Gli “esordi” di Beato Angelico al Museo di San Marco. Intervista al curatore Angelo Tartuferi

Angelo Tartuferi ha il merito di non prendersi mai troppo sul serio. Allievo di Mina Gregori e poi collaboratore diretto di Miklós Boskovits, nei ranghi del Ministero della Cultura dal 1990, direttore del Museo di San Marco dal 2020 al 2024, Tartuferi, con il suo inconfondibile understatement, si definisce un “medievista dall’orizzonte culturale limitato”; uno che per oltre cinquant’anni non ha fatto altro che coltivare il suo “orticello”.

Sarà anche così, ma è indubbio che di questo orticello – un sontuoso Hortus conclusus, in realtà – Angelo Tartuferi conosce ogni filo d’erba, ogni fiorellino, ogni rizoma, ogni specchio d’acqua e tutti gli insetti e animaletti nascosti tra le fronde degli alberi da frutto. Curatore di numerose mostre – le ultime “Medioevo a Pistoia” e “Masaccio e i maestri del Rinascimento a confronto” a Reggello, entrambe del 2022 – con Stefano Casciu oggi cura la mostra “Beato Angelico”, nella preziosa sezione del Museo di San Marco dedicata alla produzione giovanile del pittore, degli “esordi” e dei confronti con gli artisti del suo tempo. Lo incontro una soleggiata mattina di ottobre a San Marco, prima che cominci una visita guidata che ha promesso a un gruppo di Amici dei musei, in quello che era il suo ufficio, per gentile concessione di Marco Mozzo, l’attuale Direttore del Museo.

La mostra su Beato Angelico è articolata in due sedi, lei cura la sezione di San Marco, degli “esordi” del pittore, nel passaggio dalla pittura tardogotica a quella rinascimentale. Quali opere, tra quelle esposte qui, rappresentano meglio il giovane Guido di Pietro e poi Fra Giovanni da Fiesole?

L’ambizione iniziale era quella di presentare proprio tutta la produzione giovanile conosciuta del pittore. Solo di passata devo sottolineare che purtroppo gli eventi bellici, soprattutto in relazione all’invasione dell’Ucraina, hanno impedito il prestito della Madonna dell’Umiltà di San Pietroburgo, l’opera più antica che gli viene riconosciuta e che sarebbe stato importante avere qui. E poi altre due tavolette, anche queste in Russia, scoperte in anni recenti, che secondo l’ipotesi avanzata da Carl Strehlke a una conferenza dell’anno scorso a Empoli, potrebbero essere appartenute proprio agli sportelli della Madonna di San Pietroburgo. A parte queste mancanze, che ci sono per vari motivi in tutte le mostre, la selezione delle opere più antiche è praticamente completa. Alcune di queste sono anche tra le più controverse e dibattute, come del resto tutta la cronologia dell’Angelico, in particolare quella degli inizi. Bisogna considerare che sappiamo pochissimo di lui, neanche quando è nato con precisione, e anzi io mi chiedo se non sia il caso di prendere in considerazione che il futuro Fra Giovanni possa essere nato nella prima metà degli anni 90 del Trecento, e non nel 1395, come da qualche decennio si crede. Questo agevolerebbe la sistemazione stilistica e cronologica delle opere più antiche, perché uno dei dati fondamentali dell’ultima bibliografia angelichiana è la loro sensibile retrodatazione, fino a 50 anni fa impensabile considerato che tutto partiva dalla Pala di San Pietro Martire, di cui si aveva un documento del 1429. Oggi la Madonna dell’Umiltà dell’Ermitage di San Pietroburgo è datata intorno al 1415.

Beato Angelico, Madonna dell’Umiltà e quattro angeli, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage

Potrebbe essere un’opera di un Angelico appena ventenne.

Non c’è dubbio, perché come sappiamo cominciavano molto presto, però pur essendo la più antica tra quelle che conosciamo, la Madonna dell’Umiltà di San Pietroburgo è già matura da un punto di vista tecnico, dal magnifico trattamento del fondo oro allo sfumato starniniano, quindi questo è un altro problema critico. Perciò, considerata la mancanza di appigli certi, è chiaro che nelle prime opere si riflette questa incertezza, per molte anche di attribuzione, come per la celebre Tebaide

Beato Angelico, Tebaide, Firenze, Museo di San Marco

anche la Crocifissione Griggs…

Anche la Crocifissione Griggs, fino a tempi recentissimi; opera molto interessante perché ci offre la presenza di un’altra mano, accanto alla sua. Certamente è sicuro che l’Angelico abbia dipinto la parte principale con la Crocifissione e i soldati ai piedi della croce, però già lo stesso Strehlke molti anni fa, e poi Bonsanti con molta convinzione, sottolineavano il fatto che le figure dei dolenti in primo piano sono di un’altra mano.

Beato Angelico, Crocifissione, New York, Metropolitan Museum of Art

Trovo anche i cavalieri un po’ sospetti, con quella schiera di cavalli schiacciati sulla destra.

Ma, veramente, la scansione prospettica e spaziale delle figure a cavallo, così come la chiostra di personaggi intorno alla croce, non danno dubbi. Quelle dubbie sono le figure in primo piano.

che sono quasi le più belle…

Non sono certamente della mano che ha dipinto il crocifisso e il resto, identificata con quella dell’Angelico. Certo non sono brutte, ma sono un’altra cosa. Giorgio Bonsanti le definiva di un pittore forse un po’ più conservatore, più “tradizionale”; io direi più grafico, più secco, mentre le figure riferite all’Angelico hanno già la tenerezza pittorica e la dolcezza nelle guance rosate che ritroviamo in altre opere più tarde e che sono una sua cifra stilistica. L’artista che ha dipinto i dolenti ha caratteri diversi, più tardogotici; a me ricorda il Maestro della predella Sherman.

Sembra che nella mostra di San Marco ci sia un Beato Angelico ancora alla ricerca del suo stile, che sta ancora sperimentando; tant’è vero che la Tebaide, la Crocifissione Griggs e il Cristo sagomato, sono opere problematiche…

È perfettamente naturale che sia così, questo vale per tutti gli artisti, è un caso classico della storia dell’arte, perché nella fase iniziale un artista si guarda intorno. Nel caso della Crocifissione Griggs, databile intorno al 1418-1420, collabora con un altro pittore. L’aspetto più interessante che viene fuori è che Angelico era perfettamente inserito nel panorama artistico fiorentino e collaborava con altri artisti. Detto questo, non possiamo azzardare nomi perché Battista di Biagio Sanguigni è ancora tutto sommato un pittore relativamente misterioso, anche se sappiamo che era al suo fianco, e lo sarà per lunghi anni; Zanobi Strozzi era troppo giovane, perché nasce nel 1412, e quindi i conti non tornano. Insomma, la trama è molto larga in questa fase iniziale, però certi punti fermi ci sono, ed è sicuro che Angelico comincia a dialogare molto presto anche con gli artisti a lui vicini, per esempio con Masolino, ma ancora prima con Gherardo Starnina. Ecco perché su una parete sono esposti tutti gli autografi angelichiani e sull’altra i pittori di confronto, proprio per far vedere i rapporti con gli artisti del suo tempo.

Ma secondo lei chi è stato il suo maestro?

Una delle controversie classiche è stabilire chi sia stato il suo maestro. Come per Masaccio. Non è poi così importante stabilire chi gli ha insegnato i rudimenti del mestiere; è importante capire a chi ha guardato. Chi ha guardato nella fase iniziale Beato Angelico? Qui come è noto c’è una divaricazione tra chi indica Don Lorenzo Monaco, il grande artista camaldolese, affermando recisamente, non si sa bene su quali basi, che Angelico sia uscito dalla sua bottega; e poi c’è tutto un altro filone che invece individua nel binomio Starnina e Masolino i veri punti di riferimento. Le opere secondo me parlano in maniera evidente.

Va bene, ci possono essere dei modelli ideali, ma con qualcuno avrà pur fatto il suo apprendistato; senza diventare necessariamente un imitatore dello stile del maestro in qualche bottega avrà imparato a mescolare i colori, lavare i pennelli, trattare i supporti.

Allora è la stessa cosa che dire che si è formato con Lorenzo Monaco, ma non abbiamo nessuna base per crederlo! Se un pittore si forma all’interno della bottega di un maestro, qualche traccia palpabile si dovrebbe vedere nei suoi lavori. Forse nella Pala di San Domenico, in effetti, c’è una citazione compositiva dalla grande Incoronazione di Santa Maria degli Angeli di Lorenzo Monaco, ora agli Uffizi, ma questo è quasi inevitabile, viste le dimensioni, l’ubicazione, e l’importanza dell’opera. Intendiamoci, nessuno dice che non ha guardato a Lorenzo Monaco, però la storia dell’arte intesa come analisi stilistica ci dice che è molto diverso da Lorenzo Monaco, anche nel campo della miniatura. La stessa Ada Labriola, nel suo saggio sull’Angelico miniatore, precisa che nei suoi inizi non ha certo il piglio tagliente, nelle figure e nelle decorazioni, di Lorenzo Monaco. Quindi se ammettiamo che esiste una coerenza fra l’Angelico pittore e l’Angelico miniatore, quello che si può dedurre dalle opere ci porta a credere che abbia guardato soprattutto a Starnina e a Masolino, indipendentemente dal fatto che abbia frequentato fisicamente Starnina, che muore nel 1412. Io cito nel saggio del catalogo un passo impressionante di Filippo Baldinucci della fine del Seicento, in cui lo studioso esprime un giudizio critico, in un’epoca in cui si era persa quasi la memoria dell’Angelico, che può essere sottoscritto anche oggi: Baldinucci sostiene che il giovane Fra Giovanni guarda proprio a Starnina e poi addolcisce ulteriormente la sua maniera, cito a memoria, frequentando Masolino. Baldinucci ripudia con tale veemenza il giudizio vasariano della dipendenza di Angelico da Masaccio, che potrebbe anche darsi avesse trovato qualche appiglio, perché concettualmente, in quel momento, un giudizio critico di tale profondità lascia davvero di stucco. Però, ripeto, brancoliamo ancora nel buio.

Beato Angelico, Pala di Fiesole, Fiesole, Chiesa di San Domenico

Che idea si è fatto di questo artista, capace di gestire committenze diverse, laiche e religiose, di dipingere su formati e supporti diversi, malgrado fosse un frate professo e avesse da adempiere anche ai doveri del ministero sacerdotale? Il suo statuto di religioso lo ha avvantaggiato?

Allora, su quest’ultimo aspetto io credo che lo abbia avvantaggiato, ma non tanto per i motivi diciamo quotidiani della non necessità di iscriversi all’arte o di avere contatti facilitati; credo lo abbia avvantaggiato per la fede indubbia, autentica che quest’uomo aveva, nel senso che effettivamente ha messo la sua arte al servizio della “propaganda del paradiso”, secondo la bellissima espressione della Morante: era davvero un beato e convinto propagandista del Paradiso. Però nello stesso tempo, allargando un po’ il discorso, banalmente siamo davvero di fronte a una delle personalità più straordinarie della storia dell’arte. Questa mostra finalmente ridimensionerà in maniera definitiva la favoletta del pittore solo devoto, con tutte queste figure di santi e madonne, che veniva considerata come una cosa riduttiva, una diminuzione. Voglio citare la recentissima recensione di Andrea De Marchi su “Avvenire”, nella rubrica Agorà, che centra molto bene il nocciolo della questione. De Marchi scrive che la cosa più stupefacente di questo artista è che riesce a rendere in maniera straordinariamente vera e attuale il paradiso e le figure che lo abitano, tutto il pantheon cristiano; ma nello stesso tempo ha una lucidità spaziale e luministica che non ha niente da invidiare né a Masaccio né a Donatello, e le due cose stanno insieme. Io aggiungerei, ed è stato il modesto contributo che ho cercato di portare nel catalogo della mostra, che tutto questo l’Angelico lo fa partendo da una cultura ancora tardogotica, da qui il titolo un po’ spiazzante del saggio che non mi si voleva far adottare perché ritenuto, come dire, troppo complicato: Il maggior pittore del tardogotico fiorentino, anzi un fondatore del primo Rinascimento, ma è quell’ anzi che chiarisce l’ulteriore elemento, l’ulteriore scatto, secondo me, che lo rende un gigante assoluto; anche per questo penso possa essere nato una manciata di anni prima di Paolo Uccello, per esempio, anche lui uomo del Trecento che nasce nel 1397, perché il futuro Fra Giovanni dimostra di conoscere molto bene la pittura del secondo Trecento fiorentino. C’è un saggio molto bello di Gerardo de Simone che cita proprio le fonti visive di questa conoscenza dell’Angelico. Quindi abbiamo di fronte un pittore che svolge una parabola di un respiro che è raro trovare in altri artisti.

Anche se, mi pare, il percorso di Angelico non è poi così lineare, nel senso che c’è ovviamente una crescita espressiva e compositiva, ma con delle forme che rimangono tuttavia trecentesche; il trittico di Cortona e il trittico di Perugia sono divisi ancora in scomparti, e non creano uno spazio unitario come nel caso della Pala di San Pietro Martire, per esempio, e quindi è uno che gestisce codici diversi contemporaneamente, anche adattandosi alla committenza.

È assolutamente giusta questa osservazione, ed è incontrovertibile che dal punto di vista tipologico e morfologico lui resti sicuramente un conservatore. Il modulo morfologico del trittico con il coronamento un po’ ghibertiano che applica per la prima volta su vasta scala nella Pala di San Domenico – opera di snodo fondamentale, che pone termine al periodo controverso della formazione e apre a quello che è il suo stile della prima fase, sempre giovanile – lo mantiene anche dopo. Della prima fase fanno parte capolavori stupendi come le due coppie di Santi provenienti dalla sagrestia di San Domenico, di collezione privata, che sono tra le opere più belle in assoluto del pittore, di una maturità che supera addirittura la Pala di San Domenico e credo che quindi abbiano ragione coloro che le pongono subito dopo, tra gli altri Miklòs Boskovits; sono figure che fanno da ponte con la bellissima Crocifissione di Oxford che pure è giovanile, ipoteticamente del 1424-25.

Beato Angelico, Santa Caterina d’Alessandria e san Giovanni Battista; Santo vescovo e sant’Agnese, collezione privata
Beato Angelico, Crocifissione, Oxford, The Ashmolean Museum; University of Oxford

Anche la predella della Pala di Fiesole sembra più evoluta, rispetto alla tavola principale.

Sembra un pochino più evoluta e si presuppone che ci sia stato uno iato, appunto, perché un’opera simile è chiaro che non la si poteva eseguire nello spazio di qualche mese. Però, dicevo, resta un po’ conservatore negli aspetti tipologici, e questo è verissimo perché con questo schema va avanti fino al Trittico di Cortona, del 1437, e prosegue in opere molto tarde, addirittura quello di Perugia, che è commissionato nel 1437 e terminato nel 1443. Questa potrebbe essere una sua peculiarità diciamo, oltre al fatto che la committenza prevalente era dei conventi, tendenzialmente più conservatrice da questi punti di vista. Ma c’è un altro aspetto che va sottolineato. Questa dicotomia, questa divaricazione fra forme un pochino conservatrici nella tipologia morfologica dei complessi e la realtà della pittura nei suoi vari aspetti, salta agli occhi in maniera evidente già nello stupendo Trittico francescano, che dopo la mostra tornerà a San Marco. C’è un contrasto incredibile fra le figure del registro principale, recuperate in una maniera prodigiosa dal restauro, e le storie della predella, che sono di una perspicuità spaziale, prospettica da lasciare di stucco. Se uno dà un’occhiata superficiale alla parte principale del complesso, vede la solita parata di santi della Pala di San Pietro Martire e poi di Perugia; ma se si sofferma sulla predella si accorge che è di una bellezza incredibile.

In tutte le opere dell’Angelico le predelle sono incredibilmente belle.

Appunto, questo ritorna anche in altri casi, viene fuori l’aspetto forse più narrativo, più legato alla vita reale.

Forse viene fuori anche il piacere del racconto, dell’affabulazione, un divertimento maggiore dell’artista.

Sembra proprio che gli sia congeniale questo particolare aspetto della pittura, la tavola di predella. Infatti, anche la serie di cui fa parte l’Imposizione del nome del Battista di San Marco, che ancora non sappiamo legare ad alcun complesso, è di una bellezza straordinaria, ed è la prova ulteriore che quando Angelico si cimentava con queste piccole storie toccava vertici incomparabili. Comunque è giustissimo: mantiene sempre una fedeltà alle tipologie tardogotiche, però evolvendo anche in quelle.

È come se sfuggisse a qualsiasi definizione. È moderno ma rimane legato a una tradizione tardogotica, è capace di gestire la prospettiva e il linguaggio classicistico all’interno di tipologie trecentesche…

Questo è stato sottolineato molto bene ed è un concetto di assoluta grandezza e autonomia dell’artista rispetto a una tradizione. Poi, il fatto che lui evolva a livelli straordinari ce lo dice la sezione di Roma a Palazzo Strozzi, dove secondo me all’Angelico si attaglia bene la famosa formula zeriana di “pittura senza tempo”, perché lì davvero sembra anticipare i dettami della Controriforma: i dipinti hanno una solennità senza tempo, una devozione proprio intima che davvero, fatte le dovute proporzioni, sembra anticipare Scipione Pulzone. Nel periodo romano viene fuori anche un’altra componente della sua arte difficile spiegare, la componente fiamminga nordica; con dei brani di una bellezza che proprio non teme confronti con i grandi maestri della pittura fiamminga.

Dove li ha visti questi modelli fiamminghi?

A Roma forse, o in qualche miniatura, o nel contesto delle collezioni medicee a Firenze. Però il livello qualitativo è così alto che probabilmente è un ulteriore registro suo, perché il grado di precisione che riesce a sviluppare è tale che ci sembra inevitabile il confronto con la pittura fiamminga. La tavola della Crocifissione con la Vergine e i Santi Brigida di Svezia e Nicola di Bari, con Santa Brigida che si fa colare la cera sulla spalla nuda, presentata per la prima volta in questa mostra, conosciuta solo per vecchie foto in bianco e nero, ha dei brani di assoluta pregevolezza. San Nicola con i suoi panneggi è di una bellezza, di una lucidità ottica eccezionali. È una pittura velata quasi, non solo le figure hanno gli occhi velati, è tutto velato e sembra proprio un dipinto del Cinquecento, con questi afflati estatici, e siamo alla fine praticamente, negli anni Cinquanta del Quattrocento, quindi vuol dire che fino all’ultimo quest’uomo incrementa quello che è lo spessore spirituale della sua attività che, ripeto, è indubbio.

Beato Angelico, Crocifissione con la Vergine e i santi Brigida di Svezia e Nicola di Bari, Collezione privata

Secondo lei c’è qualche artista che ha saputo raccogliere l’eredità di Beato Angelico, anche quelli della generazione dopo?

Nel senso più semplice, di tipologia e di stile, li conosciamo, quelli più vicini a lui: abbiamo Zanobi Strozzi, che è un registratore della pittura di Angelico, un devoto, con risultati anche apprezzabili, come la pala di Sant’Egidio, esposta a Palazzo Strozzi proprio per documentare gli sviluppi dell’arte della sua cerchia; poi certamente Benozzo Gozzoli, che si stacca da una costola sua e che, a differenza di Zanobi Strozzi, è anche in grado di proporre una sua linea personale sempre di alto livello. Poi ci sono gli eredi ideali. Potrei dire che una forza spirituale di questo calibro si può trovare in Francisco de Zurbaran. Oggi forse bisognerebbe arrivare a Giovanni Gasparro, ma apriremmo tutta un’altra serie di questioni (Tartuferi ride, ndr)

Angelico può essere definito un artista popolare? Cioè, i suoi soggetti sacri, il suo linguaggio colto, il suo umanesimo cristiano, riescono ancora a raggiungere il grande pubblico come facevano nel Quattrocento?

Non le faccio nemmeno finire la domanda: assolutamente sì! E l’hanno detto in tanti, ancora lo stesso De Marchi nella recensione che ho già citato, perché un’altra sua dote è la facilità di parlare anche alle persone più semplici. Certamente queste manifestazioni del dolore, questa partecipazione emotiva bucavano, come si dice oggi; anche la persona meno colta era in grado di leggere il suo messaggio di fede. Popolare nell’immediatezza e anche per gli aspetti di realtà masaccesca, che favoriscono un approccio diretto col pubblico. Masaccio in questo era un maestro: nella Cappella Brancacci ci sono delle fotografie meravigliose del suo tempo, con gli storpi e i mendicanti nei vicoli di Firenze. Angelico non era da meno, anche se il suo naturalismo era tutto Sub specie aeternitatis, mai brutale, come invece quello di Masaccio a tratti poteva apparire.

Forse il livello impareggiabile della sua pittura arriva ancora oggi non soltanto per i contenuti, ma proprio per le forme. Personalmente temevo un effetto saturazione visitando la mostra a Palazzo Strozzi, ma è come se tutto quello che vediamo non fosse abbastanza.

Banalmente la sua pittura è troppo bella. Soprattutto se uno riesce a soffermarsi sui dettagli, sulle aureole che sono dei corpi riflettenti straordinari, una bellezza che va gustata lentamente. Bisogna avere la forza fisica di restare molto tempo davanti alle opere, perché il primo sguardo certo appaga, però veramente si sale di livello quando uno riesce a immergersi nei dettagli.

Perché non è una pittura facile, è una pittura molto stratificata, in cui ogni pennellata ha un senso, non c’è mai niente di gratuito o di esornativo.

La mostra è irripetibile e bisognerebbe visitarla molte volte, basti pensare all’opportunità di vedere ricomposte le predelle: è un mondo che ti sia apre. Se uno pensa a tutta la predella della Pala di San Marco, con la qualità eccelsa che offrono le singole scene, la sepoltura di Cosma e Damiano in Piazza San Marco, e così tutti gli altri tentati martirii, ognuna di esse ha degli aspetti storici, iconografici, atmosferici, architettonici che sono insuperabili.

Beato Angelico, Sepoltura di Cosma e Damiano e dei loro fratelli con il dromedario che parla (“Nolite eos separare a sepoltura, quia non sunt separati a merito”= Non separateli nella sepoltura, perché non sono separati nel merito), predella Pala di San Marco, Firenze, Museo di San Marco

A questo proposito, visto che la predella della Pala di San Marco è qualcosa di gigantesco, quando volgiamo lo sguardo alla vicina predella della Pala di Annalena, abbiamo la sensazione che non sia dello stesso artista.

Non è sua certamente, la critica ha fatto varie ipotesi, quella giusta, prospettata da Salmi e Scudieri, è che si tratti di un’altra mano, verosimilmente di Battista di Biagio Sanguigni. Se uno passa in rassegna tutte le miniature del bellissimo antifonario che viene dal monastero agostiniano di Santa Caterina a San Gaggio, esposto nella biblioteca di San Marco, per il quale i documenti ci dicono che nel 1432 viene pagato Battista di Biagio Sanguigni, e le confronta con le figure della predella della Pala di Annalena, si accorge che alcune teste, nel disegno con i riccioli biondi, sono sovrapponibili. È sicuro: la mano che ha dipinto quelle miniature è del Sanguigni, collaboratore di Angelico.

Del resto Sanguigni si trasferisce a Fiesole nel 1430 proprio dietro al Conventino di Fiesole, dove Fra Giovanni aveva la sua bottega.

Era un suo collaboratore anche in altre opere, probabilmente. Lui aveva una squadra di collaboratori anche a San Marco, vista la vastità dell’impresa. Battista di Biagio era poco più vecchio di Fra Giovanni, quindi di esperienza, era miniatore ma anche pittore, perché in un documento viene citato come pittore, e recentemente gli sono state attribuite anche altre opere, non è corretta l’identificazione con il cosiddetto “Maestro del 1419”, che è una bella figura stralunata del tardogotico, ma il vero Battista di Biagio è quello che possiamo legare ai documenti.

Il trittico in mostra a San Marco attribuito al “Maestro del 1419” potrebbe essere un’opera di Battista di Biagio Sanguigni?

Io l’ho messo come “Maestro del 1419”, registrando questa possibile identificazione con Battista di Biagio Sanguigni di Larry Kanter del 2005, ma non tutti sono d’accordo, già Boskovits espresse parere negativo quando fu ventilata. Però ha comunque diritto di cittadinanza in questa mostra perché più di uno studioso lo riferisce a Sanguigni.

Maestro del 1419 (Battista di Biagio Sanguigni?), Trittico: San Giacomo Maggiore e San Mauro; Madonna col Bambino in trono con due angeli e devoti; San Giovanni Battista e Sant’Antonio Abate, Collezione privata

Ultima domanda: Qual è la sua opera del cuore di questa mostra?

Domanda quasi impossibile, credo di averlo detto nella scheda relativa e forse anche in questa conversazione. Trovo di una bellezza straordinaria le due tavolette con le coppie di santi che erano nella sacrestia di San Domenico, oggi di collezione privata; misteriose perché non si sa bene quale fosse la loro situazione d’origine. Varie ipotesi le hanno accostate alla Madonna di Cedri, o alla Crocifissione di Oxford, ma in realtà non tornano le misure, e poi bisogna considerare che la parte superiore è stata ingrandita, hanno subito un trasferimento di supporto. Potevano essere gli sportelli di un mobile per reliquie. Qualunque fosse la loro funzione, sottolineano la grande importanza del conventino di San Domenico a Fiesole, oscurata ai nostri giorni da San Marco, percepito a livello mondiale come il convento dell’Angelico. Ecco, questa mostra sarà l’occasione per ribadire che, in realtà, il convento di San Domenico era la sua base e il suo deposito eccezionale di opere, perché se andiamo a fare l’inventario di quello che c’era oltre a quello che è rimasto, uno si rende conto dell’importanza che aveva quel luogo per l’ordine, primo convento dell’osservanza domenicana, e soprattutto per lui, per il suo sviluppo artistico, infatti lì c’erano opere fondamentali, non solo dei suoi esordi (Annunciazione del Prado, Incoronazione della Vergine del Louvre, l’affresco con la Crocifissione con i dolenti e San Domenico, del Louvre, ndr). Per cui quelle due coppie di santi per me dicono molto di Fra Giovanni, soprattutto nella sua fase giovanile.

Avrei detto la Pala di San Pietro Martire, ma forse quella è un primo amore…

Resta un grande amore! L’ho utilizzata ampiamente anche in questa mostra, dopo quella del 2022 nella casa di Masaccio a Reggello. È molto utile il confronto con il Trittico di San Giovenale, anche per chiarire definitivamente che non occorre mettersi in angoscia per stabilire chi viene prima e chi viene dopo, tra Angelico e Masaccio, se un’opera è desunta dall’altra, in maniera incrociata. L’amico Strehlke dice che quando si fanno questi confronti bisogna stare attenti a quale delle due è stata dipinta prima e quale dopo; io concluderei che questi due straordinari geni sono diversi tra loro, lavorano in parallelo, si guardano certamente, ma stabilire una gerarchia cronologica è un ulteriore esercizio, un po’ come trovare il loro maestro, che serve fino a un certo punto. Uno deve verificare nelle varie opere quanto è importante il confronto con l’altro. Per Angelico la Madonna dell’Uva, che purtroppo non abbiamo potuto avere in mostra, segna il punto di massimo confronto con Masaccio, l’opera più consapevolmente masaccesca nell’intimo, pur restando profondamente angelichiana, tu vedi una forza, un’immanenza che è proprio al livello della Sant’Anna Metterza, le puoi mettere accanto e capisci che Beato Angelico non aveva bisogno di citare, aveva capito tutto e lavorava in piena autonomia.

Carmelo Argentieri

Confronto tra il Trittico di San Giovenale di Masaccio (a destra) e la Pala di San Pietro Martire di Beato Angelico (a sinistra)

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