Il giardino dell’anima di Sant’Antonino da Firenze: l’Opera a ben vivere, Beato Angelico, Caterina da Siena

Al termine delle celebrazioni per il quinto centenario (1523-2023) della canonizzazione di Antonino Pierozzi, fondatore del convento di San Marco e vescovo di Firenze, mi fa piacere segnalare due iniziative editoriali che consentono, anche al di là della cerchia degli specialisti, di riscoprire questa figura fondamentale del primo Quattrocento fiorentino.

Copertina Caterina

La prima pubblicazione, promossa dai frati domenicani di Firenze e Siena, è in realtà una ristampa: S. Antonino Pierozzi O.P., Storia breve di S. Caterina da Siena Terziaria Domenicana, a cura di P. Alfredo Scarciglia O.P., Cantagalli, Siena 2002. Si tratta di un prezioso estratto dal celebre Chronicon (o Summa Historialis) dello stesso Antonino, tradotto dall’originale latino dal domenicano P. Tito Sante Centi. Il testo originale si trova nel Libro Terzo del Chronicon, al Titolo XXIII (sull’origine dell’ordine dei predicatori e dei suoi santi padri), al Capitolo 14: de sancta Katherina de Senis, una breve “vita” cateriniana che, con poche varianti, è sostanzialmente una versione ridotta della Legenda Maior di Raimondo da Capua, prima e fondamentale biografia della mistica senese.

Antonino conferma di essere un paziente raccoglitore e compendiatore di fonti (nella Summa Theologiae paragona il suo lavoro a quello di una formica), nonché un abile divulgatore, più pastore che astratto teologo. Allo stesso tempo, Antonino mostra apertamente la devozione “filiale” per Caterina da Siena, ispiratrice della riforma domenicana, l’Osservanza, di cui lui stesso fu propagatore proseguendo l’opera dei suoi maestri Giovanni Dominici e Lorenzo da Ripafratta, ferventi “caterinati”.

Nella Presentazione di P. Scarciglia, incentrata sul restauro del monumento funebre di Caterina nella chiesa della Minerva a Roma, eseguito negli anni 1999-2000, si ricorda che fu proprio Antonino, durante il priorato romano, a voler rinnovare il sepolcro della terziaria domenicana, auspicandone la canonizzazione, in un clima di ripresa dell’Osservanza dopo l’elezione a Maestro dell’Ordine di Bartolomeo Texier. Racconta lo stesso Antonino: “Dopo la sua onorifica sepoltura nel suddetto convento e chiesa di S. Maria sopra Minerva, il corpo della santa vergine Caterina fu trasferito nella medesima chiesa l’anno 1430 durante il mio priorato. Fu trasferito per una sepoltura più eminente situata in una delle cappelle minori e deposto in monumento marmoreo. Il suo corpo era ridotto in polvere: erano rimaste solo le ossa” (Storia breve di S. Caterina , pp. 121-22).

SMsM_Santa_Caterina_di_Sienabis

Dell’intervento antoniniano rimane il coperchio del sarcofago, con, scolpita, una bella figura di Caterina giacente, a grandezza naturale, un tempo creduta di Isaia da Pisa (attribuzione di J.J. Berthier), ma più probabilmente, come ha confermato il restauro che ha asportato la ridipintura ottocentesca, da ricondurre ad un atelier di “marmorari” romani (Storia breve di S. Caterina, p. 23; Bianchi 1988, pp. 23-31), non senza, forse, un’apertura “alle novità provenienti dall’esterno, probabilmente dalla Toscana” (Tiberia 2013, p.700).

copertina edizione 2023

Alla seconda pubblicazione, curata dai frati domenicani di Firenze, vorrei dedicare una riflessione più approfondita. Si tratta di Sant’Antonino da Firenze, Opera a ben vivere, con introduzione di Gabriele Giordano M. Scardocci OP, Phronesis Editore, Palermo 2023. Dopo tanti anni dall’edizione ormai introvabile del 1961, a cura di Mons. Giulio Lorini per Cantagalli, la più nota e originale fra le opere in volgare di Antonino viene finalmente riproposta, in veste economica, nella collana “Tascabili della Spiritualità” di Phronesis.

Il testo, con qualche piccolo refuso emendabile nelle future ristampe, è, alla lettera, quello della prima edizione del 1858, a cura di Francesco Palermo, senza aggiustamenti in lingua corrente o note esplicative. Una scelta che, anche a costo di scoraggiare qualche lettore odierno, valorizza giustamente il bel volgare fiorentino del primo Quattrocento, poiché il testo antoniniano – è bene ricordarlo – non è solo “un’opera di edificazione religiosa in pieno umanesimo, ma anche un documento di eccellente scrittura italiana in tempi che i migliori sdegnavan di scrivere in volgare, preferendo la lingua di Cicerone” (da Angelini 1926, introduzione).

Da qui in avanti, le frequenti citazioni dell’opera saranno in corsivo senza virgolette. Che la leggiate spesso – scrive Antonino nelle prime pagine – a ciò che meglio possiate intendere il senso mio. Ecco, così ho cercato di fare, leggendo e rileggendo, offrendone una sintesi personale usando per lo più le stesse parole del testo e, al contempo, inseguendo liberamente percorsi e suggestioni. Come dice a un certo punto Antonino, m’è paruto di scriverlo un poco lunghetto, e di questo chiedo scusa ai lettori del blog. Aggiungo che, se non ci trovate cosa che vi soddisfacci, reputatelo alla mia ignoranza.

copertina Palermo 1858

L’edizione del 1858 si basa su un manoscritto scoperto da Francesco Palermo nella Biblioteca nazionale di Firenze (codice Palatino, serie Capponi 225), replicato poco più tardi con alcune varianti in un codice della Biblioteca Riccardiana (Ricc. 1683). Nella Prefazione, prendendo in esame lingua e contenuti, Palermo attribuisce l’opera a S. Antonino, sostenendone anche l’autografia, e propone una datazione compresa fra il 1450 e il 1454, durante l’episcopato.

Da una nota di possesso del primo manoscritto, lo studioso riconosce come destinatarie due sorelle dell’illustre famiglia dei Tornabuoni, alleata dei Medici: nella prima versione (cod. Palatino) Dianora, moglie di Tommaso Soderini, madre del gonfaloniere “a vita” Piero e zia di Lorenzo il Magnifico; nella seconda versione (cod. Riccardiano) Lucrezia, moglie di Piero de’Medici e madre di Lorenzo il Magnifico. Le conclusioni di Palermo, tranne qualche riserva di Maria Pia Paoli (Paoli 1999, pp. 25-26), sono generalmente condivise.

manoscritto palatino
Confronto fra la grafia del manoscritto dell’Opera a ben vivere (Codice Palatino) e alcuni scritti autografi di Antonino (Palermo 1858, pp. XX-XXI e tavola allegata)

L’Opera a ben vivere fa parte dei testi in volgare che Antonino, sull’esempio di Giovanni Dominici -si pensi agli scritti per Bartolomea degli Alberti- dedicò alla cura spirituale di chierici, religiosi e soprattutto laici, in particolare donne istruite e di alto rango, in un contesto, fiorentino e domenicano, in cui “maturò la direzione spirituale come complementare alla confessione sacramentale (…) come forma più complessa ed intima di edificazione delle coscienze” (Paoli 1999, p. 17).

“Se nella teologia antoniniana” – osserva P. Fabrizio Cambi OP – il vescovo è compreso quale sponsus della propria diocesi, nei confronti del suo popolo egli sentiva una tale responsabilità quasi ne fosse il padre, ed è probabilmente proprio per questo che non di rado dedicava tempo ed energie alla sua gente spendendosi nella catechesi, nella predicazione, nella scrittura e, in certi casi, nella direzione spirituale” (Cambi 2023, p. 14).

Su questa linea, Antonino scrisse dunque l’Opera a ben vivere per Dianora e Lucrezia Tornabuoni; a Ginevra Cavalcanti, vedova di Lorenzo de’ Medici fratello di Cosimo il Vecchio, destinò l’epistola consolatoria nota come Regola di vita cristiana o De Viduitate; a Dada (Diodata) degli Adimari è indirizzata la maggior parte delle sue lettere; per Annalena Malatesta e le “donne” del monastero da lei fondato scrisse il trattato La nave spirituale.

Osserva Maria Pia Paoli, riportando il pensiero di Raoul Morçay, primo biografo moderno di Antonino (Morçay 1914), che “la sua paternità spirituale era consistita piuttosto nel mettere ordine nelle anime, ovvero in quella forma equilibrata di ascesi che è rinuncia al mondo e allo stesso tempo arte di vivere nel mondo. Ed è a questo proposito che il pastore di Firenze è avvicinato dal suo biografo a san Francesco di Sales, pastore di Ginevra” (Paoli 2008, pp. 89-90). Come è stato talvolta notato, tenuto conto della diversità di epoca e contesto, effettivamente non mancano le affinità fra l’Opera a ben vivere di Antonino e la celebre Introduzione alla vita devota, meglio nota come Filotea, dello stesso Francesco di Sales.

Il fine dell’Opera: Il gusto di Dio

Il titolo dell’opera deriva dal titoletto del capitolo I, Comincia un’ Opera a ben vivere, partendosi dal male per volere far bene, che nel codice Palatino si trova nella tavola delle rubriche. L’ operetta, come la definisce l’autore forse per distinguerla dalle sue grandi opere in latino (Summa Theologiae e Summa Historialis), nasce dalla richiesta di una sua figlia spirituale, dilettissima in Cristo figliuola, sposata ma ancora giovane, che, con affezione e devozione, lo ha pregato di scrivere una regola per il suo buon vivere spirituale, al fine di pervenire a qualche calore e gusto di Dio.

La felicità spirituale, come ha ben evidenziato don Gianni Cioli (Cioli 2023), è spesso indicata da Antonino con espressioni del “gusto”, quali dolcezza, sapore, gusto di Dio, in cui si sente l’eco del Salmo 33,9 “Gustate e vedete quanto è buono (suavis) il Signore”, peraltro citato più volte nella Summa Theologiae.

Espressioni simili si trovano anche in altre opere di Antonino. Nelle Lettere, ad esempio: quando gusterai solo in Dio trovarsi pace, riposo e gaudio vero (…) uno cognoscimento, dico, delle cose divine, non speculativo solo, ma gustativo (Lettera seconda); con gusto saporito delle cose divine (Lettera terza); E se al gusto molto dilettano le cose, cibi e vini suavi, oh quanto è dolce il creatore d’essi a chi l’ha gustato! (Lettera decimaseconda). Nel trattatello La nave spirituale: poiché sa bene parlare di Dio colui che lo gusta (Lettera d’indirizzo ad Annalena e compagne).

Questo argomento sarà ripreso nell’ultimo paragrafo, dedicato a Caterina da Siena.

Ferretti 1923
Edizione del 1923
Prima parte dell’Opera: i lavori nel giardino dell’anima

L’Opera a ben vivere è divisa in tre parti, precedute da un Prologo e seguite da una Conchiusione. La terza parte, più breve, è la Regola vera e propria.

Il testo si sviluppa a partire dalle quattro esortazioni del Salmo 33,15: Declina a malo, et fac bonum, inquire pacem, et persequere eam, ovvero Pàrtiti (staccati) dal male, e fa’ bene, cerca la pace, e persevera in essa. La riflessione sul salmo, nelle prime due parti dell’Opera, è incentrata su una brillante similitudine fra l’anima e un bello giardino, che fosse stato lasciato inselvatichire e imboschire e che si volesse nuovamente disboschire e addomesticare, per avere frutto e consolazione di esso.

Alle quattro esortazioni del salmo corrispondono altrettanti lavori nel giardino:

  1. tagliare la legna, le spine, e le male erbe (Pàrtiti dal male);
  2. diradicare e stirpare bene ogni radice e barba di male erbe e mala sementa (fa’ bene);
  3. lavorare e seminare la terra con il buon seme (cerca la pace);
  4. ricogliere i frutti, e godere di essi (persevera in essa).

A questi lavori materiali corrispondono quattro azioni spirituali nel giardino dell’anima:

  1. che, mossi dalla divina grazia, lasciamo il mal fare e, una volta pentiti, ci confessiamo con il proposito fermo a non voler più peccare, non per paura di pena o per isperanza di premio, ma solo per amore, il fuoco dello amore di Dio, memori della sua benignità e misericordia verso di noi, che ci fanno innamorare e infiammare di Lui;
  2. dopo la confessione, segue la vera e perfetta penitenza: sull’esempio del villano, il contadino, che quando vuole addomesticare il suo giardino si spoglia delle sue vesti e prende i suoi attrezzi, così noi, spogliati d’ogni amore mondano e dell’amor proprio, con lo strumento dello amore di Dio diradichiamo e stirpiamo da’ nostri cuori ogni mala consuetudine, così che le virtù vi si possino bene radicare. Non basta pregare, digiunare e mortificarsi: è infatti impossibile sentire gusto di Dio se si vogliono seminare le virtù sopra i vizi;
  3. per giungere a perfetta pace e consolazione di mente, occorre che noi ci esercitiamo nel piantare il buon seme delle buone opere, con purità e semplicità di cuore, non desiderando in esse se non solo l’amore di Dio, rifuggendo come zizzania le lusinghe degli adulatori e la vanagloria;
  4. che nelle buone opere perseveriamo insino alla morte, perché la perseveranza è quella nave, con dentro tutto il tesoro delle nostre buone opere, che sicuramente ci porta al porto sicuro di vita eterna, quella beata patria dove potremo ricogliere quei gloriosi cibi, li quali ci abbino a dare vita sempiterna.

I buoni frutti del giardino dell’anima sono in definitiva quelli della vera pace di vita eterna, ma anche in questo mondo, almeno in parte, qualche calore e gusto di Dio possono essere goduti come frutti della buona pace nella coscienza, quando l’orto della terra del cuor nostro è lavorato e coltivato seguendo Cristo, l’ottimo ortolano e coltivatore delle anime.

In questo modo, la nostra anima sentirà una pace e consolazione simili a una particella del gaudio di paradiso. E l’orto della buona coscienza, con la dolcezza dei suoi frutti, già in questa vita diventerà il paradiso nell’anima nostra, come fu il giardino dell’Eden per Adamo ed Eva.

Un precedente: il campo della mente

Diverse occorrenze del Salmo 33,15 Declina a malo (Pàrtiti dal male) si trovano anche nella Summa Theologiae, ad esempio nel capitolo dedicato ai modi di predicare del Libro terzo (III, XVIII, 5, 5).

Ma è in un testo precedente, scritto da Antonino attorno al 1429, durante il soggiorno a Napoli, che lo stesso salmo assume una rilevanza particolare. Si tratta di un Confessionale volgare, noto come Specchio di coscienza o, dal suo incipit, come Omnis mortalium cura. All’inizio dell’opera, come già notato da Francesco Palermo (Palermo 1858, p. XVIII-XIX) e Raoul Morçay (Morçay 1914, pp. 52 e 190), si trova in nuce l’esegesi del Salmo 33,15 che, venti anni dopo, sarà pienamente sviluppata nell’Opera a ben vivere.

Le esortazioni del salmo sono qui interpretate come tre regole da osservare: la prima (pàrtiti dal male) è di schifare ogni infectione criminale, ovvero il peccato; la seconda (fa’ l’operazione buona) è di esercitarsi nelle virtù; la terza (cerca la pace dentro l’anima e mantienila) è cercare la quietazione mentale nella confessione sacramentale.

Manifesto è – e qui l’analogia con l’Opera a ben vivere si fa stringente – che chi vuole seminare el campo sì che faccia fructo conviene che, prima di tutto, stirpi le spine et la gramigna et le male herbe. Così chi vuole seminare nel campo della sua mente le virtù è necessario che, prima di tutto, attenda a destirpare le spine de’ peccati et da questo incomincia.

Espressioni simili si trovano anche in altri testi di Antonino: la terra del cuore nostro, da sé, non può producere se non spine e male erbe di cattive cogitazioni e desiderii (epistola a Ginevra Cavalcanti); l’anima è come una “terra”, la quale sanza l’acqua non può fare frutto (…) e con tutta l’acqua ancora da sé produce spine e male tante erbe, che affogherebbe ogni buona semenza, se spesso non fussino col sarchiello o zappa cavate (Lettera Quinta).

Angelini 1926
Edizione del 1926, a cura di Cesare Angelini, Istituto Editoriale Italiano
Seconda parte dell’Opera: la chiusura del giardino e l’ortolano

Una volta che il giardino è stato disboscato, addomesticato e seminato, per portare i suoi frutti a perfezione occorre proteggerlo e curarlo in quattro modi:

  1. bisogna turarlo, ovvero chiuderlo molto bene intorno, per modo che né bestie, né li mali uomini vi possino entrare a guastare l’orto;
  2. va dotato di una porta e di un portinaio che faccia entrare solo chi venga per fare utile e guadagno al signore dell’orto;
  3. deve essere affidato ad un ortolano esperto e fedele al suo signore;
  4. occorre, infine, che esso signore visiti spesso l’orto suo e, come vi vede alcuna mala erba, che lo dica all’ortolano perché la sradichi.

Analogamente, in senso spirituale, anche l’orto dell’anima deve essere protetto e curato:

  1. bisogna fare una chiusura al nostro cuore, un buon muro all’anima, sia per fare la guardia ai nostri sentimenti, sia per nascondere agli uomini le nostre buone opere e intenzioni (per non volerne da loro né lode, né premio), sia per impedire che vi entri ogni altro amore e affetto che non sia il desiderio di gustare l’amore di Gesù Cristo;
  2. occorre porre buona custodia e guardia alla porta della nostra bocca, cioè la lingua, la quale è porta dell’anima, la quale è un castello, città e regno di Dio. Poiché la buona guardia della lingua è grande guardia del cuore, bisogna parlare discretamente e temperatamente, evitando le parole oziose e vane, il troppo parlare e perdere il tempo con il molto ridere;
  3. è necessario affidarsi ad un buono e fedele ortolano, ovvero uno buono padre spirituale, vicario di Dio, che, più che dotto di scienza di carte, abbia buona vita e piena coscienza del timore di Dio;
  4. bisogna, infine, che il signore vada a visitare il giardino dell’anima ogni dì, almeno la sera, a disaminare la coscienza delle offese fatte contra al suo Creatore e poi di pigliarsi alcuna penitenza e di confessarsene al padre spirituale.
I vizi del parlare: il Pungilingua

La lunga digressione sui peccati della lingua occupa ben quattro capitoli su sette della seconda parte (II-V). In modo simile, nella prima parte, anche i due capitoli sui lodatori, la vanagloria e i mali lusinghieri (VII-VIII) costituiscono una palese interruzione della linea narrativa del giardino. È una disarmonia di cui lo stesso Antonino si rende conto: m’è paruto (mi è parso) di scriverlo un poco lunghetto, dice alla fine del capitolo sugli adulatori.

Leggendo questi capitoli, ho avuto subito l’impressione che si trattasse di qualcosa di “aggiunto”, di ripreso da “altro”, anche per alcune difformità di stile. Ne ho trovato conferma in un articolo di Theresa Flanigan sulla “disciplina della lingua” nell’Opera a ben vivere (Flanigan 2015), in cui, pur con qualche limite tipico dei gender studies, si evidenziano le fonti del testo: la Summa Theologiae dello stesso Antonino e, soprattutto, i capitoli dedicati al vizio del parlare nella Summa de vitiis del domenicano Guillaume Peyraut (XIII secolo).

La Flanigan, tuttavia, non si è accorta che Antonino, in realtà, non sta seguendo direttamente il testo latino di Peyraut, ma, come già in parte notato da Francesco Palermo (Palermo 1858, p. LIX e ss.), attinge e riporta, spesso alla lettera, ampi brani del Pungilingua, una libera versione in volgare del testo di Peyraut scritta dal domenicano Domenico Cavalca (1270-1342).

In particolare, mi sembrano derivare dal Pungilingua:

  1. nella prima parte dell’Opera a ben vivere, specialmente il cap. 7 e, con maggiore indipendenza, il cap. 8 (ripresi da Pung., cap. XIII, Del peccato degli adulatori, cioè de’ lusinghieri e del peccato e del pericolo di chi volentieri gli ode e de’ rimedj contra essi);
  2. nella seconda parte, il cap. 2 (da Pung., cap. I, Di quelle cose che c’inducono a bene guardare la lingua, e mostranci la gravezza de i suoi peccati generalmente), i capp. 3-4 (da Pung., capp. I, XXV Del parlare ozioso e moltiloquio) e il cap. 5 (da Pung., cap. XXVI Del peccato del parlare disonesto e giullaresco).

Domenico Cavalca, assieme a Jacopo Passavanti e Caterina da Siena, è fra le figure più rilevanti della letteratura religiosa domenicana del tardo medioevo. Ulteriori ricerche potrebbero verificare se Antonino, per le numerose citazioni che si trovano nell’Opera, abbia attinto anche ad altri suoi testi come, ad esempio, i volgarizzamenti delle Vitae Patrum (le vite dei Padri del deserto) e dei Dialogi di San Gregorio Magno.

Bargellini 1947
Bargellini, scrittore e storico, sindaco di Firenze ai tempi dell’alluvione, in questo testo testo del 1947 dedica all’Opera a ben vivere due capitoletti, intitolati “Dianora” e “Lucrezia”.
Un flusso di citazioni “ruminate”

Come in una predica scritta, il testo dell’Opera si snoda, non senza ripetizioni e ricapitolazioni, soprattutto nelle prime due parti, attraverso alcune similitudini, e sentenze, e autorità di Santi, e anco con alcuni esempi. Commenta a proposito Piero Bargellini: “Antonino è pieno di semi raccolti nella lettura della Bibbia, di san Paolo, di sant’Agostino, di san Gregorio. La sua tenacissima e pura memoria li conserva intatti e sani, ed essi germinano al momento opportuno, fiorendo in citazioni spontanee” (Bargellini 1947, p. 250).

È il frutto della “ruminazione” della Scrittura e dei testi spirituali, raccomandata dalla tradizione monastica, in cui la parola, letta, meditata e memorizzata, viene continuamente “rimasticata” e “digerita”, come anche Antonino suggerisce di fare alla sua figlia spirituale nella Regola: ingegnatevi di sempre masticare e rugunare (ruminare) qualche cosa di Dio.

Analogamente, al capitolo XIII de La nave spirituale dedicato alle letture spirituali: Poichè, figliuole mie (le “donne di Annalena”), le nostre menti sono molto volubili e fragili, e conviene che esse sempre mastuchino (mastichino) e regumino (ruminino) qualche cosa, e chi non è ben cauto a dargli a ragumare de’ cibi di Dio, presto il demonio è pronto a dargliene dei suoi. Anche nelle Lettere di Antonino: Nel ventre della memoria conserva quello che hai mangiato leggendo o udendo il verbo divino; e come pecorella (animale mondo nell’antica legge, perché ruguma e ha l’unghia fessa) ripensa e mastica (Lettera Quarta); e queste ruminando e conferendo nel cuor suo molte volte (la Vergine che legge le Scritture, Lettera sesta); Leggi e odi spesso dottrine spirituali; ma poi, come pecorella, ruguma quello che hai mangiato per meditazione e desiderio di osservare la detta dottrina (Lettera Decimaquarta).

In un flusso continuo di memoria, con riferimenti non sempre letterali, nell’Opera a ben vivere si susseguono citazioni, sentenze ed esempi, tratti soprattutto da San Paolo, i Proverbi, l’Ecclesiastico, e poi ancora da Agostino, Gregorio Magno, Giovanni Crisostomo, Bernardo di Chiaravalle e dalle Vite dei padri del deserto, le cui versioni in volgare erano diffuse dagli ordini mendicanti.

Alle numerose citazioni si accompagnano piacevolmente vivaci modi di dire e motti fiorentini, assieme alle “novellette argute del lupo che si confessa, della serva “garrizzaia”, superba e impaziente e brontolosa, del giovane monaco “tiepidaccio” e piccoso, del diavolo in visita ad un convento domenicano” (Lorini 1961, prefazione), con uno spirito quasi umoristico che fa dire a P. Ludovico Ferretti: “ci pare di trovare in Sant’Antonino un precursore di San Filippo Neri” (Ferretti 1923, prefazione).

Terza parte dell’Opera: la Regola

La terza parte dell’Opera è dedicata alla Regola vera e propria, ovvero il modo del vivere da tenere per tutto l’anno, una volta che con discrezione e senza dare scandalo siano stati adempiuti i doveri familiari.

La Regola è divisa in numerosi e brevi capitoli: come e quando digiunare; quando confessarsi, comunicarsi e fare penitenza; come fare l’elemosina; quali uffici e divozioni seguire; l’importanza delle letture spirituali e dell’orazione; in che modo dobbiamo orare; come stare in chiesa e alla Messa; cosa fare in Quaresima e nelle feste religiose; che cosa fare se invitata ad alcun convito di nozze o di balli, o d’andare a vedere feste, o giostre, o altri spettacoli; come pregare durante i pasti; come ordinare la casa e come fare ogni giorno qualche lavoro manuale per fuggire il tedio e l’accidia e l’ozio ma sempre privilegiando l’orazione; infine, quello che dovete fare dopo cena e quando andate a dormire.

Si distingue, al capitolo 11, la Meditazione della passione di Cristo, sopra quindici paternostri, interessante per l’invito a contemplare un crocifisso con gli occhi della mente, più che con quelli del corpo. L’utilizzo di immagini sacre, specialmente della Passione di Cristo, la cui visione innesca un processo interiore immaginativo-emotivo-intellettivo e infine etico, è attestato anche in altre opere antoniniane (Omnis mortalium cura, epistola a Ginevra Cavalcanti, lettere a Dada). Sul tema, importante anche per comprendere la genesi del ciclo dipinto da Beato Angelico in San Marco, quando Antonino era priore, si rimanda agli studi di Theresa Flanigan (Flanigan 2014), che analizza proprio il caso dell’Opera a ben vivere, e di Gerardo de Simone, che prende in esame le Sette parole di Cristo in croce negli affreschi di San Marco (de Simone 2020).

La scrittura necessariamente normativa e meno vivace della Regola interrompe il discorso sull’anima, che sarà ripreso nella conchiusione dell’Opera con nuove metafore e un tono ancora più emozionale e coinvolgente. Al registro didascalico della Regola, tuttavia, fa da contrappeso, nei contenuti, l’avversione manifesta per una pratica religiosa che sia solo esteriore e ritualistica. Già in precedenza, Antonino aveva affermato il primato della sincerità interiore su una precettistica bigotta e spiritualmente ipocrita, ammonendo che a poco vale recitare molti uffici, o molti salmi, o molti paternostri, o molte orazioni, o praticare digiuni, limosine, veglie, o visitare le chiese e andare alle prediche, se prima non si estirpano dai cuori le male radici de’ vizii.

E qui nella Regola, ancora più chiaramente: il Signore in ogni nostra opera guarda al cuore, e non agli atti esteriori di fuori. Un principio che, con parole simili, si trova anche ne La nave spirituale: (cap. XIV) Dio non guarda a molte parole e molti salmi o altre orazioni che diciamo, ma ben considera con che affetto e desiderio gliele porgiamo. Al cuore, dunque, Dio guarda in ogni nostra opera e non all’opere di fuori; (cap. XIX) perché Lui pone mente non alle opere che noi facciamo, ma anche all’intenzione.

La buona coscienza

L’abito non fa religioso, ma sì la buona vita (…) Considerato, figliuola mia che, per grazia di Dio, avete per vita e non con abito preso vita religiosa (…) tutto il vostro affetto e piacere sia di stare sempre abbracciata con Gesù Cristo, nel quale v’è ogni dolcezza e ogni gaudio.

È stato notato, non a torto, che Antonino, ispirandosi alle Costituzioni domenicane e, soprattutto, alla Regola dei fratelli e delle sorelle dell’ordine della Penitenza di San Domenico, propone ad una donna dell’alta società fiorentina del Quattrocento, laica e sposata, un modello di vita ascetica non molto diverso da quello delle donne consacrate (Flanigan 2014, p. 178).

Antonino, d’altra parte, è ben cosciente di quanto la Regola sia impegnativa per una nobildonna con doveri familiari e sociali: se ci fusse alcuna cosa che vi paresse troppa, avvisatemelo e io la correggerò (…) Sono e rendomi certo che, all’inizio, vi parrà un poco forte, e vi sembrerà essere in uno nuovo travaglio.

Maria Pia Paoli parla di una “letteratura devota seguita da una precettistica laica ad opera di umanisti (…) come elemento portante di un processo più generale di disciplinamento sociale che trasferiva tra le pareti domestiche le regole della vita religiosa intesa come vita monastica”, trasformando “la casa in una cella” (Paoli 1999, p. 20 e p. 26).

Il modello a cui tendere non è tanto la vita attiva di Marta, quanto la dimensione contemplativa di Maria di Betania: Non istiate a perder tempo più che si bisogni nelle occupazioni domestiche – si legge nella conchiusionema, ad esempio di Maria, eleggiate sempre l’ottima parte, ricorrendo a’ piedi di Gesù Cristo a udire le sue parole.

Nel testo, però, si avverte anche un aspetto di particolare modernità: alla base del “percorso ascetico guidato dal padre spirituale” stanno, infatti, “conoscenza di sé ed esame di coscienza” (Paoli 1999, p. 29), che salvaguardano uno spazio di discernimento e libera scelta personale. Come dire, utilizzando le immagini dell’Opera: se l’ottimo ortolano del giardino dell’anima è Cristo, e in subordine l’ortolano suo vicario, cioè il padre spirituale, il primo responsabile rimane sempre il signore dell’orto, ovvero l’individuo con la sua coscienza.

Il vocabolo coscienza ricorre quasi quaranta volte, per indicare non solo la conoscenza del proprio stato spirituale (gli occhi della coscienza; ogni mala consuetudine che la coscienza vostra giudica di avere in voi), ma anche il giudizio su come agire, che, in caso di incertezza, spetta da ultimo alla discrezione e all’incarico della coscienza individuale (nell’epistola a Ginevra Cavalcanti si parla di consiglio della mente); senza dimenticare che la testimonianza della buona coscienza è anche fonte di amore, pace e gaudio nell’anima, persino di fronte alla morte.

Ne La Nave Spirituale la coscienza è paragonata alla sentina, la parte più bassa e più interna della nave dove si scola l’acqua e l’immondezza e che deve essere svuotata, spiritualmente, con la confessione. Nella Summa Theologiae (dove è chiamata “casa”, domus conscientiae), alla coscienza è dedicata, in particolare, un’ampia trattazione nel Titolo III del Libro I, al Capitolo 10 (sul tema si rimanda a Edelheit 2012).

Come giustamente osserva P. Gabriele Scardocci nell’Introduzione a questa edizione, accanto all’insegnamento morale di San Tommaso, nell’Opera a ben vivere “al contempo spicca una evidente attenzione anche alla coscienza, alla soggettività e, usando parole proprie del tempo in cui Antonino scriveva, dell’io”.

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Domenico Ghirlandaio, La Nascita di Maria, Cappella Tornabuoni, Santa Maria Novella, Firenze. Le prime due figure da sinistra potrebbero ritrarre, post mortem, le sorelle Dianora e Lucrezia Tornabuoni destinatarie dell’Opera a ben vivere (Flanigan 2015, p. 43)
Conchiusione dell’Opera: la camera e il cameriero dell’anima

All’inizio dell’Opera, Antonino incoraggiava la figlia spirituale a preparare la sua anima per abitazione e camera di Spirito Santo, impegnandosi a discacciare perfettamente ogni mal radice, come ampiamente descritto nella prima e nella seconda parte. Quell’esortazione si concretizzava poi nel modo del vivere quotidiano, spiegato in dettaglio nella Regola della terza parte. Nella conchiusione, infine, questo percorso spirituale si perfeziona sotto la guida dello stesso Antonino, che si propone apertamente alla destinataria come cameriero e guardiano della camera dell’anima, identificandosi con quel padre spirituale descritto nella seconda parte dell’Opera.

Il testo si fa ora particolarmente vivace e appassionato, con slanci affettuosi e un afflato spirituale, quasi lirico, esaltato dalle metafore della camera e del cameriero, nuove e originali, che sostituiscono quelle del giardino e dell’ortolano. Antonino mostra alla destinataria ciò a cui si è legata quando ha desiderato abbandonar sé stessa per amore di Dio, renunziando di non voler più vivere secondo il mondo:

Ecco, dunque, figluola mia, che vivendo già siete morta al mondo, e cominciate a vivere a Dio; dopo che avete offerta l’anima vostra a Dio, non è più vostra e Dio già se n’è fatto una camera e uno abitacolo, per abitarvi dentro; e me ha fatto suo cameriero di questa camera, a doverla guardare e conservare (…) Sono io dunque fatto da Dio cameriero dell’anima vostra. Cameriero non vuol dire altro, se non che ha cura d’aprire e di serrare la camera del suo signore, e di tenerla netta e monda da ogni spurcizia, e di aiutarlo e di servirlo in tutte quelle cose che bisogna, quando egli vuole andare a riposare (…) essendo io vicario di Dio, e ostiario (portinaio) e cameriero fatto da Lui sopra la cura dell’anima vostra.

Allora, figliuola mia, adorniamo noi la camera nostra con fiori e rose odorifere, ovvero con molti fiori di sante orazioni, molte rose di devote contemplazioni, e molti gigli di belle e utili letture e guardatevi di non vi sputare dentro di cose vane, non vi gettate dentro alcuna puzza di cose carnali, non ci lasciate entrare alcuna bestia, che v’abbi a fare bruttura.

Dio abita nelle anime nostre, quando sono nette da peccato, e quando c’infiammiamo del suo amore e aggiungiamo continuamente legna perché questo santo fuoco non si spenga (…) Allora (cfr. Apocalisse 3, 20) il Signore ci picchia all’uscio (…) e allora noi gli apriamo (…) Allora Egli cena con noi (…) e allora ceniamo noi con Lui, quando, perseverando noi nel ben fare, Egli inebria le anime nostre della sua dolcezza.

O figliuola mia, credetemi, credetemi, che se voi v’ingegnerete d’amare Iddio con tutto il cuore, e per suo amore fuggire ogni vanità, Iddio vi darà a gustare cosa, che meglio si può gustare che scriverla.

Fate che spesso m’avvisiate dello stato vostro (…) Ecco me sempre in vostro aiuto, in tutti quei modi che a me sarà possibile. Fate sempre orazione per me, affinché Dio mi ispiri nel modo che v’ho a governare. Amen. Deo Gratias.

In un crescendo di intensità spirituale e tenerezza paterna, così si conclude l’Opera a ben vivere di Sant’Antonino, un testo che, come afferma giustamente Raoul Morçay, potrebbe anche avere un altro titolo: Le jardin de l’âme, ovvero il giardino dell’anima (Morçay 1914, p. 190).

L’hortus conclusus nella Summa

Abbiamo visto come il campo della mente, nel Confessionale Omnis mortalium cura, costituisca un significativo precedente del giardino dell’anima, protagonista dell’Opera a ben vivere. Alle due immagini se ne collega una terza, di assoluto interesse, nel Libro III della Summa Theologiae di Antonino: l’hortus conclusus della mente (o del cuore, si potrebbe dire).

(…) con ogni cura custodisci il tuo cuore (Proverbi 4, 23). Sia la mente un giardino chiuso (hortus conclusus), in cui non sono piantati faggi e querce, che producono frutti per le bestie, ma fiori di rose, gigli delle convalli, viole e piante profumate, come peschi e alberi simili che producono dolci frutti. Così in questa mente, si meditino continuamente gli esempi dei martiri, dei confessori, dei vergini. E come vi sono fiori di questo tipo, vi siano anche erbe di sante letture e parole, e frutti di buone opere, così come dice il Cantico: Scenda il mio diletto nel mio giardino e mangi i frutti dei suoi alberi (Summa Th., Tit. XIV, Cap. 5, par 2, Sul sacramento dell’Eucaristia; mia trad.).

Mi sembrano evidenti le analogie con le immagini dell’Opera: il giardino chiuso, la camera adornata di fiori, i dolci frutti del buon vivere. Il riferimento esplicito al giardino del Cantico dei Cantici consente, poi, di proporre un suggestivo collegamento con l’arte di Beato Angelico.

L’hortus conclusus di Beato Angelico

L’immagine del giardino chiuso e fiorito trova una felice corrispondenza visiva in due soggetti dipinti da Beato Angelico, l’Annunciazione e il Noli me tangere.

Nelle sue più note Annunciazioni, quelle su tavola di Madrid, Cortona e San Giovanni Valdarno e, soprattutto, quella affrescata nel corridoio nord del dormitorio di San Marco, il cortile della casa della Vergine è raffigurato come un hortus conclusus, un giardino chiuso, rigoglioso e fiorito, secondo una precisa tradizione iconografica che deriva dall’interpretazione cristiana del Cantico dei Cantici.

Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata (…) Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti (Ct. 4, 12 e 16)

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Beato Angelico, Annunciazione del Corridoio nord, Museo di San Marco

Il Cantico, dopo la fondamentale esegesi di Origene, tradotta parzialmente in latino da San Girolamo e Rufino di Aquileia, divenne uno fra i testi più letti del Medioevo e quasi tutte le biblioteche monastiche possedevano i commenti di Gregorio Magno e di Bernardo di Chiaravalle. Anche Giovanni Dominici, maestro di Antonino, scrisse sul Cantico alcune expositiones.

Secondo l’interpretazione prevalente, l’orto chiuso e fiorito di rose e gigli, talvolta con alberi da frutto o simbolici come la palma e il cipresso, è immagine di verginità e obbedienza di Maria, identificata con la sposa del Cantico fedele al suo sposo, ovvero Dio stesso: sono le nozze mistiche, che la tradizione esegetica interpreta anche come unione di Cristo, lo sposo, con la Chiesa universale o con l’anima individuale (come, ad esempio, con parole simili nelle Lettere quarta e quinta di Antonino: “Veni, columba mea”, dice lo sposo Cristo Gesù alla sua sposa, anima diletta). La fioritura primaverile, inoltre, può significare sia gli attributi di Maria, purezza (fiori bianchi) e amore/sofferenza (fiori rossi), sia il concepimento/incarnazione di Cristo, il “fiore” germinato nel suo ventre (Dante, Parad. XXXIII, 1,7-9).

Anche ne La Nave Spirituale di Antonino, in sintonia con il Cantico, nel capitolo conclusivo (XIX) Cristo è definito sposo e fiore profumato: Corriamo, dunque, dolci figliuole mie (Annalena e le sue compagne), corriamo con fervore dietro a questo dolcissimo Sposo Gesù Cristo, che tanto ci ama, innamorandoci tanto di Lui e ardiamo del suo santo amore. Corriamo dietro all’odore delle sue vestigia, il quale è detto fiore odorifero, che sempre ci mena per via odorifera e gioconda.

Il giardino chiuso è anche immagine dell’avvento del nuovo giardino dell’Eden, originato dal fiat della Vergine, che, come recita l’antico inno Ave Maris Stella, accogliendo l’Ave dell’angelo “capovolse il nome di Eva” (Ave/Eva è un palindromo), divenendo lei stessa la nuova Eva, mentre il Figlio di Dio, incarnatosi, rappresenta il nuovo Adamo. Grazie all’obbedienza dei nuovi Adamo ed Eva, come in una nuova creazione, si ricostituisce il Paradiso (giardino) perduto dai Progenitori a causa della loro disobbedienza, il peccato originale.

Annunciazione
Beato Angelico, Il giardino dell’Annunciazione di San Marco

Il giardino della grande Annunciazione di San Marco, osserva George Didi-Huberman, appariva ai domenicani come “un giardino superlativo, un Giardino dei giardini (…) Guardare in quel giardino, il giardino del Cantico, era già meditare sul mistero dell’Incarnazione. E se lo sguardo si soffermava sui fiorellini rossi e bianchi del giardino dell’Angelico, poteva riconoscere la bellezza della Sposa, rubea et lactea, rosea e lattea, come le guance di Maria nell’affresco stesso. Che cos’è allora quel giardino? È un ricettacolo dell’Incarnazione: è la figura di Maria” (Didi-Huberman 1991, p. 187).

Sempre a San Marco, a pochi metri dall’ Annunciazione, c’è un altro hortus conclusus, quello dell’Apparizione di Cristo risorto alla Maddalena, più noto come Noli me tangere: è il giardino recintato, rigoglioso di erbe e costellato di fiori bianchi e rossi, che circonda il Sepolcro vuoto.

Noli me tangere
Beato Angelico, Noli me tangere, cella 1

La somiglianza fra i due giardini, quello dell’Annunciazione e quello del Noli me tangere, non è casuale. Come sottolinea giustamente Didi-Huberman, l’Angelico qui non sta “traducendo un’esegesi preesistente”, ma sta “producendo nella sua pittura un autentico effetto di esegesi (…) conferendo ai due giardini caratteristiche fortemente analoghe, quali la palizzata di legno, gli alberi sullo sfondo (in particolare il cipresso) e il prato fiorito in primo piano. Inoltre, investe la sostanza stessa di cui quel prato è costituito: il duplice valore dei verdi, le costellazioni di fiori bianchi e rossi. Abbiamo già parlato di quei piccoli fiori rossi nel prato del Noli me tangere: costituiscono un traslato figurale delle stigmate del Cristo, grazie alla semplice azione di una scansione colorata. Messi in relazione con l’Annunciazione del corridoio, quei fiori primaverili ci permettono ora di chiudere un cerchio: l’umanità del Cristo è dunque fiorita nel giorno dell’Annunciazione, si è diffusa sacrificalmente nel giorno della Passione (…) e, infine, tutto il giardino rifiorisce, rifiorisce addirittura insieme con il suo giardiniere, dato che Gesù appare a Maddalena con una vanga sulla spalla…” (Didi-Huberman 1991, p. 175).

Il giardino primaverile della casa di Maria, nell’Annunciazione, è dunque una prefigurazione del giardino pasquale della Risurrezione, dove Maria Maddalena, davanti al sepolcro vuoto, non riconosce subito Cristo risorto, ma lo scambia per l’ortolano, il giardiniere, il custode del giardino. Commenta acutamente Gregorio Magno: “Scambiando Gesù per un hortolanus, questa donna sbagliò, ma forse non sbagliò davvero. Non era infatti Cristo il suo hortolanus spirituale, che con la forza del suo amore piantava nel suo cuore rigogliosi semi di virtù?” (Homilia XXV, mia trad.). Direbbe analogamente Antonino, con le parole dell’Opera a ben vivere: non è infatti Cristo l’ottimo ortolano e coltivatore delle anime, il benedetto e dolcissimo ortolano delle anime nostre?

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Beato Angelico, Noli me tangere, cella 1, particolare

Per Sant’Antonino, come abbiamo visto, l’immagine del giardino disboscato, addomesticato, chiuso e poi affidato ad un ortolano perché produca fiori e frutti, è metafora sia della mente (Omnis mortalium cura e Summa Theologiae), sia dell’anima, del cuore e della coscienza (Opera a ben vivere). I rapporti fra il pensiero di Sant’Antonino e l’arte di Beato Angelico, per lo più trascurati dalla critica, sono stati nuovamente evidenziati da Gerardo de Simone (de Simone 2020, in particolare p.113).

Su questa linea, mi pare che l’hortus conclusus dipinto da Beato Angelico nell’Annunciazione e nel Noli me tangere, oltre ai significati più noti, possa essere interpretato correttamente anche come giardino della mente, giardino dell’anima, orto della terra del cuor nostro e della buona coscienza, che, una volta recintato (conclusus) e affidato ad un ortolano (il padre spirituale, Cristo stesso), produce frutti e diventa il paradiso nell’anima, un nuovo Eden.

Sulle tracce del giardino: la Bibbia, Dante e Guittone

Le principali fonti bibliche per l’immagine antoniniana del giardino mi sembrano quattro: nell’Antico Testamento il paradisus (hortus Eden) della Genesi e l’hortus conclusus del Cantico dei Cantici; nel Nuovo Testamento due luoghi definiti hortus nel Vangelo di Giovanni: l’hortus del Getsemani o degli Ulivi e l’hortus del santo sepolcro, con Cristo hortolanus.

Orazione nell'Orto degli ulivi
Beato Angelico e collaboratori (Benozzo Gozzoli?), Orazione nell’Orto, cella 34

Nei Vangeli, inoltre, si trovano altre immagini tratte dal mondo agricolo: la “vigna”, la “terra”, il “campo”, interpretati per lo più come “Casa di Israele” e “Regno di Dio”, ma anche come “cuore dell’uomo”. Si pensi alla parabola “della zizzania” (in Matteo) e, soprattutto, a quella “del seminatore” (Matteo, Marco e Luca), molto vicina ai contenuti dell’Opera a ben vivere, dove è anche citata: per similitudine di quello che gittò il seme sopra le spine, che, perché non furon prima divelte, affogarono il buon seme.

Anche la parabola detta “dei vignaioli omicidi” (Matteo, Marco e Luca), da leggere in parallelo con il “Cantico della vigna” di Isaia (5,1), offre qualche consonanza con l’Opera di Antonino: la vigna circondata da una siepe e un muro di cinta, i coltivatori (agricolae), la produzione di frutti cattivi e l’inselvatichimento. Esemplare, poi, nel Vangelo di Giovanni (15,1-2), l’autodefinizione di Gesù: “Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore (agricola). Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”.

Sulle metafore dell’”orto” e dell’”ortolano” torna alla mente anche Dante, in due passi del Paradiso. Nel primo, “l’orto/ de l’ortolano etterno” (Pd, XXVI, 64), il giardino del “giardiniere eterno”, cioè il giardino di Dio, è solitamente interpretato come immagine della Chiesa (“l’orto catolico” di Pd, XII, 104); nel secondo passo, “l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo” (Pd, XII, 72), San Domenico è definito “il coltivatore” scelto da Cristo per aiutarlo nei lavori del giardino della Chiesa.

Dante, a sua volta, riprende questa immagine di San Domenico da una delle Rime di Guittone d’Arezzo (A san Domenico, XXXVII), dove il fondatore dei domenicani è descritto come quel coltivatore (“coltore”) di salvezza e contadino (“agricola”) per conto di Dio che, coltivando “non terra ma core”, vi semina “fede, speranz’e amore”, trasformando “diserti” in “giardini con pomi di fin savore (sapore)”: metafore poetiche affini a quelle dell’Opera a ben vivere.

Infine, ricordo che, in un affresco della sala capitolare a San Marco, Beato Angelico raffigura San Domenico che sostiene il tronco e i tralci di una “vite mistica dei domenicani”. Ne abbiamo parlato in un articolo del blog.

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Beato Angelico, Noli me tangere, cella 1, particolare
Il campo dell’anima di Giovanni Dominici

Un modello vicino e importante per le immagini dell’Opera a ben vivere sono senz’altro le lettere di Fra Giovanni Dominici a Bartolomea degli Alberti, sua figlia spirituale, in particolare la terza e la quarta.

Nella Epistola terzia, Dominici descrive l’anima come prato e come campo, l’anima virtuosa come giardino fiorito; i vizi e i peccati sono spine, fieno, ortica, pruni, cardi (la Madonna è chiamata la preziosa madre sanza fieno) e le virtù sono fiori di tutti i tipi, in primis le rose:

(…) Gli  scrittori che per grazia di Spirito Santo, hanno lo ‘ntelletto usato, (…) molto più scrissono le virtù de’ santi che non feciono i vizii de’ peccatori, così che, perché i fedeli seguissero quegli essempli de’ gloriosi santi (…), cavavano rose delle spine e, così nette e ammazzolate, l’hanno apparecchiate a noi; e quando noi entriamo ne’ loro apparecchiati prati non ci trovando né fieno, né ortica, né pruni, né cardi, ma solo vivole, rose, gigli, gruogo, cennamo, gengiovo, gherofani e cannella, rivoltandosi nel campo proprio nostro, il quale non è purgato quantunque sia perfetto, di noi stessi ci maravigliamo, confondiamci e umiliamci (…), ma se noi vedessimo quanto fieno era mescolato nel giardino di coloro fiorito, la virtù non sembrerebbe così lontana.

L’Epistola quarta, in special modo, sembra prefigurare il testo di Antonino:

(…) più anni continuati sarà segato (tagliato) un prato, e pur di nuovo rifiglia l’antico fieno e mai non produce grano; e se un solo anno si svegliesse (si estirpasse) il fieno col seme suo e lavorassisi il prato, e seminassesi di grano, darebbe grano infra nove mesi quello che in mille anni non produce se non fieno.

Fuor di metafora, Dominici intende che non è sufficiente fare penitenza e confessarsi spesso (tagliare il prato), se non si sradicano i vizi e non si seminano virtù e buone azioni che producono un grande raccolto: sono le stesse considerazioni sviluppate da Antonino, come abbiamo visto, nella prima parte dell’Opera a ben vivere.

Prosegue il Dominici:

Sappi adunque che’ peccati umani, piaghe mortali dell’anime, hanno seme radici, fiori, foglie, frutti. Il seme è il peccato originale, che, rimessa la colpa col Battesimo, rimane come debilezza della volontà e tentazione del cuore; la radice, di tal seme nata, è l’abito (il vizio) fatto per uso o di pensieri o di fatti, che sta dentro nascosta, come zizzania, per suffocare se mai grano in tal mente nascesse; i puzzolenti fiori, di tal radice nati, sono gli atti esteriori palesemente mostrati in vivande, vestimenti, edificii, conversazioni, parlamenti e tutti altri peccati; le foglie sono ipocresie, scusazioni, difendimenti di peccati fatti; i maladetti frutti sono coloro che peccano per essemplo, suggezione o invitamento di altri.

Chiosa l’autore che la maggior parte de’ penitenti confessa i detti semi, radici, foglie, fiori e frutti, ma di quei peccati non si correggono; altri si guarderanno solo da’ frutti, ma non del resto, e molti si faranno coscienza de’ fiori, ma non delle foglie e de’ frutti. Or quanti sono coloro i quali non scuoprono la mortal radice, e quanti non vogliono perdere il malvagio seme! Così è manifesto come pochi, e quasi nulli, si vanno pienamente a mondare de’ difetti che impediscono di gustare con dolcezza questo santo spiritual convito al quale invita Cristo.

La lettera termina con una serie di esortazioni (sette medicine), analoghe a quelle dell’Opera a ben vivere, in cui il campo dell’anima, secondo la parabola evangelica, deve essere lavorato per accogliere il seme del buon seminatore divino:

Se adunque tu in verità desideri d’aver Cristo, comincia a svegliere (sradicare) il seme della gramigna cattiva, sforzandoti di mortificare la volontà e allora ti riposa in pace; la seconda medicina è di cavare tutte le radici de’ non buoni pensieri; la terza medicina è di non pigliare impaccio alcuno superfluo, ma donati solo alla necessità; la quarta medicina è spesso, almeno una volta al dì, purgarti con Dio dì ogni rio pensiero che fusse nato da quello seme, che tutto svegliere non si può nella vita presente; la quinta è lavorare il campo della carne con penitenze solo necessarie e sopportabili, poiché non produce tante spine un campo quanto un altro; la sesta è pregare spesso, e non vuole essere meno che tre volte il dì, il buon seminatore celeste che debba quel seme nel campo fatto suo seminare, il quale solo sa essere atto a terra sì disposta; la settima ricevere con somma grazia ciò che manda, o ciò che permette che ti venga. (…) se lascerai in te seminare a Dio, e tu guarderai il seme che non sia tolto dal demonio, quanto potrai, sempre crescerai e guadagnerai il premio o trigesimo o sessagesimo o centesimo del premio della etterna vita. Sic vale ut sicut valeam; tu frequenter ora. Amen.

Il giardino dell’anima di Santa Caterina

Mi pare, infine, che non sia stata sufficientemente notata la sintonia, di lingua e contenuti, tra l’Opera a ben vivere e alcuni scritti di Caterina da Siena, come mostra uno spoglio pur sommario delle sue opere: Lettere, Dialogo e Orazioni.

Oh dolce amore, figliuola mia, oh dolce amore, che ci porta questo nostro dolcissimo Padre! Le parole di Antonino, cariche di pathos, al cap. III della prima parte, mi sembrano riecheggiare il dolce amore divino delle Lettere di Caterina da Siena, in espressioni quali Cristo Gesù dolce amore, Oh dolce amore inestimabile (Cristo), O Dio dolce amore.

Anche le parole di Antonino sul sapore e gusto di Dio, di cui abbiamo parlato in uno dei primi paragrafi, potrebbero essere una derivazione cateriniana. Nel Dialogo, ma specialmente nelle Lettere di Caterina, sono molto numerose le espressioni del “gustare spiritualmente” Dio, la sua bellezza, il suo amore, il sommo bene, Cristo, la vita eterna, l’abitazione del cielo. In particolare, nelle Lettere 32 e 225 Caterina cita esplicitamente il Salmo 33,9 “Gustate e vedete”, spiegandone il senso come un invito a gustare Dio, il suo amore e la sua bontà già in questa vita.

Le analogie con gli scritti cateriniani si fanno ancora più stringenti se consideriamo le immagini portanti dell’Opera a ben vivere: il giardino dell’anima, i lavori per estirparne i vizi e piantarvi le virtù, la figura dell’ortolano.

In Caterina, infatti, è largamente presente la metafora del giardino. Se si escludono occorrenze meno usuali (g. della Trinità, della Tua volontà, dell’affetto Tuo), a seconda del contesto l’immagine del giardino può indicare la comunità ecclesiale, come in Dante (g. della santa religione, della santa Chiesa, della sposa mia, ma anche dell’Ordine), oppure può significare l’anima, come nell’Opera di Antonino: noi siamo un giardino, e veramente orto, orto dell’anima, giardino dell’anima, giardino chiuso del cognoscimento di sé.

Come scrive Caterina, in questo giardino lavora l’ortolano dell’anima, ovvero la ragione e il libero arbitrio, che con l’aiuto della divina grazia ha il compito di divellare le spine de’ vizi, assieme alla zizzania dell’amor proprio, e piantare l’erbe odorifere delle virtù. L’ anima allora diventa un giardino pieno di fiori odoriferi e l’orto nostro non potrà avere altro che dolci frutti e soavi. Così, sarà poi possibile godere dei fiori e i frutti del giardino celestiale, il paradiso, le cui porte sono aperte dal dolce portinaio e ortolano, il Cristo.

Nei testi cateriniani si trovano anche altre immagini tratte dal mondo agricolo: la vigna dell’anima (più frequentemente la vigna è la Chiesa), l’arbore (albero) dell’anima (altre occorrenze: a. della croce, della carità, della vita, talvolta ad indicare Cristo) e il campo dell’anima (da non confondere con il campo del linguaggio militare, piuttosto usuale in Caterina, o con il campo di Maria, il ventre dove fu seminato il seme della Parola incarnata del Figliuolo di Dio).

In una pagina a parte, riporto i brani più significativi. In particolare, per quanto riguarda la metafora del giardino, le analogie con il testo antoniniano mi sembrano molto evidenti in quattro lettere (22, 113, 138, 313) e nel capitolo CXL del Dialogo.

Come abbiamo visto, è innegabile una dipendenza dell’Opera a ben vivere da alcuni passi delle Lettere di Giovanni Dominici a Bartolomea degli Alberti. Da questi ultimi confronti, tuttavia, pur nei limiti di uno studio preliminare, ritengo ragionevole sostenere che, specialmente per quanto riguarda il tema centrale del giardino dell’anima, la fonte primaria di ispirazione dell’Opera di Antonino siano il pensiero e gli scritti di Caterina da Siena.

Alessandro Santini

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BIBLIOGRAFIA

Edizioni dell’Opera a ben vivere

Palermo 1858: Opera a ben vivere di Santo Antonino Arcivescovo di Firenze, messa ora in luce con altri suoi ammaestramenti e una giunta di antiche orazioni toscane da Francesco Palermo, Firenze, coi tipi di M. Cellini e C., Alla Galileiana 1858

Saint Antonin, Une règle de vie au XVe siècle : la Mère de Laurent le Magnifique, à l’école de saint Antonin, traduction de Madame Thiérard-Baudrillart, préface de Monseigneur Baudrillart, Perrin et Cie, Paris 1921 (traduzione in francese dell’edizione del 1858)

Ferretti 1923: Opera a ben vivere di Sant’ Antonino dell’Ordine dei predicatori, arcivescovo di Firenze, scritta a Dianora Tornabuoni ne’ Soderini, con prefazione del p. Lodovico Ferretti, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1923

Angelini 1926: S. Antonino, Opera a ben vivere, a cura e con prefazione di Cesare Angelini, “Biblioteca dei Santi” vol. II, Dalla Stamperia dell’Istituto Editoriale Italiano La Santa, Milano 1926

Lorini 1961: Antonino Pierozzi Arcivescovo di Firenze, Opera a ben vivere, “I Classici cristiani” vol. III, a cura di Mons. Giulio Lorini, Edizioni Cantagalli, Siena 1961

Sant’Antonino da Firenze, Opera a ben vivere, con introduzione di Fr. Gabriele Giordano M. Scardocci OP, “Tascabili della spiritualità”, Phronesis Editore, Palermo 2023

 

Altre opere di S. Antonino

Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze, Confessionale: Omnis mortalium cura (Specchio di Coscienza), 1490, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (consultabile su https://archive.org)

Sancti Antonini Archiepiscopi Florentini Ordinis Praedicatorum, Summa Theologica, in quattuor partes distributa, Pars Tertia, Ex Typographia Seminarii, Apud Augustinum Carattonium, Veronae, MDCCXL (consultabile su www.google.it/books )

Lettere di Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze precedute dalla sua Vita scritta da Vespasiano fiorentino, Tipografia Barbera, Bianchi e C., Firenze 1859

Regola di vita cristiana di santo Antonino arcivescovo di Firenze, messa ora a luce la prima volta da Francesco Palermo, Tipografia fiorentina, Firenze 1866

La nave spirituale di S. Antonino Pierozzi domenicano, arcivescovo di Firenze, a cura di Giacinto D’Urso o.p., “Pubblicazioni dell’Archivio arcivescovile di Firenze” Studi e testi n. 6, Giampiero Pagnini Editore, Firenze 1998

Antonino Pierozzi O.P., Storia breve di S. Caterina da Siena terziaria Domenicana, a cura di P. Alfredo Scarciglia O.P., traduzione di P. Tito Sante Centi O.P., Edizioni Cantagalli, Siena 2002

Beato Giovanni Dominici O.P., Trattato delle dieci questioni e Lettere a Madonna Bartolomea, a cura di Arrigo Levasti, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1957

 

Opere di Santa Caterina da Siena

Santa Caterina da Siena, Le lettere, a cura di Antonio Volpato, in Santa Caterina da Siena, Opera Omnia, Testi e Concordanze, Provincia Romana dei Frati Predicatori. Centro Riviste. Pistoia 2002

Santa Caterina da Siena, Il Dialogo della Divina Provvidenza, a cura di Giuliana Cavallini, ed. Cantagalli 1995

Santa Caterina da Siena, Le Orazioni, a cura di Giuliana Cavallini, Edizioni Cateriniane, 1978

 

Altre opere

Fra Domenico Cavalca, Il Pungilingua, a cura di Giovanni Bottari, Roma 1751, rist. Milano 1837

Sancti Gregorii Magni Romani Pontificis, XL Homiliarum in evangelia, Libri duo, ed. H. Hurter, Libraria Academica Wagneriana, Innsbruck 1892 (Sanctorum Patrum opuscula selecta, T. VI)

Beato Giovanni Dominici O.P., Trattato delle dieci questioni e Lettere a Madonna Bartolomea, a cura di Arrigo Levasti, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1957

Su Sant’Antonino: l’Opera a ben vivere e altri temi

Bargellini 1947: Piero Bargellini, Sant’Antonino da Firenze, Morcelliana, Brescia 1947, in particolare pp. 245-268

Cambi 2023: Fabrizio Cambi O.P., Sant’Antonino Pierozzi. Storia e attualità, in Sant’Antonino Pierozzi nel Museo di San Marco. Nel V centenario della canonizzazione, “Quaderni del Museo di San Marco”, Direzione regionale musei della Toscana, n. 5, Sillabe, Livorno 2023, pp. 11-17

Cioli 2023: Gianni Cioli, Vita morale e felicità nel pensiero di Sant’Antonino Pierozzi, conferenza tenuta il14/04/2023 presso il Convento di San Marco di Firenze, canale YouTube di Opera Santa Maria Novella. Estratti pubblicati nel 2023 sulla rivista on-line “Il mantello della giustizia”: G. Cioli, Felicità come “gusto di Dio” nell’Opera a ben vivere di Sant’Antonino Pierozzi; G. Cioli, La penitenza come esigenza d’amore nell’Opera a ben vivere di Sant’Antonino Pierozzi.

Edelheit 2012: Amos Edelheit, On conscience, action, and some related terms in Antoninus’ moral psychology. Between cognition and will , in Antonino Pierozzi OP (1389-1459). La figura e l’opera di un santo arcivescovo nell’Europa del Quattrocento, Atti del convegno internazionale di studi storici (Firenze, 25-28 novembre 2009), a cura di Luciano Cinelli e Maria Pia Paoli, “Memorie Domenicane”, Nuova serie, 43, 2012, pp. 299-331.

Flanigan 2014: Theresa Flanigan, Art, Memory, and the Cultivation of Virtue: The Ethical Function of Images in Antoninus’s Opera a ben vivere, “Gesta”, Vol. 53, No. 2 (September 2014), pp. 175-195

Flanigan 2015: Theresa Flanigan, Disciplining the tongue: Archbishop Antoninus, The Opera a Ben Vivere, and the regulation of women’s speech in Renaissance Florence, “Open Arts Journal”, Issue 4, Winter 2014-15, pp. 41-60

Morçay 1914: Raoul Morçay, Saint Antonin, fondateur du couvent de Saint-Marc, archevêque de Florence, 1389-1459, Maison A. Mame et Fils, Tours 1914 et Libraririe Gabalda, Paris 1914 (sull’Opera a ben vivere in particolare pp. 189-197 e pp. 410-412)

Paoli 1999: Maria Pia Paoli, S. Antonino “vere pastor ac bonus pastor”: storia e mito di un modello, in G. Garfagnini e G. Picone (a cura di), Verso Savonarola. Misticismo, profezia, empiti riformistici fra Medioevo ed Età moderna, Firenze, 1999, pp. 83-139

Paoli 2008: Maria Pia Paoli, Antonino da Firenze O.P. e la direzione dei laici, in Storia della direzione spirituale (ed. G. Filoramo), vol. III – L’età moderna, a cura di Gabriella Zarri, Brescia, Morcelliana 2008, pp. 85-130

Su Beato Angelico

de Simone 2020: Gerardo de Simone, Le Sette Parole di Cristo in croce nel ciclo di San Marco del Beato Angelico, in Celebrating Magnificenza: Studies in Italian Art in Honor of Diane Cole Ahl, edited by Barbara Wisch, “Predella Journal of Visual Arts”, 47, 2020, pp. 95-132, tavv. XLVII-LXXVIII (versione a stampa: “Predella”, Monografie, 21, 2020). Una versione abbreviata è anche sul Blog del Museo di San Marco

Didi-Huberman 1991: Georges Didi-Huberman, Beato Angelico. Figure del dissimile, Leonardo, Milano 1991

 

Sulla tomba di Santa Caterina

Bianchi 1988: Lidia Bianchi, Il sepolcro di S. Caterina da Siena nella basilica di S.Maria sopra Minerva, in Lidia Bianchi, Diega Giunta, Iconografia di S. Caterina da Siena. L’immagine, Città Nuova, Roma 1988, pp. 15-62

Sibylle Nerger, Il restauro della tomba di Santa Caterina da Siena nella Basilica di S. Maria sopra Minerva a Roma, estratto da La Roma di santa Caterina da Siena, a cura di Maria Grazia Bianco, “Quaderni della Libera Università “Maria SS. Assunta” LUMSA Roma, Edizioni Studium, 2001, pp. 399-410

Tiberia 2013: Vitaliano Tiberia, Santa Maria sopra Minerva e il sepolcro di Santa Caterina ovvero l’apoteosi figurativa del carisma domenicano a Roma, in Virgo digna coelo: Caterina e la sua eredità, raccolta di studi in occasione del 550° anniversario della canonizzazione di santa Caterina da Siena (1461-2011), a cura di Alessandra Bartolomei Romagnoli, Luciano Cinelli, Pierantonio Piatti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, pp. 697-706

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