniatore, trovano dignità di descrizione puntuale, in nome e funzione.
Così nella prima scena della predella della Pala Medici (comunemente conosciuta come Pala di Annalena), Fanfani osserva che «sul fianco destro di Damiano, soffermatosi con Palladia che lo trattiene per il mantello, aprendolo, compare la borsa finemente lavorata per gli strumenti chirurgici, a sottolineare che la chirurgia e la terapia farmacologica sono due arti gemelle come gemelli sono i due Santi.» (Cosma e Damiano. Due medici Santi nella storia della medicina e della città di Firenze, la luminosa immagine immortalata dal Beato Angelico, 2011).


Nella Guarigione del diacono Giustiniano, Fanfani ci fa notare che «sul lato del capoletto è appesa la “matula”, contenitore in vimini del recipiente di vetro con le urine da fare visionare al medico», e ne sottolinea l’importanza che già anticamente si attribuiva a tale indagine diagnostica.
Dello stesso dipinto Fanfani riporta un’interpretazione medica alternativa a quella agiografica derivante dalla Legenda Aurea, e che potrebbe essere anzi all’origine dell’episodio narrato da Jacopo da Varagine.
Così lo leggiamo nella traduzione di Cecilia Lisi dal latino:
Papa Felice fece costruire a Roma una grande chiesa in onore dei Santi Cosma e Damiano. Il guardiano di questa chiesa aveva una gamba tutta rosa da un terribile cancro. Ma ecco una notte gli apparvero i due Santi con unguenti e un coltello in mano. Disse uno: «Donde possiamo trovare una gamba sana da applicare al posto di questa putrida carne?». Rispose l’altro: «Nel cimitero di San Pietro in Vincoli oggi è stato sepolto un etiope. Prendiamogli una gamba e mettiamola al nostro devoto». I Santi andarono al cimitero, tagliarono la gamba e la misero al posto della gamba malata e portarono questa nella tomba dell’etiope. Il guardiano subito dopo si svegliò, si toccò la gamba senza sentire alcun male. Per veder meglio, si avvicinò alla coscia una candela e con grande sua meraviglia, si accorse di essere perfettamente guarito. Onde balzò dal letto e corse a raccontare a tutti in che modo era stato risanato. Una gran folla si recò allora ad aprire la tomba dell’etiope e vide che una gamba gli era stata tagliata e al suo posto vi era la gamba del guardiano. (Jacopo da Varagine, La leggenda Aurea, Libreria editrice fiorentina, 2013).
Ed ecco il medico: «Si potrebbe avanzare la verosimile ipotesi che il diacono fosse affetto da una grave infezione cutanea (erispela) che, se pur raramente, guariva con esito in iperpigmentazione bruna, che un detto popolare definiva come “arto di nero”».

Con la nonchalance del vero erudito e la terminologia dell’uomo pratico, che gli permette di mescolare i piani tra la prassi medica e l’impasto denso e misterioso di mito e leggenda, cultura classica pagana e cristianesimo, Fanfani accenna alla possibile sovrapposizione dell’aneddotica miracolistica delle guarigione attuata dai Santi Cosma e Damiano a quelle mitologiche che avvenivano anche nel sonno, quando i malati passavano le notti negli asclepeion, templi dedicati ad Asclepio, dio della medicina, dove i sogni dei malati giocavano un ruolo fondamentale per la loro guarigione.
Un aneddoto di cinquantanni fa, incredibilmente di triste attualità, ci fa vedere il professor Manfredo che discorre, nel Museo di San Marco, davanti al Miracolo del diacono Giustiniano con Christiaan Barnard, chirurgo e accademico sudafricano, famoso per aver praticato il primo trapianto di cuore.
Colpisce pensare che il dipinto sollecitasse i due medici a ragionare sul variare del concetto di uguaglianza tra gli uomini nei secoli. Ed è suggestivo scoprire che Barnard, in sala operatoria, lavorasse coadiuvato dal fratello.
«Nel 1969 circa, un anno dopo il primo trapianto di cuore, incontrai Christiaan Barnard a Firenze. Mi parlò delle difficoltà subentrate per il suo intervento; era deceduto in un incidente stradale un uomo di colore. L’équipe chirurgica era già pronta in sala operatoria, però motivazioni di opportunità sconsigliarono il trapianto di un uomo nero su un bianco. Si dovette attender il decesso di una giovane donna, alcune settimane dopo. Illustrai a Barnard le immagini del trapianto della gamba di un nero su un bianco del Beato Angelico. Ne rimase colpito, ne convenne che l’immagine sottolineava più elementi di uguaglianza che di differenza tra uomini di diverso colore. Inoltre si trattò di un intervento che non aveva avuto quei problemi di rigetto che complicarono notevolmente i primi trapianti!». (Impianti e reimpianti. Un sogno prediletto dell’uomo vissuto nell’immaginario degli artisti, 2010).

E ancora ne La guarigione di Palladia, la scena della predella della Pala di San Marco conservata alla National Gallery of Art di Washington DC, Fanfani, attraverso il filtro della propria professione, vede «la nascita del medico di famiglia», per la ragione che «i medici non prescrivevano i farmaci ma offrivano personalmente all’ammalata il bicchiere con la pozione medicinale, la prova che la medicina nascesse come “medicina di relazione”, caratteristica che si perderà in gran parte con la specialistica di organo e con quella tecnologica.» (L’arte un mezzo mediatico che ha scandito i tempi della medicina, 2010).


Relazione, medicina, cura, parole chiave in questo difficile momento di convivenza con il virus; pace e bellezza, chiave di volta per ogni salute.
Silvia Andalò
Bello il blog e molto interessante, oltre che originale, questo contributo di Silvia Andalò
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Grazie, ci fa molto piacere!Inviato da smartphone Samsung Galaxy.
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