In questi giorni è tornato nei cinema, in versione restaurata e rimasterizzata, Non ci resta che piangere (1984), opera “cult” di Roberto Benigni e Massimo Troisi, sceneggiatori, registi e attori principali. Fra esilaranti episodi e gag fulminanti, la scena della “lettera a Savonarola” è ormai entrata a far parte della cultura popolare, anche fra le nuove generazioni. Un vero e proprio “evergreen”, che resiste al tempo e alle mode.
Non ci resta che piangere usciva nelle sale il 21 dicembre 1984, trenta anni fa. E sono passati venti anni dalla prematura scomparsa di Massimo Troisi, nel 1994. Se il film appare ancora fresco, vivace e spensierato lo si deve, soprattutto, alla sua originalissima realizzazione, quasi priva di sceneggiatura, affidata essenzialmente alla straordinaria capacità di improvvisazione dei due attori, per la prima ed unica volta insieme, alle loro innate doti comiche, pur diversissime, e ad un naturalissimo ed inaspettato affiatamento. In un intervista di qualche anno fa (Corriere Fiorentino, 28/10/2010), Benigni racconta che durante le riprese “c’erano quelle improvvisazioni che nascono però da un lungo lavoro, che sembrano improvvisazioni, ma quando, diciamo, ci si vuole bene, che si sta insieme, tutto tende a quella cosa là, allora era tutto una costruzione, ma sempre sull’allegria”. Prosegue Benigni: “Appena poi il film è uscito, improvvisamente, per strada, sono diventati proverbiali una quindicina di modi di dire del film, inaspettati. Ci arrivavano lettere come quella a Savonarola! E pensare che fu completamente improvvisata. Sono quelle scintille divine, diciamo così, di gioia”.
La scena della “lettera a Savonarola”, capolavoro di improvvisazione e di intesa comica (“scintilla divina e di gioia” per dirla alla Benigni), è anche un omaggio sincero alla “lettera” più famosa della storia della commedia italiana, quella scritta alla “malafemmina”, fidanzata del nipote, dai “fratelli Caponi”, ovvero Totò e Peppino de Filippo, anch’essi grandi improvvisatori, in Totò, Peppino e la…malafemmina (1956).
In Non ci resta che piangere, il maestro elementare Saverio (Benigni) e il bidello Mario (Troisi), sbalzati indietro nel tempo, siamo nell’anno 1492 (“quasi 1500” direbbero i due), dal villaggio immaginario di Frittole scrivono una supplica a Savonarola per ottenere la liberazione dell’amico Vitellozzo (Carlo Monni), arrestato e a rischio di condanna a morte. Secondo una prima idea, Savonarola, interpretato da Marco Messeri, avrebbe dovuto essere protagonista di un episodio del film. Nella versione definitiva, invece, il personaggio non compare ma è solo citato come destinatario della lettera.
La scena sprigiona una comicità surreale e divertita, che non nasconde, però, una amara critica all’atavico e rassegnato servilismo italico nei confronti del potere di turno. Il risultato è così efficace e spontaneo da far dimenticare l’errore storico: nel 1492, in realtà, il potere è nelle mani dei Medici e la Repubblica “savonaroliana” non c’è ancora. Licenza poetica.
“Frittole, estate quasi 1500.
Santissimo Savonarola, quanto ci piaci a noi due! Scusa le volgarità eventuali.
Santissimo, potresti lasciar vivere Vitellozzo, se puoi? Eh? Savonarola, e che è? Oh! Diamoci una calmata, eh! Oh! E che è? Qua pare che ogni cosa, ogni cosa uno non si può muovere che, questo e quello, pure per te! Oh! Noi siamo due personcine perbene, che non farebbero male nemmeno a una mosca, figuriamoci a un santone come te. Anzi, varrai più di una mosca, no?
Noi ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi, senza chiederti nemmeno di stare fermo, puoi muoverti quanto ti pare e piace e noi zitti sotto.
Scusa per il paragone tra la mosca e il frate, non volevamo minimamente offendere.
I tuoi peccatori di prima, con la faccia dove sappiamo, sempre zitti, sotto.”
A.S.