
Il visitatore del Museo di San Marco che – il volto effuso ancora della pace ispiratagli dal chiostro di Michelozzo e dalle visioni angelichiane dell’Ospizio – si avventuri a varcare la soglia del Refettorio Grande, non di rado lo vedrete assumere ben presto un’espressione perplessa, ristare pensieroso ed accigliato, scuotere il capo dinnanzi all’omertà dei cartellini, inveire contro il vademecum portato da casa o acquistato sul posto, per risolversi infine – extrema ratio – a chieder lumi al più vicino addetto alla custodia.
Costui sarà dunque condotto dinnanzi a un dipinto raffigurante, in alto, la Vergine Maria sporgentesi di tra le nuvole e tra putti e, in basso, attorno a un sepolcro vuoto di salma ma colmo di fiori, un gruppetto di santi tra i quali uno, in ginocchio, lo sguardo alla Vergine, che sembra stia per ricevere da costei un qualcosa che somiglia a un nastro o ad una cordicella. “Madonna della Cintola” recita ermetico il cartellino. E ce n’è un altro identico più avanti – avverte il visitatore – e un altro ancora, alla parete opposta: tutte Madonne della Cintola, tutte! Ma che cos’è, che significa? –

Il malcapitato custode sapeva in cuor suo che, prima o poi, il fatal quesito sarebbe stato scoccato, e cerca di eluderlo spiegando che cintola sta per cinta, cintura, ovverossia la fascia con cui un tempo si usava stringere le vesti ai fianchi. Ah, ecco cos’è, non è una fune! – Ma che la curiosità di quel frequentatore di musei possa ritenersi appagata da simile chiarimento è assai difficile, ahimè, e infatti prosegue chiedendo perché mai ed a favore di chi la Vergine si privi di un così utile accessorio, senza peraltro escludere che invece se ne stia servendo per tirar su quel poveretto in ginocchioni alle sue celesti altezze: delle due l’una. È ovvio!
Quindi? – incalza quello. Quindi… quindi… – A questo punto l’improvvisato cicerone si vedrebbe costretto a deporre le armi se non lo soccorressimo noi, suggerendogli in un orecchio trattarsi d’un episodio connesso alla leggenda dell’assunzione di Maria in cielo. Il visitatore sgrana gli occhi – Ah, sì? È il momento di far sfoggio d’un po’ di erudizione. Secondo quanto narra la Dormizione della Santa Madre di Dio – un apocrifo greco del VI secolo tradizionalmente attribuito a San Giovanni il Teologo, che poi sarebbe l’Evangelista – quando per la Vergine fu giunto il momento di ricongiungersi al figlio suo diletto, lo Spirito Santo provvide a convocare gli apostoli sparsi per il mondo e a trasportarli tutti presso il di lei capezzale su una nuvola luminosa, affinché le rendessero l’estremo omaggio. Giovanni da Efeso, Pietro da Roma, Paolo da Tiberia, Tommaso dal centro dell’India: tutti furono presenti al transito dell’anima di Maria ed alla traslazione in Paradiso del suo corpo, tutti, anche coloro, come Andrea e Filippo, che erano già nel sonno della morte e furono pertanto risvegliati per l’occasione.

Il visitatore è conquiso ma non ancora persuaso. Infatti è ad una variante più tarda di questa leggenda che bisogna far ricorso per decifrare la scena che abbiamo di fronte, una variante illustrata in un apocrifo latino attribuito a Giuseppe di Arimatea e intitolato Transito della Beata Vergine Maria. Qui, inspiegabilmente, Tommaso arriva in ritardo, quando già la Vergine ha esalato l’ultimo respiro e gli apostoli suoi compagni – le cui nuvole, evidentemente, erano meglio attrezzate o più efficienti – le hanno già dato degna sepoltura. Nella sfortuna la fortuna, dice però il detto. E infatti questa sua imbarazzante manchevolezza consente a Tommaso il privilegio di essere l’unico ad assistere al prodigio dell’assunzione del corpo di Maria. E mentre esterrefatto guarda dirigersi verso il cielo le terrene vestigia di colei che portò in grembo il Cristo, Tommaso ne invoca l’ultimo segno, l’ultima benedizione: «allora la fascia con cui gli apostoli avevano cinto il santissimo corpo venne gettata giù dal cielo a Tommaso».
Oooh! – fa il visitatore, assentendo, ritornando con lo sguardo al dipinto. Tutto è chiaro, finalmente, l’enigma è stato decifrato. Quindi quella tomba lì in mezzo… – È quella della Vergine, che la tradizione popolare vuole che dopo il miracolo si sia riempita di fiori. Adesso è davvero tutto. Ma… – (Cos’è che vuole ancora costui? – si chiede il povero vigilante) Ma… come mai ce ne sono così tante? – E il suo gesto fa il giro della sala, trascorrendo dalla pala di Andrea del Bresciano a quella di Giovanni Antonio Sogliani fino a quella, imponente, di Ridolfo del Ghirlandaio.
In effetti una tal concentrazione sarebbe sorprendente se non fosse cosa nota che, a partire dal ’300, l’episodio del dono leggendario fatto a San Tommaso dalla Vergine divenne un soggetto assai richiesto qui in Toscana e perciò molto frequentato dagli artisti, e in particolar modo dai pittori. E per quale motivo? Voglio dire: che c’entra la Toscana con una leggenda apocrifa tanto poco diffusa e conosciuta altrove? – Semplice: poiché quella cintola lì, o per meglio dire la Cintola, è conservata proprio qui, a Prato, nella cappella della Sacra Cintola nel duomo di Prato, per l’esattezza. Il volto del visitatore si colora di una meraviglia velata forse dal vago sospetto che lo si stia turlupinando – Davvero? Vede, si dice che il buon Tommaso, in procinto di far ritorno in India – se sulla stessa nuvola non troppo rapida dell’andata non è dato saperlo – abbia affidato la preziosa reliquia ad un sacerdote di Gerusalemme, e che in questa città essa sia rimasta, passando di mano in mano, finché, nel 1141, pervenne in quelle di Michele Dagomari, un mercante pratese di passaggio a Gerusalemme per affari, che l’ebbe in dote sposando una fanciulla del luogo di nome – guarda il caso – Maria.

La Cintola raggiunse così la cittadina toscana seguendo il suo nuovo padrone, il quale nel 1172, trovandosi in punto di morte, la donò al preposto della pieve di Santo Stefano, il futuro duomo di Prato. Colì fu pertanto trasferita l’anno dopo con solenne processione, divenendo ben presto il fulcro della religiosità cittadina nonché il simbolo dell’identità civica e della volontà autonomistica di un centro da sempre alle prese con le mire espansionistiche della potente vicina Firenze. Ma quando questa, nel 1351, riuscì ad estendere il proprio dominio sull’orgogliosa cittadina, la Cintola smise di essere patrimonio esclusivo dei pratesi, la sua fama iniziò a diffondersi in tutta la regione ed il suo culto ad affermarsi anche altrove, tanto che l’episodio della sua consegna a San Tommaso da parte della Vergine andò ad adornare una delle porte della cattedrale di Firenze e fu poi ripreso da artisti quali Filippo Lippi, Benozzo Gozzoli e Andrea della Robbia. Della Robbia? – esclama il visitatore (non si sa perché, ma è uno di quei cognomi che fa sempre un certo effetto, a prescindere dal nome che lo precede) Il succitato Ridolfo del Ghirlandaio, poi, vi si cimentò per ben due volte nel giro di pochi anni: per conto del duomo di Prato la prima, realizzando la pala che ancora oggi adorna la parete di fondo del cosiddetto terrazzo o pulpito interno della cappella della Sacra Cintola; per il monastero fiorentino di Sant’Orsola la seconda, creando l’opera che adesso campeggia lì a destra, a metà parete – e lo sguardo segue il braccio e poi la mano – Ooh!

Per farla breve: fino alla metà del ’500 circa questo soggetto visse di buona salute – seppur, dobbiamo ammetterlo, con diffusione abbastanza limitata territorialmente –, ma il clima controriformistico non gli giovò per nulla, anzi: i nuovi, più rigorosi criteri iconografici post-tridentini, intendendo far piazza pulita di tutto ciò che poteva indurre in confusione dottrinale, fecero sì che esso finisse in soffitta insieme a tutte quelle altre storie di dubbia o incerta derivazione cui le precedenti generazioni di artisti avevano così ampiamente e felicemente fatto ricorso (senza i vangeli apocrifi gli affreschi di Giotto agli Scrovegni sarebbero in buona parte indecifrabili).
Fine della storia. Il visitatore, tutto sorrisi, ringrazia di cuore il custode per questa inaspettata scorpacciata d’informazioni, il custode ringrazia noi per i preziosi e salvifici suggerimenti e noi diciamo grazie a voi nostri lettori e arrivederci al prossimo mistero da svelare.
Sergio Amato
Ohhh! Che miracolosa epifania di conoscenze! Rimango ammirata a leggerne fino a questa tarda ora…
"Mi piace""Mi piace"
Bellissimo! E’ davvero un piacere, di stile e di contenuti. Mi auguro che questo manzoniano narratore ci delizi presto con nuove belle storie!
Tommaso Apostolo, evidentemente, tendeva a distrarsi o ad attardarsi. Forse non era avvezzo alle meridiane e alle clessidre. O magari era solo un po’ sfortunato, sulle prime. Come non ricordare che in Giovanni, 20, 24-29 (versione CEI) “Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!».Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». Ho sempre pensato che il dono della cintola sia in qualche modo collegato a questo episodio evangelico. E’ come se il buon Tommaso, forse più umano di tutti i suoi compagni, avesse sempre bisogno di un segno tangibile per credere. Prima, il toccare con mano le ferite di Cristo e, poi, ricevere in consegna la cintura della Vergine. Perchè la fede assoluta, senza prove concrete, è da superuomini. E Tommaso, come la maggior parte di noi, probabilmente non lo era.
Ancora grazie e arrivederci al prossimo mistero!
"Mi piace""Mi piace"