Intervista a Angelo Tartuferi. Il mestiere dello storico dell’arte nei musei: un bilancio

Dott. Tartuferi, parliamo della sua formazione: quanto è stato influenzato dall’insegnamento di Mina Gregori e Miklós Boskovits?

Posso dire di essere cresciuto grazie ai maestri che mi hanno insegnato i rudimenti del mestiere, le basi di questa attività, e i nomi che lei pronuncia sono stati fondamentali per me. Con Mina Gregori mi sono laureato. È stata lei a introdurmi alla storia dell’arte, a questa disciplina stupenda per la quale io già nutrivo, prima di entrare all’università, una certa passione, in un contesto più ampio. Ero appassionato anche di archeologia ma poi, una volta all’università, seguendo le lezioni di Mina Gregori mi sono decisamente indirizzato verso la Storia dell’Arte. A lei devo una formazione solida nel campo degli studi storico-artistici ed è stato fondamentale, direi decisivo, l’avermi poi messo a bottega, come si usava fare con i giovani che iniziavano l’attività di pittore e artista, da Miklós Boskovits, grande studioso di pittura fiorentina del Medioevo che lavorava all’Istituto germanico di Storia dell’Arte di Firenze. Quando si esce dall’università, anche se si è avuto un insegnamento importante e straordinario come quello di Mina Gregori, non si ha il contatto con la pratica quotidiana della disciplina; invece, con Boskovits ho imparato come si fa ricerca, come si affrontano i problemi, come si interrogano le fonti: appunto il mestiere.

Quanto deve a maestri del passato come Giovanni Battista Cavalcaselle, Richard Offner e Roberto Longhi?

Roberto Longhi e Richard Offner sono per me, senza essere blasfemi, i “santi” sullo sfondo, figure eminenti che hanno affrontato e rivelato interi periodi della storia dell’arte e che quindi restano sempre dei punti di riferimento. Purtroppo, non ho conosciuto direttamente né l’uno né l’altro, ma è come se fossero degli illustri conoscenti che si incontrano almeno una volta nella vita e poi li segui per sempre. Ora, per esempio, insieme a molti altri studiosi, ho preparato un piccolo contributo per una nuova edizione delle opere di Roberto Longhi, perché naturalmente i suoi saggi straordinari continuano a essere ripubblicati, interpretati, studiati e quindi mi sono recentemente accostato ancora una volta a Longhi proprio per questo. Quanto a Giovanni Battista Cavalcaselle, la cui attività è stata argomento della mia tesi di laurea, per me è forse il patriarca, il padre nobile della storia dell’arte moderna.

Secondo Lei, come si stanno evolvendo le nuove metodologie di indagine nella Storia dell’Arte in relazione alla connoisseurship, il metodo filologico, l’iconografia, l’iconologia e la diagnostica?

Qui si aprono possibilità straordinarie: tutto il discorso sull’intelligenza artificiale, per esempio, va preso con le pinze, secondo me. Anche a livello politico si cerca di dare delle normative però, al di là di questo, le nuove tecniche diagnostiche sono prodigiose. Ora si può davvero scandagliare un dipinto, la sua superficie pittorica in maniera non invasiva. Ormai con delle tecniche specifiche si riesce a distinguere tutti i vari strati pittorici e capirne la natura; raffigurarli poi sui diagrammi senza intervenire sull’opera, e quindi penso anche alle possibilità delle ricostruzioni digitali, a tutto lo sviluppo della fotografia. Ne abbiamo avuto un esempio recente alla mostra che è stata fatta a Perugia sul Maestro di San Francesco (La mostra alla Galleria nazionale dell’Umbria è stata curata da Andrea De Marchi, Veruska Picchiarelli, Emanuele Zappasodi, n.d.r.) dove tutti gli affreschi della basilica Inferiore d’Assisi, molto frammentari, sono stati ripresentati in un bellissimo video con una ricomposizione virtuale realizzata fedelmente con laserscanner 3D. La ricomposizione grafica, seguendo le poche tracce che sono arrivate a noi, può rappresentare in maniera efficace questo ciclo frammentario di affreschi, facendo vedere i brani superstiti ma anche la ricostruzione più probabile. Anche in questo settore le nuove tecnologie non vanno impiegate aprioristicamente come oro colato, però effettivamente l’anastilosi digitale è in grado di offrire grandissime possibilità utili a tutti gli studiosi. Concludo dicendo che personalmente, soprattutto per questioni generazionali, sono più legato, nella pratica del mio lavoro, alla vecchia tendenza dell’analisi filologico-critico-stilistica, con grande attenzione alla filologia, perché questo è stato l’insegnamento di Boskovits, fondato su quello di Offner, cioè la distinzione delle mani, l’autografia o meno di un dipinto, la definizione di quelle che sono le basi della connoisseurship. Il lavoro del conoscitore, appunto, che deve consumarsi gli occhi tutta la vita sugli originali e sulle fotografie per conoscere i testi figurativi e metterli a confronto. Un altro grande storico dell’arte, Max Friedländer, definiva il conoscitore uno storico dell’arte laconico, uno di poche parole. Federico Zeri, un altro grande conoscitore del secolo scorso in Italia, forse il più grande in assoluto, si poneva i problemi essenziali di fronte a un dipinto: ci ha insegnato a chiederci in che epoca, in quale contesto è nato, quando lo possiamo datare e, eventualmente, a chi lo possiamo attribuire. Questo è il primo gradino, poi segue lo studioso dei documenti, quelli di iconografia e di iconologia, che ci metteranno a disposizione moltissime altre informazioni.

Sappiamo che curerà la prossima mostra di Palazzo Strozzi su Beato Angelico nel 2025, ha una visione comune agli altri curatori, Stefano Casciu e Carl Brandon Strehlke, o c’è una differenza di approccio?

In realtà il “commissario” della mostra, come dicono i francesi, il curatore principale, è Carl Brandon Strehlke, studioso di fama internazionale che al Beato Angelico ha dedicato gran parte delle sue ricerche. Differenze no, anzi direi che noi tre curatori abbiamo una visione comune. La mostra sarà un’occasione bellissima, un evento storico. Per la prima volta potremo vedere riunita la quasi totalità dell’opera dell’Angelico e quindi ci sarà la possibilità di fare un bilancio enorme sulla sua arte.

La Pala di Fiesole è in restauro. Quali novità possiamo aspettarci dal punto di vista dei restauri?

Ci saranno molti restauri importanti; non posso scendere nei dettagli perché ancora c’è tempo e si sta lavorando, ma porteranno molte novità interessanti per capire la genesi e lo sviluppo di questi complessi davvero fondamentali: la pala di San Domenico di Fiesole, la pala di Santa Trinita, e quindi la possibilità addirittura di vederli ricomposti, non virtualmente come si diceva prima, ma nella realtà. Quindi una cosa straordinaria e unica che davvero può capitare una volta sola nella storia.

Che ne pensa delle mostre odierne confrontandole con quelle di trent’anni fa?

Una mostra seria di storia dell’arte, soprattutto di arte antica, si deve fondare su elementi che non sono soggetti ai cambiamenti epocali; cioè bisogna tener conto delle fonti, fare un rigoroso esame della bibliografia, fare i restauri, questo avveniva anche in passato. Grandi differenze con le mostre del passato possono esserci soprattutto nel modo di presentare l’evento, grazie alle tecniche di comunicazione oggi esistenti. Talvolta si sente parlare di riproduzioni degli originali di altissimo livello, ma fare mostre con le riproduzioni è una cosa terrificante. Insomma, le mostre si fanno con gli originali, belli o brutti che siano, anzi proprio per far vedere ed educare il pubblico al concetto della qualità artistica ed esecutiva delle opere. Non meno importante nelle mostre è la considerazione della materia dei dipinti, le vicissitudini che hanno subito le opere nel tempo. Bellissime riproduzioni ci possono essere, però a margine degli originali; si possono proporre filmati che, grazie alla tecnologia digitale, possono restituire aspetti che altrimenti si perderebbero, come la ricomposizione degli affreschi, oppure dei filmati in altissima definizione che fanno vedere particolari di un’opera che a occhio nudo non sarebbero neppure lontanamente immaginabili. Anche questo per il visitatore può essere motivo di meraviglia. Più che la differenza con le mostre del passato, è l’esperienza di visita che oggi può essere diversa grazie alle novità tecnologiche, ma il criterio essenziale delle mostre fatte bene, tutto sommato, è lo stesso di un secolo fa.

Ad agosto andrà in pensione, quali sono i progetti che è riuscito a concludere durante la sua direzione del Museo di San Marco?

Devo dire che personalmente mi assolvo, nel senso che alcune cose importanti sono state portate a termine, considerate le condizioni date, in un periodo anche di cambiamenti e di difficoltà di riorganizzazione amministrativa. Ho avuto la fortuna di poter cominciare nel maggio del 2020 con il nuovo allestimento della sala dedicata al Beato Angelico, inaugurata a dicembre grazie alla sponsorizzazione dei Friends of Florence, che da anni hanno “adottato” il Museo esprimendo nei confronti del luogo un’ammirazione speciale, con effetti molto positivi. In sintesi, devo ammettere di essere contento perché le altre operazioni portate a termine sono soprattutto degli allestimenti: uno è quello del cosiddetto Quartiere di Savonarola, l’altro è quello della cella tradizionalmente ritenuta di Sant’Antonino Pierozzi. Due figure fondamentali che erano state messe in ombra proprio dalla personalità dominante di Beato Angelico. Si pensi che all’epoca dell’inaugurazione del museo nel 1869, c’era grande attenzione alla tradizione domenicana di questo luogo. Tutto qui a San Marco è dovuto ai domenicani, e quindi era giusto e importante rimettere in luce queste personalità fondamentali. D’altra parte, fu Antonino Pierozzi, priore quando lavorava l’Angelico a San Marco, ad autorizzare il suo confratello artista a dedicarsi alla meravigliosa decorazione a fresco del convento. Si è trattato quindi di sottolineare nuovamente l’importanza dello sviluppo storico di questo luogo, uno dei più simbolici della città, come amo ripetere sempre. L’ho ribadito anche alcune settimane fa, il 13 giugno, quando abbiamo celebrato la figura di Suor Plautilla Nelli, che non risiedeva qui ma nel vicino ex convento di Santa Caterina da Siena in Cafaggio, e che era l’esponente femminile della cosiddetta Scuola di San Marco, ammiratrice devota delle opere di Fra Bartolomeo e di Fra Paolino da Pistoia.

Quali sono i progetti che la prossima direzione dovrà portare avanti?

Sono davvero ottimista per il futuro del Museo di San Marco. La prossima direzione porterà a compimento il cantiere da poco avviato per realizzare finalmente un ascensore che porterà dal piano interrato al piano della Biblioteca di Michelozzo; nuovi servizi igienici, un guardaroba, la nuova uscita. Tutti progetti ormai in corso di realizzazione con grandissima attenzione e impegno da parte dell’architetto Andrea Gori. Saranno da verificare poi nuove modalità di apertura e di orario non soltanto per il Museo di San Marco, ma anche per i siti museali collegati, compatibilmente con la dotazione di personale disponibile.

In base alla sua esperienza di funzionario e direttore dei musei più prestigiosi di Firenze come gli Uffizi, la Galleria dell’Accademia, Palazzo Pitti, San Marco e Cenacoli, qual è la sua visione sul futuro dei musei fiorentini, e cosa si potrebbe fare per valorizzare ancora di più i musei del territorio, del Chianti, Mugello, ecc.?

Spetta naturalmente al Ministero della Cultura definire queste prospettive; personalmente spero emerga in misura maggiore l’attenzione agli indirizzi di natura tecnica e culturale. È chiaro che a Firenze abbiamo una prospettiva completamente diversa rispetto ad altre parti del Paese, nel senso che qui prevalgono, com’è naturale, i grandi musei autonomi e, anzi, alcuni saranno accorpati, come succederà fra breve con la Galleria dell’Accademia e il Museo Nazionale del Bargello. Dunque, la nostra è una percezione molto diversa rispetto all’enorme ricchezza del patrimonio artistico italiano diffuso, con realtà bellissime anche nei luoghi più sperduti. Quando una persona gira per l’Italia, si accorge che cose straordinarie si trovano, a volte, in luoghi quasi irraggiungibili. Ricordo, per esempio, che durante un’estate, per andare a vedere la Chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio Corone in Calabria, sono occorse ore di macchina per arrivare in un luogo bellissimo e di eccezionale importanza per la pittura bizantina in Italia, che però era totalmente fuori mano. A Firenze ormai la tendenza prevalente è quella di riunire i maggiori musei della città, quasi per concentrare le grandi masse del turismo in questi luoghi. Occorre ammettere però che da un certo punto di vista a Firenze è difficile fare diversamente; chi viene qui, magari per una volta nella vita, non va a cercare le cose anche bellissime che sono in periferia o tra Firenze e Siena, nel Chianti, ma desidera ammirare i capolavori conosciuti in tutto il mondo di Botticelli e Leonardo, e di questo ne dobbiamo prendere atto. Tuttavia degli elementi positivi ci sono: per esempio, per gli Uffizi la situazione sembrerebbe molto cambiata rispetto al problema degli ingressi, grazie alla vendita dei biglietti tramite cellulare con il QR Code, e pare che le attese si siano ridotte addirittura del 60%. Con le nuove tecnologie, un po’ di inventiva e di coraggio, si potranno migliorare molte situazioni. L’auspicio è che, a livello più generale, non ci si dimentichi appunto del patrimonio diffuso che è il connotato più significativo e caratteristico dei beni culturali del nostro Paese. È inutile ripetere che abbiamo il 70% del patrimonio culturale del mondo se poi ne dimentichiamo in sostanza una grande porzione.

Anthony Ivan Aparicio Bautista

Angelo Tartuferi e Anthony Ivan Aparicio Bautista, nell’ufficio del Direttore del Museo di San Marco.

Anthony Ivan Aparicio Bautista è nato a Lima (Perù) nel 2000; una volta laureato in Scienze della Formazione Primaria presso l’Università Cayetano Heredia e aver lavorato a New York, si è trasferito a Firenze, città di cui è innamorato. È a Firenze che ha scoperto la passione per la Storia dell’Arte e il patrimonio culturale fiorentino. Attualmente è iscritto al Liceo Artistico Leon Battista Alberti -Dante.

Anthony Ivan Aparicio Bautista, con i suoi fratelli e Angelo Tartuferi, davanti alla grande tela con San Ludovico Bertrando e Santa Rosa da Lima, collocata nel corridoio del Seicento, tra i due chiostri del Museo di San Marco.

Dedico questa intervista alla mia famiglia, in particolare a mia nonna Delfina Marcela Abad Tapiade Aparicio (mamá Fina) e ai miei zii Pedro Dionisio Bautista Inga e Hermina Vilcarano Perez.

Dal profondo del mio cuore vorrei ringraziare: Giovanni Lacorte, Marianna Fusco, Piero Quaranta, Moreno Bucci, Franco Bacchelli, Alessandro Serrani e Mauro Marrani. Ringrazio inoltre gli studenti del corso di laurea magistrale in Storia dell’Arte Raffaele Primotici e Tommaso Rossi. Ringrazio le Direzioni e il personale dei seguenti Istituti: Biblioteca di Storia dell’Arte dell’Università degli Studi di Firenze, la Biblioteca delle Oblate, la Biblioteca della Toscana Pietro Leopoldo, il Liceo Artistico Leon Battista Alberti-Dante. Ringrazio infine Alessandro Santini e Carmelo Argentieri del Museo di San Marco.

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