Nella sezione della mostra Beato Angelico dedicata agli “esordi” del pittore, curata da Angelo Tartuferi e Stefano Casciu al Museo di San Marco (fino al 25 gennaio 2026), la produzione giovanile di Guido di Pietro, poi Fra Giovanni da Fiesole, è messa a confronto con le opere degli artisti che hanno avuto un qualche ruolo nella sua formazione. Una formazione ancora tutta da esplorare, criticamente inafferrabile, su cui i due principali curatori dell’esposizione, Carl Brandon Strehlke e Angelo Tartuferi, non fanno mistero di avere visioni divergenti.
In assenza di nuove scoperte documentarie non è facile, infatti, determinare con certezza le scaturigini della pittura angelichiana. La critica ha cercato di individuare possibili filiazioni da questo o quell’altro maestro, sulla base di contiguità topografiche, possibili frequentazioni degli stessi ambienti culturali, più spesso affidandosi all’analisi stilistica che non sempre è garanzia di oggettività.
Ma cosa si intende per maestro? Qual è la sua funzione? Nel contesto culturale del primo Quattrocento, chi poteva essere considerato un maestro? Un artista della generazione precedente che insegnava i rudimenti del mestiere? Qualcuno che, possedendo in senso ampio una disciplina, si incaricava di trasmettere un’eredità figurativa, una tradizione iconografica, un repertorio di modelli tipologici spendibili sul mercato dell’arte?
Se la trasmissione di un’esperienza non si esaurisce solo all’interno di una bottega, in senso verticale e gerarchico, è lecito ammetterne una anche in senso orizzontale, tra artisti della stessa generazione, attraverso una pedagogia dell’osservazione reciproca e del confronto.
Nel caso di Beato Angelico, posto che di un apprendistato presso un maestro-padre non sappiamo nulla, è molto più utile comprendere come il giovane artista, partendo da un capitale di immagini preso a prestito dal Trecento, sia riuscito a soggettivarlo facendolo reagire con idee e forme dei maestri-fratelli contemporanei, come lui alla ricerca di nuovi modi di rappresentare il sacro, l’umano e il reale.
Nonostante la sua vocazione cosmopolita, Firenze non è mai stata una metropoli; gli artisti spesso lavoravano gomito a gomito, guardandosi e imitandosi a vicenda. Premesso questo, si possono fare i nomi degli artisti della generazione dei padri, come Gherardo Starnina (1354 – 1413), don Lorenzo Monaco (1367-1424), Ambrogio di Baldese (1352 -1429); così come degli artisti della stessa generazione, anno più anno meno, come Lorenzo Ghiberti (1378 – 1455), Masolino da Panicale (1383 – 1440), Masaccio (1401 – 1428), Battista di Biagio Sanguigni (1393-1451); tutti rappresentati nella sezione della mostra dedicata a Fra Giovanni da Fiesole a San Marco.
Nel contesto storiograficamente nebuloso degli esordi del pittore domenicano, un ruolo di tutto rispetto spetta a Battista di Biagio Sanguigni. Il nome di questo artista misterioso, noto soprattutto come miniatore, che la critica non sa bene se identificare con il “Maestro del 1419”, compare in un documento del 1417, proprio accanto a quello di Guido di Pietro, il giovane Beato Angelico, in qualità di garante. Si tratta del registro della compagnia di San Niccolò di Bari, che si riuniva presso la chiesa del Carmine:
Guido di Pietro dipintore del popolo di santo Michele bisdomini fu ricevuto nella nostra compagnia al dì 31 ottobre 1417 menato per Battista di Biagio nostro fratello dal tempo de’ nostri rettori Christoforo di lotto. Donato di Aldobrando. Niccolò di Arrigo.
La compagnia di San Niccolò non era una corporazione di artisti ma una confraternita laica fondata nel 1334. Questa prima fonte ci presenta Guido di Pietro come ‘dipintore’ professionista prima del suo ingresso nell’ordine domenicano, ma anche come giovane aspirante confratello di una compagnia che promuoveva la formazione cristiana degli affiliati sotto la guida dei frati carmelitani. È vero che questo indizio è debole, se considerato in se stesso; acquista però – per noi che ne conosciamo la futura carriera – un valore prezioso per scorgere, in Guidolino, la precoce tensione spirituale che troverà sbocco all’interno dell’ordine domenicano. Del resto, in questo primo documento, una mano posteriore, che conosceva bene lo sviluppo della vita dell’artista, aggiunse una glossa: “Feciesi frate di santo Domenicho”. Forse fu proprio in qualche riunione dei confratelli di questa Compagnia che Guido di Pietro incontrò il fondatore del convento di San Domenico a Fiesole, fra Giovanni Dominici, affiliatosi un decennio prima, il 29 luglio del 1407.
Dal documento, dunque, ricaviamo due informazioni essenziali. La prima è che alla data dell’iscrizione il giovane Guido aveva completato il suo apprendistato ed esercitava la professione di pittore in proprio. La seconda è che era domiciliato nel popolo (parrocchia) di San Michele Visdomini, praticamente tra il cantiere della cupola del Duomo e il monastero di Santa Maria degli Angeli, a pochi passi dalla bottega di don Lorenzo Monaco, di proprietà dello stesso cenobio camaldolese, e non troppo distante dalla bottega dello scultore Lorenzo Ghiberti.
Nello stesso popolo abitava anche Battista di Biagio Sanguigni, associato come miniatore allo Scrittorio di Santa Maria degli Angeli. Mentore prima e amico fraterno poi, di poco più vecchio dell’Angelico, Sanguigni è presente nella mostra a San Marco con due opere assai diverse tra loro, tanto da non sembrare della stessa mano: un Trittico con Madonna in trono col Bambino tra Santi, di collezione privata, e un imponente antifonario, miniato per le monache agostiniane di San Gaggio a Firenze, esposto nella Biblioteca di Michelozzo, dotato di un “corredo illustrativo sontuoso, arricchito da preziosità decorative, da fregi ornamentali fastosi, dalla grande profusione di oro in foglia” (Labriola 2025, p.380, Catalogo).


Il Trittico, attribuito prudentemente dai curatori al Maestro del 1419, ha il pannello centrale con la Madonna in trono e il Bambino, resecato nella parte inferiore: le figurette di monache e devoti assiepati ai piedi della Vergine, mancano di metà del corpo. Una sua collaborazione è infine stata recentemente proposta da Angelo Tartuferi per le figure aureolate e bionde in primo piano, più “inquiete sul versante emotivo”, della Crocifissione Griggs, e per le storie di Cosma e Damiano della predella della Pala di Annalena (vedi intervista).
Sanguigni, chi era costui?
Il frastagliato catalogo di questo artista è composto di poche opere superstiti: quattro codici miniati, di cui uno disperso, e poche tavole, perlopiù mutilate, spesso appartenenti a collezioni private. Chi ha visitato la mostra su Masolino del 2024 a Empoli, ha potuto ammirare, nella Chiesa di Santo Stefano degli Agostiniani, due delicate tavole del 1425 circa: il Redentore benedicente e il Profeta Daniele. Normalmente conservate al Museo nazionale di Piazza Venezia a Roma, anche queste sembrano provenire da un polittico smembrato: le figure a mezzo busto potevano far parte del registro superiore.
Personalmente ho sempre avuto un debole per questo compagno di strada, maestro-fratello del giovane Guido, una sorta di Max Brod del Quattrocento fiorentino, senza testamenti da tradire; pittore discontinuo ma non privo di guizzi interessanti, in totale adorazione dell’amico geniale, che già vede come un santo; testimone bonario, mai invidioso, dell’esplosione artistica di Beato Angelico.
Non ci è dato di sapere come i due artisti si siano incontrati; come si sia evoluta nel tempo la loro amicizia, come abbia resistito all’evidente differenza di talento tra i due. Del resto le amicizie sono imprevedibili, possono nascere da una circostanza fortuita, da un’affinità elettiva, da un interesse comune; ma spesso si sviluppano a dispetto di queste premesse. L’incontro tra Guidolino e Battista è comunque avvenuto: le loro biografie si sono incrociate. Non sappiamo nulla di più, se ci atteniamo agli scrupoli degli storici, se cioè consideriamo quell’unico documento del 1417, che vede vicini i loro nomi, sufficiente a definire la natura del loro sodalizio. Siccome storici non siamo, nulla ci vieta di riempire con l’immaginazione la mancanza di documenti.
Battista e Guidolino, amici e fratelli in arte
L’azione si svolge a Firenze, dove Guido di Pietro giunge da San Michele a Moriano di Rupecanina, nella Podesteria di Vicchio in Mugello, con il fratello Benedetto e la sorella Checcha. Forse a cercar fortuna, magari con l’appoggio di qualche famiglia fiorentina, come può succedere quando ci si trasferisce dalla provincia.
Una volta approdato nella città degli artisti, Guido, che ci figuriamo di indole gioviale, non avrà faticato molto a farsi dei nuovi amici. Tra gli altri Battista di Biagio, suo vicino di casa, che magari si sarà offerto di introdurlo nella scena culturale fiorentina; forse anche di portarlo in giro e mostrargli gli affreschi di Giotto a Santa Croce e di Andrea di Bonaiuto e di Orcagna a Santa Maria Novella, le più importanti basiliche mendicanti della città.
Da quel momento, è plausibile che i due siano diventati inseparabili. Li immagino scambiarsi consigli su come far emergere le figure dai fondi oro, o come rendere credibile la rappresentazione dello spazio; interrogarsi sul nuovo ruolo dell’artista nella società, sull’eventualità di svincolarsi dal sistema medievale delle Arti, sui rischi di compromettersi col Potere. Delle loro domande e delle loro contraddizioni in parte c’è traccia nelle opere che ci hanno lasciato, a saperle leggere al di là della pellicola pittorica.
Li vedo giovanissimi frequentare lo Scriptorium del monastero camaldolese di Santa Maria degli Angeli, importante cenacolo di intellettuali sotto l’egida del coltissimo abate Ambrogio Traversari, nei pressi delle loro abitazioni nel popolo di San Michele Visdomini. In quel luogo possono conversare liberamente con il bibliofilo Niccolò Niccoli, collezionista di un fondo di circa ottocento codici manoscritti che vorrebbe radunare in un unico ambiente per farne una biblioteca aperta a tutti: un visionario che considera il sapere un bene comune. Sempre a Santa Maria degli Angeli possono ragionare di prospettiva e stelle con Paolo Toscanelli, matematico e astronomo; incontrare i banchieri Cosimo il Vecchio e suo fratello Lorenzo de’ Medici, rappresentanti di una nuova aristocrazia del denaro, capaci di sostituirsi agli enti pubblici come committenti di edifici e opere d’arte; stringere amicizia con l’architetto e scultore Michelozzo, sodale di Donatello, e farsi raccontare cosa hanno visto e rilevato nei loro viaggi romani; consolidare il rapporto con don Lorenzo Monaco, maestro più anziano, esponente a Firenze di una corrente artistica d’avanguardia diffusa in tutta Europa, sempre in cerca di collaboratori per i suoi grandiosi polittici. Una variegata cerchia umanistica che partecipa al mito fondativo di Firenze erede della cultura e delle virtù civili di Roma antica.
Li vedo intervenire alle riunioni della Compagnia di San Niccolò al Carmine, dove fanno penitenza presso i carmelitani, e dove si incantano davanti alle suggestioni ispanizzanti degli affreschi di Gherardo Starnina, oggi perduti, e dove saranno tra i primi a studiare gli affreschi di Masaccio e Masolino della Cappella Brancacci. Li vedo lavorare, fianco a fianco, curvi, alla decorazione di grandi codici liturgici, sotto la direzione di don Lorenzo Monaco, che mostra loro i capolavori di don Simone camaldolese e di don Silvestro Gherarducci, venerati maestri miniatori di Santa Maria degli Angeli. Li sento lamentarsi dello stesso mal di schiena causato dalle lunghe sessioni di lavoro, alla poca luce delle lanterne a olio, con Benedetto, inseparabile fratello di Guido, che da bravo calligrafo si occupa dei testi e delle note sul tetragramma.
Nelle sere d’estate li immagino ridere e scherzare per le strade del centro, bighellonare senza meta per finire invariabilmente nella bottega di Lorenzo Ghiberti. La loro curiosità per le formelle della porta Nord del Battistero, ancora in lavorazione, è irresistibile; come lo è per la quantità sbalorditiva di maestranze impegnate nel disegno delle vetrate del Duomo, nel lavoro di alta oreficeria riservato ai reliquiari, tra cui quello delle braccia di Sant’Andrea apostolo.

Li vedo tornare più volte in quell’atelier, frequentato dai migliori talenti del tempo; prendere appunti e disegnare; chiedere allo scultore dei modellini in cera o creta utili per le loro figure dipinte di santi e profeti; per le figure femminili possono sempre domandare a Checca, la sorella di Guido, di posare per loro. E poi ancora muoversi tra la chiesa di Santo Stefano al Ponte, l’ospedale di Santa Maria Nuova e il convento di Santa Maria Novella, dove fioccano gli incarichi per Guido. Santa Maria Novella, in particolare, è la chiesa in cui fiorisce la sua vocazione religiosa: è qui che incontra i suoi primi maestri spirituali (fra Jacopo Altoviti, fra Leonardo Dati, fra Antonino Pierozzi, per nominarne solo alcuni). Mi sembra di vedere la faccia del povero Battista il giorno in cui Guido gli comunica la sua intenzione di farsi frate nell’osservanza domenicana. Perché proprio dell’osservanza? Temendo un’austerità che precluda l’attività artistica. E io, cosa farò? Non devi preoccuparti, non deporrò i pennelli, per me dipingere è come pregare, e tu mi aiuterai. Dopo il noviziato a Cortona, Fra Giovanni – questo sarà d’ora in poi il suo nome – si trasferisce a San Domenico sotto Fiesole e lì stabilisce la sua bottega. Tra il 1420 e il 1423 avrà già completato la pala d’altare per la chiesa, una Madonna col Bambino tra i Santi domenicani e San Barnaba, quale omaggio a Barnaba degli Agli, benefattore della ristrutturazione del conventino.
Poco dopo sarà la volta dell’Annunciazione e dell’Incoronazione della Vergine, due prove di eccezionale virtuosismo prospettico, oggi rispettivamente al Prado e al Louvre, per le pareti del tramezzo. E ancora gli affreschi della Crocifissione della sala del Capitolo, della Crocifissione con San Domenico e i dolenti del Refettorio e della Madonna col Bambino in trono tra i santi Domenico e Tommaso d’Aquino del Dormitorio. Degli affreschi del convento di San Domenico resta solo la Crocifissione dolente e masaccesca della sala capitolare; gli altri due sono stati staccati nell’Ottocento e oggi conservati al Louvre e all’Ermitage.
Da quel momento la carriera di Fra Giovanni sarà in rapida espansione. Verso il 1430, Sanguigni lo seguirà trasferendosi a Palaiuola, nei pressi di Camerata, dove sorge il convento di San Domenico. Continuano a collaborare, anzi è Battista che collabora, perché ormai il maestro è Fra Giovanni; il maestro-amico-fratello, più bravo di lui in tutto, che eccelle nella pittura a fresco, su tavola e su pergamena, e viene richiesto dalle maggiori famiglie di Firenze, dalle comunità religiose, dalle confraternite laiche e perfino dai Papi. Fra Giovanni cresce, diventa un predicatore e un artista colto, sotto il magistero morale e religioso di Antonino Pierozzi, teologo e scrittore, più volte priore di San Domenico e San Marco fino al 1444; ma non perderà mai la capacità di parlare a tutti, dotti e analfabeti, attraverso i suoi racconti per immagini. Battista lo seguirà fedelmente fino alla fine, anche quando Fra Giovanni si circonderà di collaboratori più giovani, come Zanobi Strozzi, Benozzo Gozzoli, Alesso Baldovinetti, Domenico di Michelino e il piccolo Giovanni di Antonio, figlio della sorella Checca. Non sappiamo se Sanguigni abbia partecipato come aiuto all’esteso ciclo di affreschi del convento di San Marco, né se abbia seguito l’amico a Roma nel 1445, e poi a Orvieto nel 1447. Sappiamo, però, che Fra Giovanni torna a Firenze giusto in tempo per salutarlo un’ultima volta, prima di ripartire per Roma a lavorare per Papa Niccolò V. Battista di Biagio Sanguigni si spegne a Fiesole nel 1451, quattro anni prima di Angelico. Ci piace pensare che sia stato lo stesso Fra Giovanni da Fiesole a impartirgli gli estremi sacramenti.
Battista di Biagio contemporaneo di Fra Giovanni
C’è un dipinto di Sanguigni (o del Maestro del 1419), che avrebbe avuto diritto a un posticino nella sezione degli “esordi” e dei confronti della mostra Beato Angelico, allestita a San Marco: una Madonna in trono col Bambino e sei Santi, di collezione privata (60 x 43 cm). L’opera mi è stata segnalata dallo stesso collezionista a inizio settembre, quando i giochi erano già fatti e non ci sarebbe stato nemmeno il tempo per una menzione nel catalogo.
La tavola, purtroppo mutilata nella parte inferiore, è databile intorno al 1420 (expertise di Mario Salmi). La composizione, con i santi più piccoli disposti ai lati della Vergine col Bambino su fondo oro, è convenzionalmente tardogotica, ma la torsione del Bambino verso la Madre, mentre in mano trattiene un cardellino, è un dettaglio di estrema finezza che sembra aprire a una sensibilità più plastica. Non è il solito Bambino benedicente, rigido e impettito: si vede che si è girato per mettersi in ginocchio in grembo alla Madonna, come per abbracciarla teneramente. L’atteggiamento del Bambino più che angelichiano, sembra richiamare i modelli di Gherardo Starnina, con i bambini sempre protesi verso la Madonna, come per afferrarle il velo o accarezzarle il viso; ma anche quelli di Giovanni dal Ponte, artista elegante e colto che guarda a Lorenzo Monaco a Ghiberti e, naturalmente, a Starnina.


La tavola di Sanguigni, forse parte di un trittico di cui ci mancano i pezzi laterali, ha avuto una vicenda collezionistica molto curiosa che vale la pena di ripercorrere attraverso le parole dello stesso collezionista. Di seguito, il testo dell’email in cui mi racconta come sia venuto in possesso di un’opera come questa, attraverso l’eredità Metzger:
«Elena Metzger ed Enrichetta Metzger furono rispettivamente la mia trisnonna e la mia bisnonna in linea materna; i Metzger erano una famiglia che si dedicò al commercio di quadri antichi, in particolare Johann Metzger (mio bisnonno materno) stabilitosi a Firenze nel 1811, divenne agente e mercante d’arte per il principe ereditario Ludwig I° di Baviera, che ottenne per suo tramite notevoli opere oggi conservate presso la Pinakothek di Monaco, come la Madonna Tempi di Raffaello e Il Seppellimento di Cristo di Botticelli. Intrattenne rapporti commerciali anche con Carl Friedrich von Rumohr che si rivolse più volte a lui per acquistare opere su commissione di Federico Guglielmo IV° di Prussia. Carl Friedrich von Rumohr è un nobile tedesco e storico dell’arte che innamoratosi dell’Italia e del suo patrimonio artistico compie negli anni ben tre viaggi nel nostro Paese e nel 1819 fece da guida al re di Danimarca Cristiano VIII e nel 1821 al re di Baviera Ludwig. Carl Friedrich Rumohr, dovendo esaudire i desideri artistici di diverse famiglie reali, si appoggiò sempre alla famiglia Metzger che in tal campo, a Firenze, non era seconda a nessun’altra. I Metzger vendettero anche numerose opere alla National Gallery di Londra. Si pensi alla Deposizione nel sepolcro, scomparto di predella della Pala di San Marco di Beato Angelico. La predella della pala di San Marco era composta da nove pannelli (oggi esposti a Palazzo Strozzi, ndr), che furono venduti nel 1827 circa al commerciante Metzger per 700 scudi. Furono acquistati per 900 scudi da Vincenzo Valentini, il Console prussiano a Roma, il cui nipote li rivendette a sua volta alla National Gallery nel 1860 per l’enorme prezzo di £ 3.500. Attualmente questo pannello è conservato all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera».

Non sappiamo chi avesse commissionato a Battista di Biagio la Madonna in trono col Bambino e sei Santi e quale fosse la sua destinazione originaria. Il solo fatto che sia giunta fino a noi, seppure modificata nel suo aspetto, è quasi un miracolo. E siamo grati a chi ha saputo conservarla con amorevole rispetto.
Confrontando la Madonna col Bambino tra santi di Sanguigni con la serie di Madonne dell’Umiltà di Angelico in mostra a Palazzo Strozzi, si comprende cosa vuol dire per due personalità artistiche vivere nella stessa epoca. Non basta il solo dato cronologico a fare di due individui dei contemporanei tra loro. Fra Giovanni da Fiesole e Battista di Biagio Sanguigni sono contemporanei non solo perché hanno vissuto nello stesso periodo storico, non solo perché hanno attinto allo stesso repertorio di immagini e frequentato gli stessi maestri, ma perché, pur avendo conseguito risultati diversi, tutto nelle loro opere e nelle loro scelte ci suggerisce che condividevano la stessa concezione della “qualità de’ tempi”. Parafrasando un argomento contenuto ne Il Principe di Machiavelli, scritto qualche anno dopo, per qualità de’ tempi si intende la capacità di un leader (nel nostro caso di un artista), di saper cogliere le occasioni propizie, adattarsi alle circostanze, modificando all’occorrenza le proprie strategie politiche (linguistiche e tecniche). Forse in questa capacità di onorare i maestri del passato e al contempo tradirli; in questo adattarsi alle esigenze della committenza, preservando sempre la propria libertà poetica, Fra Giovanni e Battista di Biagio Sanguigni sono riusciti a trovare una personale cifra espressiva, che poi è quanto di meglio possa offrire un artista.
Carmelo Argentieri
Ringraziamenti
Un ringraziamento speciale a C. B. F. per aver condiviso con me le informazioni su un dipinto importante della sua collezione e avermi stimolato a scrivere di Battista di Biagio Sanguigni.
Grazie inoltre a Solal Abeles, amico e fratello, che consigliandomi il libro Leonardo e Machiavelli. Vite incrociate (Viella, 2014) del suo maestro Patrick Boucheron, mi ha introdotto al concetto affascinante e per niente scontato di “essere contemporanei”.










