Fino al 30 aprile, presso il Complesso museale di San Francesco a Montefalco (Perugia) sarà ancora possibile vedere in mostra nel luogo d’origine, prima che ritorni nella Pinacoteca Vaticana, la splendida pala d’altare di Benozzo Gozzoli raffigurante la Madonna della cintola, appena restaurata. Il dipinto, un’esplosione d’oro e colori, fu eseguito nel 1450 per il convento di San Fortunato a Montefalco, assieme ad una serie di affreschi, oggi frammentari. Il ciclo di San Fortunato rappresenta la prima vera prova di Benozzo da protagonista, come “maestro dipintore” indipendente da Beato Angelico. Il risultato, per autonomia d’invenzione, eleganza stilistica e solidità compositiva, è assolutamente sorprendente.
Benozzo e l’Angelico
Il primo periodo di attività artistica di Benozzo di Lese della famiglia dei Gozzoli, nato quasi di sicuro a Firenze nel 1421, è strettamente legato al rapporto di collaborazione con Beato Angelico, di oltre venti anni più anziano e ormai maestro affermato. Del frate pittore, se non “discepolo” in senso stretto (come riteneva Vasari), Benozzo fu sicuramente il più importante assistente, collaboratore e infine socio di bottega, secondo una prassi di lungo tirocinio in cui si alternavano lavori in autonomia e attività in comune. E che il Gozzoli godesse di una precoce indipendenza lo dimostra la prima commissione documentata, nel 1439, a soli 18 anni, e, dal 1445, la collaborazione con il Ghiberti per la Porta del Paradiso, fra l’altro ben retribuita. Ciò non toglie che Beato Angelico, soprattutto in relazione alla tecnica dell’affresco, debba essere ritenuto, fuor d’ogni dubbio, il punto di riferimento per la maturazione artistica del giovane Benozzo, che partecipa, con un’autonomia che cresce progressivamente, ai più importanti cantieri angelichiani. A Firenze, negli affreschi del dormitorio del convento di San Marco (1438-44). A Roma, nei grandi cicli pittorici promossi dai papi Eugenio IV e soprattutto Niccolò V, di cui è rimasta solo la Cappella Niccolina in Vaticano (1447-49). A Orvieto, nella decorazione della volta della cappella Nuova (poi detta di San Brizio) in duomo, dove Benozzo risulta già “consocio” dell’Angelico, anche se con compensi inferiori (1447). Quando, nel 1449, Beato Angelico è richiamato nel convento di Fiesole, per poi diventarne priore dopo la morte del fratello Benedetto, Benozzo rimane in Umbria, assieme agli aiuti di bottega, fra cui, probabilmente, Giovanni di Antonio della Checca, nipote dello stesso Angelico. Per Benozzo, è giunto il momento di mettersi in proprio.

Artista autonomo in Umbria
L’Annunciazione del Museo Eroli di Narni (1449-50), di probabile provenienza domenicana, è la tavola dipinta con cui Benozzo inaugura, di fatto, la propria carriera di pittore autonomo. E l’artista, che ne è pienamente consapevole, afferma orgogliosamente la propria identità firmando il dipinto: “OPUS BENOTI DE FLORENTIA”. Una firma importante, per niente usuale all’epoca. Benozzo sa di avere lavorato bene nel cantiere di Orvieto e di godere già di buona fama in terra umbra. Quanto allo stile, sia l’Annunciazione di Narni sia il coevo Angelo annunciante affrescato a Foligno, anch’esso di ambito domenicano, rivelano un’impostazione molto vicina ai modi dell’Angelico, ma con un’eleganza e un’attenzione ai dettagli che sono proprie di Benozzo.
I rapporti con l’ordine francescano (si pensi alla Testa di Cristo coronato di spine, a lui attribuita, per la Basilica di Assisi) fanno sì che il Gozzoli venga in contatto con i conventi di Montefalco, prima quello “osservante” di San Fortunato (1450) e poi quello dei “conventuali” di San Francesco (1452). Se il vasto ciclo di affreschi in San Francesco, sia nel coro sia nella cappella di San Girolamo, rappresenta la consacrazione di Benozzo come maestro indipendente, ormai affermato nello scenario artistico del Centro Italia, i dipinti in San Fortunato, meno conosciuti e più lacunosi, costituiscono la sua prima vera impresa di rilievo.
Alle origini del ciclo
Fortunato è il santo sacerdote di IV secolo che, secondo la tradizione, evangelizzò Montefalco. Presso la sua tomba venne costruita una chiesa di V secolo, più volte rimaneggiata, che nel Medio Evo fu un’importante pieve rurale. Accanto alla chiesa sorgeva una rocca fortificata, sede del potere civile, distrutta dalla rabbia popolare nel 1439, alla caduta della signoria dei Trinci di Foligno. Nel 1444, Frate Antonio di Ser Giacomo da Montefalco, vicario provinciale e poi generale dell’Osservanza, ottenne dal papa Eugenio IV il permesso di costruire un nuovo convento francescano sulle rovine dell’antica pieve e della rocca. I lavori, grazie al sostegno di papa Niccolò V, erano quasi del tutto completati alla fine degli anni ’40. È a questo punto, siamo nel 1450, che frate Antonio affida l’incarico al Gozzoli. Non è inverosimile supporre che tale scelta fosse suggerita da papa Niccolò V, sostenitore dell’Osservanza e protettore del nuovo convento, che aveva ben conosciuto l’abilità di Benozzo nei cantieri angelichiani in Vaticano e, forse anche prima, nel convento di San Marco a Firenze. Ma non si può neppure escludere che sia stato lo stesso Beato Angelico a segnalare il suo migliore collaboratore. Secondo Diane Cole Ahl, infine, Benozzo può essere stato scelto perché aveva già conosciuto Frate Antonio qualche tempo prima, quando dipingeva a Roma, in Santa Maria Aracoeli, sede dell’Osservanza.

Antico santuario
Fu probabilmente lo stesso Frate Antonio, personalità di profonda cultura umanistica francescana, a presentare a Benozzo il programma iconografico del ciclo, ispirato ai princìpi dell’Osservanza, ma anche teso a celebrare i patroni di Montefalco. A nostro parere, non è stato sottolineato a sufficienza il profondo significato di San Fortunato come “luogo sacro”. A partire dal racconto agiografico: sacerdote, eremita e contadino, Fortunato si dedicava a preghiere e penitenze, predicazione, carità verso i più poveri e lavoro nei campi. Un modello assolutamente in sintonia non solo con la società rurale di Montefalco, ma anche con lo spirito di semplicità evangelica dell’Osservanza. Secondo la leggenda, qualche anno dopo la morte, agli inizi del V secolo, il “magister militum” Severo, per grazia ricevuta, fece costruire la chiesa primitiva, dove venne traslato il corpo del santo. Anche Severo, al pari di Fortunato, divenne oggetto di devozione popolare. Le tombe dei due santi costituivano, non lontano dal centro abitato, un santuario del primo cristianesimo umbro, a cui, certo non a caso, i francescani dell’Osservanza vollero ricollegarsi in nome della “renovatio”, una riforma che si proponeva di ritornare allo spirito evangelico delle origini seguendo l’esempio radicale di Francesco d’Assisi. A quest’aura di cristianesimo primitivo contribuivano inoltre alcune vestigia tardo-antiche, ancora oggi visibili: eremitaggi e luoghi di culto paleocristiani, forse su preesistenze pagane (le cosiddette “grotte” di San Fortunato, poco distanti dal convento); colonne tardoromane riutilizzate nel portico quattrocentesco di ingresso alla chiesa; epigrafi latine, materiale lapideo e due sarcofagi tardo-antichi, ritenuti le sepolture dei due santi patroni. Cristianesimo delle origini, funzione di “santuario”, richiamo alla classicità tardo-antica, princìpi di riforma dell’Osservanza e diffusione della cultura umanistica (il convento aveva un’importante biblioteca). Sono tutti elementi di cui Benozzo dovette tenere conto.
Il ciclo come percorso spirituale. La porta
È probabile che Frate Antonio da Montefalco abbia concepito un vero e proprio percorso spirituale, condiviso e tradotto in pittura da Benozzo, dove si fondevano le devozioni per la Vergine Maria, per i “padri” dell’Ordine francescano e, con un legame strettissimo al luogo, per i santi patroni Fortunato e Severo.
È suggestivo pensare che tale percorso cominciasse addirittura fuori dalla chiesa conventuale, da un tabernacolo affrescato, oggi perduto, ma ancora visibile alla fine del 1800, sulla strada presso il bivio per San Fortunato. Raffigurava una Madonna in trono col Bambino, fra angeli e santi, tra cui Bernardino da Siena, “padre” dell’Osservanza, canonizzato nel 1450 (in pieno Giubileo), che predicò anche a Montefalco (celebre la predicazione “pacificatrice” del 1425). Giunti al convento, un cortile porticato conduce alla chiesa, il cui unico portale è sormontato da una lunetta affrescata, sicuramente di Benozzo: Madonna col Bambino, due angeli e i Santi Francesco e Bernardino in preghiera. Sopra la lunetta, un gruppo fiabesco di Sette angeli in preghiera.
L’effetto è di delicata semplicità, sinceramente spirituale, sospesa fra la rappresentazione terrena, assolutamente umana e umanistica (le tre figure principali si proiettano plasticamente nel nostro spazio), e la visione ascetica fuori dal tempo, sottolineata dai due angeli a monocromo in secondo piano e dalla “corona” angelica in alto. Il gruppo degli angeli sarà richiamato, all’interno della chiesa, dalla “mandorla angelica” della Madonna della cintola sull’altare maggiore (l’arcangelo con le mani giunte, posto al centro e al di sopra della Vergine in entrambi i dipinti, sembra essere la stessa figura). Da un punto di vista iconografico, Benozzo, seguendo l’Angelico, rispetta il “canone” della tradizione, con Maria che sta alla destra di Gesù. Sul “canone angelichiano”, si veda la nostra pagina su questo blog.
In chiesa: Madonna in trono col Bambino
All’interno della chiesa, sulla parete destra, recuperati a stento sotto le scialbature e le alterazioni dei secoli successivi, due affreschi frammentari del ciclo di Benozzo, bellissimi. Si tratta di una Madonna in trono col Bambino e di un San Fortunato, affiancati in parete, al centro della navata riservata ai fedeli, distinta dal coro dei frati. Si può supporre la presenza di due altari o tabernacoli (quello dedicato a San Fortunato, probabilmente, entro una nicchia). Di certo, la funzione primaria degli affreschi era cultuale. Il santuario di San Fortunato offriva ai fedeli e pellegrini un altare dedicato alla Vergine e, accanto, quello del santo patrono.
Il primo affresco che si incontra è la Madonna in trono in adorazione del Bambino e un angelo musicante.
Nonostante la perdita della parte a destra della Vergine (con un probabile secondo angelo musicante), il dipinto è sorprendente per maturità e sicurezza espressiva. Benozzo, partendo dall’ Angelico “romano”, compie una scelta marcatamente classicista. Che non è solo nell’impostazione delle architetture, nel rilievo plastico delle figure e nella precisione di luci ed ombre, ma anche nei dettagli, nelle modanature, nei fregi e nei marmi, con un’attenzione quasi filologica. Si veda, ad esempio, la nicchia marmorea “a valva di conchiglia”, fortemente chiaroscurata, del trono di Maria, incorniciata da elementi e specchiature di marmi bianchi e colorati. Oppure, si osservi l’elaborata cornice a palmette che chiude, in alto, il muro divisorio dietro l’angelo. O, ancora, si consideri il fregio rettangolare che incornicia tutta l’immagine: una ghirlanda di foglie verdi, girali dalle tinte cangianti, “testine” umanistiche in finto rilievo entro nicchie circolari scanalate. Infine, sulla base della parasta dell’edicola dove siede la Vergine, si guardi l’epigrafe “classica” in capitale quadrata, parzialmente nascosta dal cuscino, con firma e data: (opus) BENOZII (de) FLORE(n)TIA (M)CCCCL, la seconda autografia di Benozzo, dopo l’Annunciazione di Narni, ma la prima con accanto la data (1450).
In tutto questo, si percepiscono la “romanità” della Cappella Niccolina, condivisa con l’Angelico, e l’esperienza “dell’antico” che Benozzo fece anche da solo (si pensi alla Madonna col bambino benedicente della Minerva, a lui riferibile). Si respira, senza dubbio, la “renovatio” umanistica e l’atmosfera “albertiana” della Roma di papa Niccolò V. Ma, evidentemente, c’è anche una piena sintonia con la spiritualità delle origini, tardoromane e paleocristiane, richiamate dalle memorie “archeologiche” del santuario di San Fortunato. Del resto, il riferimento al cristianesimo antico, e alla sua arte classica, era assolutamente coerente con lo spirito di riforma, e di ritorno alle origini, degli Osservanti francescani, non a caso sostenuti dallo stesso Niccolò V, papa umanista. Sulle suggestioni “albertiane” dell’ultimo Angelico, al tempo dei cantieri romani dove lavorava anche Benozzo, si veda un nostro articolo sul blog.
In chiesa: San Fortunato
Questo è il clima religioso e culturale che suggerisce a Benozzo, sulla stessa parete, anche il bellissimo San Fortunato in trono.
Monumentale e plastico, solenne e ieratico come un’icona, sguardo fisso e penetrante, ci ricorda certo Beato Angelico a San Marco (si pensi al Cristo deriso o al San Pietro Martire che invita al silenzio), ma anche esempi di scultura, ben conosciuti da Benozzo. Impossibile non pensare all’antica facciata del duomo di Firenze, non solo per le statue degli evangelisti (Cole Ahl cita, giustamente, quelle di Donatello e Nanni di Banco), ma anche per le sculture arnolfiane.
In trono con veste sacerdotale, ai lati due angeli (lacunosi) che lo incensano muovendo i turiboli, Fortunato ha la dignità sacrale di un vescovo o di un papa (o, perché no, di un funzionario romano). In una mano tiene un libro sacro (simbolo della sua attività di predicatore), nell’altra un lungo bastone da cui, sulla sommità, germogliano rami e foglie. È il riferimento ad un episodio miracoloso che avvenne dopo la sua morte, quando, dalla verga con cui il santo era solito condurre i buoi nei campi, i fedeli videro spuntare radici, rami e foglie, da cui nacque un grande leccio. Secondo una versione diversa, il bastone fiorì dopo che Fortunato si privò dei suo denari per donarli ad un povero, sotto le cui spoglie era Cristo stesso. Accanto al leccio sorse la pieve. Ancora oggi, presso il convento, è un bosco di lecci. La leggenda del bastone di San fortunato se, da un lato, ricorda la “verga fiorita” di San Giuseppe sposo di Maria e, prima ancora, quella di Aronne, dall’altro ci riporta al ruolo che gli alberi, e i boschi, avevano nei culti pre-cristiani. Ma nel contesto “mariano” del ciclo, il bastone di San Fortunato, così come il leccio, potrebbero anche essere riferimenti al “tronco di Jesse”, da cui germogliò Cristo, soprattutto nella sua interpretazione mariana in cui, a partire dall’assonanza “virga-Virgo”, la fioritura miracolosa è associata al concepimento verginale di Maria.

Dal San Fortunato in trono sembra derivare, con simile solida ieraticità, San Francesco in gloria, dipinto dallo stesso Gozzoli poco tempo dopo, sempre a Montefalco, nel celebre ciclo della chiesa di San Francesco (1452).
In chiesa: le antiche tombe
Del “santuario” di San Fortunato facevano parte anche due sarcofagi tardoantichi, con coperchio a spioventi, che contenevano le spoglie dei due santi locali, Fortunato e Severo. Il sarcofago di San Fortunato, posto sotto il relativo affresco, andò quasi del tutto distrutto nel ‘700; l’altro è ancora visibile in chiesa, anche se non c’è traccia visibile di un altare o di un affresco dedicati a San Severo.
I due sarcofagi, sul lato frontale, furono dipinti verosimilmente nel XV secolo. La decorazione sul sarcofago di San Severo, abrasa e frammentaria, può essere riferita allo stesso Benozzo. Su un fondo bicolore (rosso e blu) ad imitazione di marmi, si stagliano, in finto rilievo, tre medaglioni circolari collegati da tre “rosoni” più piccoli. Nei medaglioni sono raffigurati un Cristo dei dolori e due angeli. È evidente la scelta di richiamare l’arte tardoromana, mostrando una serie di “clipei” funerari. Ancora una volta, Benozzo si volge all’”antico”.
La Crocifissione di Parigi
Al ciclo di San Fortunato potrebbe essere assegnata anche una tavoletta mutila con Crocifissione e santi, che, fino al 1950, si trovava nel convento di Montefalco, poi venduta, assieme ad un pendant andato perduto. Il dipinto, in collezione privata a Parigi, fu pubblicato dal Longhi nel 1960 come opera di Benozzo Gozzoli (1450 c.a.).
Forse parte di un dittico devozionale, di un altarolo portatile o di un reliquiario, il dipinto raffigura, fra i santi ai piedi della croce, Sant’Onofrio e Sant’Antonio da Padova. Come sottolineato dagli studiosi, se la presenza di Onofrio, santo eremita, potrebbe ricollegarsi alla dimensione di “eremitaggio” del complesso francescano (e allo stesso Fortunato, anch’egli eremita), quella di Antonio da Padova potrebbe suggerire il nome dell’omonimo committente, Frate Antonio da Montefalco. La presenza simbolica, sopra la croce, del sole e della luna (sotto forma di volti umani) è un’ulteriore derivazione dall’arte funeraria prima pagana e poi paleocristiana, con molti esempi successivi, a conferma dello spirito “antiquario” dell’arte del Gozzoli a San Fortunato.
In Cielo: la Madonna della cintola
Benozzo, per l’altare maggiore di San Fortunato, dipinge anche la celebre tavola raffigurante l’Assunzione della Vergine, nella sua variante di Madonna della cintola, con Maria che, dal cielo, consegna a Tommaso, qui da solo senza gli altri apostoli, la cintura della propria veste. Per l’iconografia, si rimanda all’ articolo specifico di Sergio Amato su questo blog. Rispetto al contesto, si può sottolineare la popolarità dell’Assunzione di Maria in ambito francescano, come attestano le riflessioni teologiche e spirituali, nonché i riferimenti al soggetto nella predicazione. Parlano dell’Assunzione francescani illustri, quali Giovanni Duns Scoto, Antonio da Padova, Bonaventura da Bagnoregio e l'”osservante” Bernardino da Siena.
Nel caso del Gozzoli a Montefalco, il tema caro ai francescani è mediato da quello, più tipicamente toscano, del “Sacro Cingolo” della Vergine, reliquia mariana per eccellenza, conservata nel duomo di Prato sin dal XIII secolo. E che si tratti della “cintola” o “cingolo” pratese lo si vede dal fatto che Benozzo la dipinge in verde con fili d’oro, proprio come quella reale, osservabile nelle ostensioni pubbliche (anche San Francesco e San Bernardino si recarono a Prato per venerarla). La grande popolarità della reliquia, fra Tre e Quattrocento, è testimoniata dalla costruzione, nel duomo di Prato, della Cappella del Sacro Cingolo e dalla realizzazione del nuovo pulpito per le ostensioni, capolavoro di Donatello e Michelozzo, completato nel 1438.
La pala di San Fortunato, in origine sull’ altare maggiore e poi spostata su una parete della navata, nel 1848 fu donata a papa Pio IX quando concesse a Montefalco il titolo di città. Venne prima trasferita nel Museo Lateranense e, poi, assegnata definitivamente alla Pinacoteca Vaticana.
La cornice “all’antica” è originale, quadrangolare e senza cuspidi secondo le indicazioni “moderne” di Brunelleschi e Alberti, con pilastri laterali a capitelli corinzi e architrave decorato con motivi a girali vegetali, al pari dei pilastrini dipinti che separano i pannelli della predella. Ancora una volta, Benozzo aderisce alla “renovatio” classicista promossa dalle avanguardie artistiche e culturali del suo tempo, in sintonia con i principi di semplicità e ritorno alle origini dell’Osservanza, soprattutto nel contesto “antico” di San Fortunato.
Ma se la struttura del dipinto è moderna (forse la prima pala rinascimentale in Umbria), il fondo dorato, scintillante e prezioso, sembra riportarci indietro nel tempo. In realtà, l’uso dell’oro nella tavola centrale e nei pilastri non ha niente di attardato o di ingenuo, ma è una scelta intenzionale. Tanto è vero che nelle scene della predella, all’opposto, gli sfondi sono architettonici e di paesaggio, e i cieli sono azzurri. Con il fondo oro, Benozzo proietta lo spettatore in una dimensione ultraterrena.
Ma è dalla terra che si parte, con il prato, il sepolcro e le aride rupi. Già ci sono indizi del Cielo, nei fiori del prato e della tomba senza coperchio, e nell’albero, solo, che svetta frondoso dalla roccia (il leccio di San Fortunato o l’albero di Jesse). La Vergine ascende sulle nubi scortata da una mandorla affollata di angeli (due i musicanti), da cui si irradia, incisa, una raggiera di punte dorate (ben visibile dopo il recente restauro), ma le punte, inusuali, sono anche quelle delle ali degli angeli, creste “di corona” attorno a Maria. La cintola, calata dalla Vergine a Tommaso, collega la terra al cielo, non quello azzurro mutevole della storia (e delle storie umane della predella), ma quello splendente d’oro, immutabile, dell’eternità.
Resta ignoto il motivo per cui, non si sa quando, sia stato asportato il fronte dipinto del sepolcro di Maria, così che, in basso, rimane una “finestra” vuota (si è pensato alla presenza di un’iscrizione). Anche sul retro della predella è stata individuata una nicchia con segni di uno sportello di chiusura (forse un tabernacolo, o un reliquiario).
Da un punto di vista artistico, pare più che una suggestione il riferimento all’analogo soggetto affrescato alla fine del ‘300 da Agnolo Gaddi per la Cappella del Sacro Cingolo a Prato (soprattutto per la figura di Tommaso). Benozzo e la sua bottega affronteranno lo stesso tema in un’opera più tarda, nel 1484, il Tabernacolo della Madonna della Tosse a Castelnuovo Val d’Elsa (oggi nel Museo Benozzo Gozzoli di Castelfiorentino), dove, a parte la presenza anche degli altri apostoli, la Vergine e soprattutto Tommaso (si noti lo svolazzo della veste) appaiono molto simili a quelli di San Fortunato.


Nei pilastri, sei figure di Santi. A sinistra per chi guarda, dall’alto: Francesco d’Assisi, Fortunato, Antonio da Padova (forse un ritratto di Frate Antonio da Montefalco); a destra: Ludovico da Tolosa, Severo, Bernardino da Siena. Quattro santi francescani, più i due patroni locali.
Nella predella, Storie della vita della Vergine. Da sinistra: Natività della Vergine, Sposalizio della Vergine, Annunciazione, Natività di Gesù, Presentazione di Gesù al Tempio e Transito della Vergine. Molteplici le reminiscenze angelichiane, in particolare dell’Armadio degli Argenti (1448-52, Museo di San Marco). Non è un caso che, secondo alcuni studiosi, la Natività dell’Armadio possa essere riferita proprio a Benozzo.




Un percorso fra arte e spirito
La Vergine assunta al cielo mentre dona la cintola a San Tommaso rappresentava, sull’altare maggiore della chiesa, il vertice di un itinerario artistico e spirituale, essenzialmente mariano, ideato da Frate Antonio e realizzato dal Gozzoli. Il fedele, forse già guidato al convento da un tabernacolo sulla strada (una Madonna in trono, quasi una prefigurazione, la prima tappa del percorso), giungeva alla porta della chiesa, soglia fisica e simbolica fra lo spazio esterno “del mondo” e quello interno “dello spirito”. Nella lunetta sulla porta, la Madonna col Bambino, affiancata dai santi Francesco e Bernardino da Siena e coronata di angeli. Il passaggio da uno spazio all’altro, dal “fuori” al “dentro” (anche in senso spirituale di recupero della dimensione interiore), avveniva sotto la guida dei “pilastri” dell’Osservanza, Francesco e Bernardino, e con la mediazione della Vergine, simbolicamente, e qui anche fisicamente, “porta del Paradiso”, Ianua Coeli (“Ave, Signora…che sei vergine fatta Chiesa”, scriveva San Francesco). All’interno dello spazio sacro, nella navata, gli altari della devozione e dell’intercessione, dove il fedele entrava nella dimensione “orante”. Ecco, allora, l’altare dove al centro è ancora la Vergine, ma qui, non a caso, in adorazione del Bambino. E, accanto alla Vergine, la nicchia dove si venera il santo patrono Fortunato (e forse anche Severo), “exemplum” antico di fede primitiva e locale, intercessore ma anche modello del ritorno alle origini (anche in senso interiore).
Lo spazio dell’orazione conduceva al vertice del percorso, presso il coro dei frati, dove la Vergine assunta sull’altare maggiore proiettava verso l’“oltre”. Il fedele, lasciato lo spazio del mondo e varcata la soglia del sacro, attraverso la preghiera e il recupero dell’“io” interiore, vedeva (spiritualmente, ma anche fisicamente, grazie all’arte di Benozzo) l’anticipazione del proprio destino. Nella Vergine assunta, in anima e corpo, contemplava la speranza di salvezza e trasfigurazione nell’Assoluto di tutto ciò che è fragilmente umano, e anche di sé stesso. E quella speranza era rafforzata, resa più concreta e reale, più umana, dal richiamo alla “sacra cintola” pratese, reliquia dell’Assunzione, donata dalla Vergine al dubbioso Tommaso come “ponte” fra terra e Cielo. Fra l’umano e il Divino.
Alessandro Santini
Per saperne di più:
Diane Cole Ahl, Benozzo Gozzoli, 1996
Anna Padoa Rizzo, Benozzo Gozzoli in Umbria, 1997
Diane Cole Ahl, Frescante a San Fortunato, in AA.VV., Benozzo Gozzoli allievo a Roma, maestro in Umbria, 2002, pp. 93-105
Adele Breda (a cura di), Benozzo Gozzoli. La Madonna della cintola, catalogo della mostra, (Montefalco, 18 luglio 2015- 30 aprile 2016)
Museo di San Francesco a Montefalco
Sergio Amato, La Madonna della cintola: un soggetto misterioso finalmente decifrato, su questo blog
Per le immagini: I luoghi del silenzio
A magnificent contribution, much appreciated. My own study of the cycle at Borgo a Mozzano should see the light in a couple of months. I will alert you, as requested.
Christopher Stace
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Thank you so much for your attention and kindness. Please, let us know about your study.
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