La ‘misura’ dell’Angelico. Note su “gli esordi” del pittore al Museo San Marco

Allestire a Firenze una mostra memorabile dedicata a Guido di Pietro – poi fra Giovanni da Fiesole, noto ai più come il Beato Angelico – ha impegnato senza dubbio i curatori a elevare subito San Marco a polo imprescindibile nel percorso di visita, benché la sede principale eletta sia Palazzo Strozzi. Il frate pittore, infatti, attese con l’ispirazione di un lavoro pregato a rivestire di affreschi molte parti del convento cresciuto sotto la direzione di cantiere di Michelozzo, poco dopo il 1440, in un’unità di tempo e di spirito che quasi attinge la consustanzialità, e da ultimo licenziò la gran pala d’altar maggiore per la rinnovata chiesa conventuale, già terminata nel 1443: un’opera capitale per più di una ragione che ha trovato adeguato spazio in mostra nella sede di Strozzi.

Alla sede di San Marco, però, è ora demandato in primo luogo il racconto della formazione di Guido di Pietro, giunto a Firenze dal Mugello e cresciuto “in sapienza, età e grazia” fra secondo e terzo decennio nella città di pittori. E dunque la ‘Sala dell’Angelico’ del museo assume una nuova veste e presenta al visitatore della mostra una densissima parata di opere di piccolo e medio formato, aperta e chiusa da due imprese grandiose: la Pala di Fiesole, restaurata in occasione della mostra, e il Tabernacolo dei Linaioli. Quest’ultima opera, ancorabile per via documentaria al periodo fra 1432 e 1436, non rientra proprio nella ‘giovinezza’ e difatti, in catalogo, è sbalzato alla sezione 3; non spiace però vederla nella sezione 1, a rappresentare l’evoluzione ulteriore dell’artista e ad anticipare la continuazione del percorso in Palazzo Strozzi, dove salta il criterio cronologico e l’arte dell’Angelico è vista sotto altre lenti: i contesti, i committenti, le tipologie, le iconografie.

Beato Angelico e Lorenzo Ghiberti (per la cornice marmorea), Tabernacolo dei Linaioli, Firenze, Museo di San Marco

Il colpo d’occhio della sala forse non consegna un’impressione particolarmente forte, ma poi a vedere una per una le opere esposte sulla parete sud, che si palesa subito di fronte a chi entra, si scioglie il cuore per la copia di tanti capolavori dispersi aux quatre vents e ora vicini come sarà difficile rivederli. Il proposito dei curatori è quello di presentare qui una possibile successione cronologica delle opere del pittore, mentre di fronte, sull’altra parete lunga, altre opere rappresentano i maestri con cui egli venne in contatto e che ebbero un peso sulla sua formazione, fino all’incontro con l’arte di Masaccio, la cui pregnanza è in parte ridimensionata in catalogo e però rimane uno spartiacque.

La mancanza di date certe che intervengano a puntellare la ricostruzione dello sviluppo di Guido di Pietro nella sua giovinezza salva da qualsiasi eccesso di biografismo, che infatti è del tutto assente tanto in mostra quanto nel catalogo; parlano invece le opere, una serie di tavole di bellezza sconcertante che pone un problema di seriazione cronologica. Nel catalogo e nella mostra, la questione è affrontata con risolutezza, offrendo una ponderata scansione temporale delle varie opere, attribuendo a ciascuna una datazione nell’arco di un biennio o di un triennio, rare volte di un quinquennio, secondo una lettura critica ragionevole e tuttavia non definitiva, perché sono diversi i problemi che rimangono aperti.

Queste difficoltà non offuscano la comprensione del percorso sostanzialmente lineare di un pittore altissimo, cogitante e refrattario alle briglie di qualsiasi schematizzazione, nell’entusiasmante momento storico in cui a Firenze si avvicendarono la fiamma tardo-gotica e il primo seme rinascimentale.

Guido di Pietro nacque a Vicchio del Mugello attorno al 1395, forse un poco prima; secondo l’uso corrente dovette iniziare a operare molto presto e dunque prima dei venti anni; di conseguenza, nella seconda metà degli anni dieci era formato all’arte della pittura e autonomo. Nel 1417 veniva introdotto con la mallevadoria di Battista di Biagio Sanguigni, un pittore e miniatore più anziano, nella compagnia di San Niccolò al Carmine; due anni dopo, nel 1418, riscuoteva un pagamento per una pala d’altare per Santo Stefano al Ponte, già commissionata a un altro pittore, Ambrogio di Baldese, che però non compì mai l’opera. Di lì a poco – non si sa di preciso quando ma certo fra il 1419 e il 1423 – entrò professo nell’Ordine dei predicatori con il nome di Fra Giovanni e iniziò a lavorare alacremente per chiese del suo Ordine, a partire da San Domenico a Fiesole, per la quale eseguì la pala dell’altare maggiore ora in mostra. La prima data alla quale collegare tentativamente un’opera è tuttavia il 1429, anno nel quale il priore di San Domenico a Fiesole dichiarava di vantare un credito di 10 fiorini verso il monastero di San Pietro Martire, forse residuo del pagamento dovuto per la Pala di San Pietro Martire, che però era già terminata da tempo, come ci dice il suo stile.

Beato Angelico, Pala di San Pietro Martire, Firenze, Museo di San Marco

Dati questi scarsi puntelli cronologici, la giovinezza intesa da Angelo Tartuferi, per la più parte responsabile della curatela di questa sezione della mostra, contempla un periodo che va dalla metà del secondo decennio del Quattrocento fino a toccare il 1430: una ‘giovinezza’ effettivamente lunga, ma del tutto giustificata, giacché in questi anni il catalogo del pittore è contraddistinto da cambi di passo, interferenze con altri artisti e ripensamenti che poi verranno meno dopo il 1430, per lasciare il campo a un operare più riconoscibile, che in definitiva ha reso subito ravvisabile l’Angelico a un pubblico vastissimo, pure a distanza di secoli dalla sua morte.

In quegli anni effervescenti che corrisposero alla formazione e alla maturazione di Guido di Pietro, invece, questo campione del Rinascimento non è sempre uguale a sé stesso e, tuttavia, una coerenza di fondo si schiude a chi si applichi con studio all’osservazione delle sue opere giovanili e la selezione presentata dalla mostra, ben commentata ed egregiamente illuminata, offre l’occasione perfetta.

Beato Angelico, Pala di Fiesole, Fiesole, Chiesa di San Domenico

La presentazione in apertura della Pala di Fiesole potrebbe indurre il visitatore a pensare che il pittore sia spuntato attorno al 1420 già altissimo e veramente ‘angelico’, come una primula allo scioglimento delle nevi, che ben potrebbero essere simbolo dell’algore di Lorenzo Monaco, ma non è proprio così, come d’altro canto additano altre opere ora esposte. Guido di Pietro raccolse molte delle sfide che si presentavano agli artisti della sua generazione, sorpassandoli ben presto tutti per la sua profondissima intelligenza nel bilanciamento dei valori e per la padronanza dei mezzi pittorici. Lorenzo Ghiberti, che fu senza dubbio l’artista con il quale l’Angelico intrattenne per tutta la vita i più profondi scambi, lasciò detto nei suoi Commentarii: “vide Giotto nell’arte quello che gli altri non agiunsono. Arecò l’arte naturale e lla gentileza con essa, non uscendo dalle misure”.

Lorenzo Ghiberti e Bottega, Sant’Andrea; San Francesco d’Assisi (dal Reliquiario delle braccia di Sant’Andrea Apostolo), Città di Castello, Pinacoteca Comunale di Palazzo Vitelli alla Cannoniera

Proprio il concetto chiave di ‘misura’, che Ghiberti evocava per Giotto, sembra aver guidato l’Angelico fin dai suoi primi passi, mentre, tenendo gli occhi fissi al ‘faro’ giottesco, si confrontava con gli artisti a lui vicini. In primo luogo, raccolse la sfida della resa di una sostanza più veridica dei corpi e degli affetti, perseguendo una strada che pressoché in contemporanea esploravano altri pittori, che la mostra non ha tralasciato di rappresentare: il Maestro della Madonna Straus (forse Ambrogio di Baldese), il Maestro del 1419 e, in testa a tutti, Masolino da Panicale, rappresentato in mostra dalla Madonna dell’Umiltà della Galleria degli Uffizi. Il Maestro della Madonna Straus, alias Ambrogio di Baldese, il Maestro del 1419, alias Battista di Biagio Sanguigni (ma questa identificazione è pressoché unanimemente revocata in dubbio): non è casuale che gli studiosi vadano cercando per questi anonimi maestri un nome guardando fra quelli che si legano a Guido di Pietro nei primissimi documenti che di lui parlano.

Masolino, Madonna dell’Umiltà, Firenze, Galleria degli Uffizi

L’idea di uno sguardo privilegiato del nostro pittore rivolto a Gherardo di Jacopo, detto lo Starnina, già morto nel 1413, va in una direzione ben differente e non può non destare qualche perplessità. Starnina è rappresentato in mostra dalla Madonna dell’Umiltà del Museo Diocesano di Milano, già in collezione Crespi, e dagli stupendi pannelli apicali che facevano parte di un grande polittico eseguito per la Certosa del Galluzzo, opere che ribadiscono bene il suo ruolo cardine, a lato di Ghiberti, nel direzionare il corso della pittura fiorentina a cavallo fra primo e secondo decennio.

Starnina, Madonna dell’Umiltà incoronata da due angeli, Milano, Museo Diocesano
Starnina, Cuspidi del Polittico Acciaioli della Certosa del Galluzzo, Francoforte sul Meno, Städel Museum

Starnina fu però latore di un linguaggio gotico veramente internazionale, nutrito di influssi iberici innestati sulla tradizione di una delle botteghe più attive a Firenze sullo scorcio del Trecento – quella di Agnolo Gaddi – e il suo stile si risolve in una festa di colori, in composizioni vivaci e in un modo di animare la figura attraverso calligrafie che si esprimono in sommo grado nel rifluire instancabile di panneggi sovrabbondanti. I suoi emuli, fra tutti Scolaio di Giovanni, Rossello di Jacopo Franchi e, in una buona misura, Giovanni dal Ponte, fecero proprio questo linguaggio sgargiante e festoso.

Maestro della Madonna Straus, Santa Caterina d’Alessandria; San Francesco d’Assisi, Firenze, Galleria dell’Accademia

Il Maestro della Madonna Straus, anch’egli uscito dalla bottega di Agnolo Gaddi e pressoché coetaneo di Starnina, fu invece in quegli stessi anni tra i più strenui ricercatori dei valori tattili dell’epidermide, lo si vede bene nei due santi della Galleria dell’Accademia esposti nel percorso di mostra, e sulla stessa linea si mise il Maestro del 1419, rappresentato da un trittico poco noto di collezione privata, che però non gli rende un buon servizio, vista la sua esecuzione un po’ corriva, benché sia una felice occasione poterlo vedere dal vivo. Questo anonimo pittore fu sostanzialmente un creato di Lorenzo Monaco – e quindi più giovane del Maestro della Madonna Straus – e, a partire dalla lezione del pittore camaldolese, si avviò a cercare di ridurre il ruolo del disegno nella definizione delle figure, affidando la resa del volume a trapassi di piano più dolci e al recupero di ombre grigie che erano già state l’espediente per ottenere una resa più realistica dei carnati di grandi pittori del Trecento fiorentino, su tutti Giottino e Giovanni da Milano.

Maestro del 1419 (Battista di Biagio Sanguigni?), Trittico: San Giacomo Maggiore e San Mauro; Madonna col Bambino in trono con due angeli e devoti; San Giovanni Battista e Sant’Antonio Abate, Collezione privata

Al pari del Maestro del 1419, anche Guido di Pietro apprese probabilmente il mestiere presso Lorenzo Monaco, ma il suo ingegno tanto personale lo trattenne dall’aderire pienamente al linguaggio del maestro; semmai è lecito pensare che l’esempio di nesso inscindibile fra arte e spiritualità del monaco artista lo abbia toccato profondamente. E però alcune interferenze con il mondo di Lorenzo Monaco è dato comunque coglierle. La Tebaide, che nella seriazione cronologica delle opere offerta in catalogo occupa la terza posizione ed è in effetti fra i dipinti più antichi di Guido di Pietro, si rifà probabilmente a un prototipo di Lorenzo Monaco.

Beato Angelico, Tebaide, Firenze, Museo di San Marco

Allo stesso modo, le tangenze con il possibile maestro si palesano anche nella piccola Croce sagomata di collezione privata, talmente bella, nelle sue ombre soffiate e nelle luci che si rapprendono al perizoma con ritrovato naturalismo, che si stenta a vedervi una forma di collaborazione e non una fatica dell’Angelico tout-court.

Lorenzo Monaco e Beato Angelico, Crocifisso sagomato, collezione privata

È tuttavia sintomatico delle difficoltà della filologia angelichiana che opere del genere non trovino una attribuzione netta e unanime. Simile sorte tocca alla cosiddetta Crocefissione Griggs, che porta il nome della collezione dalla quale pervenne al Metropolitan Museum di New York, e che ora per la nostra felicità è giunta in mostra a San Marco. A vederla dal vivo, si comprendono bene le esitazioni che la critica ha avuto nel classificare la tavola; non stupisce nemmeno che il grande conoscitore Richard Offner, a partire proprio da quest’opera, avesse ricostruito la personalità di un altro pittore, denominato Maestro della Crocefissione Griggs, che poi si è rivelato essere Giovanni Toscani. La prudenza dei curatori, che la espongono come di “Beato Angelico e collaboratore”, sembra ancora sensata.

Beato Angelico, Crocifissione, New York, Metropolitan Museum of Art

È comunque un’opera affascinante, dove il Cristo è circonfuso di una luce argentea e sfoggia un perizoma ampio, svolazzante eppure calibrato; con agio, si cala in mezzo a una chiostra di figure dalle pose studiate e quasi non si fa sentire il vertiginoso scarto proporzionale con il gruppo assai bello dei dolenti in primo piano: proprio la parte che sembra non spettare affatto all’Angelico. Non sono sbandate di un artista sfuggente: è ben probabile che anche nei suoi anni verdi Guido di Pietro si trovasse occasionalmente a collaborare con altri artisti, come del resto farà pure negli anni più avanzati.

Probabilmente la sua vicinanza era anzi capace di stimolare gli altri artisti, che nel loro ‘ritorno a Giotto’ non disdegnavano di copiare letteralmente composizioni del grande caposcuola (Giovanni Toscani, ad esempio, copiò diverse composizioni di Madonna col Bambino di Giotto, fra le quali quella della tavola ora all’Ashmolean Museum di Oxford) e dovevano sbalordire vedendo invece Guido di Pietro capace di rieditare l’arte di Giotto e dipingere in un modo tanto antico e tanto nuovo.

Beato Angelico, Crocifissione, Oxford, The Ashmolean Museum; University of Oxford

Chi comunque volesse con agio ammirare un’opera dell’Angelico già sommo e inconfondibile, senza interpolazioni di sorta da parte di altri, ha ora anche l’opportunità rara di vedere la Crocifissione dell’Ashmolean Museum di Oxford, che è stata acquistata dal museo oxoniense nel 2023, e pure le due tavole con i Santi Giovanni Battista, un vescovo, Caterina d’Alessandria e Agnese di collezione privata americana, a suo tempo rese note da John W. Pope-Hennessy.

Beato Angelico, Santa Caterina d’Alessandria e san Giovanni Battista; Santo vescovo e sant’Agnese, collezione privata

Sono vertici qualitativi, e se la Crocifissione rappresenta un po’ il momento di massima adesione (e già superamento) a Masolino, le due coppie di santi si avvicinano strettamente ad altre opere di tenore simile presenti in mostra: la Madonna di Cedri (Boskovits aveva addirittura adombrato la possibilità che fosse l’elemento centrale dei pannelli statunitensi!) e la Pala di Fiesole, tutte opere che, a voler essere cauti, si collocano attorno al 1420, biennio più biennio meno, e tratteggiano il primo approdo della formazione dell’Angelico. Accanto a queste opere prodigiose fa una figura un po’ più grama (ma resta un’opera di notevole qualità!) il Crocifisso sagomato del Museo di San Marco, che taluni hanno voluto identificare con un’opera per la quale Fra Giovanni riceveva dei pagamenti nel 1423. “Attribuita a”, dunque: anche in catalogo è usata cautela. Si vede che è un’opera coerente da cima a fondo, che aspetta ancora un suo nome (non però Fra Giovanni da Fiesole).

Beato Angelico (attribuito), Crocifisso sagomato, Firenze, Museo di San Marco

In questo momento sul ’20, senza nulla togliere alla fecondità della mente di Fra Giovanni (forse ormai si era fatto frate), è evidente che accanto alla fascinazione costante per il ‘classicismo gotico’ di Ghiberti cresceva l’interesse per altri pittori: i marchigiani Gentile da Fabriano e Arcangelo di Cola da Camerino. Entrambi erano a Firenze già nel 1420 e non c’è dubbio che la loro sapienza nel rendere la tenera carnosità delle figure e la verità della luce naturale catturasse l’attenzione del frate pittore. Non solo, ma evidentemente il grande pittore fabrianese colpì Fra Giovanni per l’abilità nella lavorazione delle lamine e dell’oro in particolare, sciorinata in un campionario senza precedenti e piegata alla resa materica e luministica come mai nessuno aveva fatto prima. Fra Giovanni da Fiesole avrà fatto tesoro di tutto ciò, non venendo però mai meno a quella ‘misura’ sua propria e, soprattutto, ricercando sempre un effetto di spazio che, agli studiosi che hanno inteso arretrare anche di molti anni diverse sue opere nel tempo, faceva impressione come misterioso precorrimento del genio di Masaccio.

Beato Angelico, Madonna di Cedri, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo

Si potrebbe pensare allora che Guido di Pietro sentisse l’urgenza di uno spazio più sicuramente misurabile, che poi avrà trovato con somma letizia nei pensieri di Brunelleschi e nelle prove di Masaccio, tutt’uno con un nuovo senso di umanità al contempo quotidiana e gravata dal peso della vita; intanto, già prima e da solo, giungeva alle volte a escogitare segnacoli di spazio sorprendenti, come il nimbo del Gesù Bambino nella Madonna di Cedri, che fende lo spazio come un mazzocchio masaccesco, o ancora le ali inchiostrate degli angeli in primo piano nella Pala di Fiesole, che hanno volti scorciati già in maniera prodigiosa.

Beato Angelico, Madonna in trono col Bambino e dodici angeli, Francoforte sul Meno, Städel Museum

Non è eludibile – e infatti non è eluso in mostra – il confronto diretto con Masaccio, che secondo un’opinione ormai ben assestata trova il suo cardine nella Pala di San Pietro Martire e, accanto a questa, nella bellissima piccola Madonna col Bambino e angeli di Francoforte, e felicemente in mostra si ripete l’accostamento con il polittico di Masaccio ora a Cascia di Reggello, datato epigraficamente 1422, che già era stato nucleo di una piccola mostra allestita nel museo casentinese nel 2022. Di qui in poi, Fra Giovanni divenne il più intelligente recettore della novità di Masaccio (lo diceva già Vasari). Probabilmente, l’esempio del pittore più giovane, allato a quello di Gentile da Fabriano, lo guidò anche nel padroneggiare definitivamente il paesaggio, un ‘genere’ nel quale si può dire che il frate pittore non abbia avuto pari nei suoi giorni, precorrendo Sassetta, Domenico Veneziano e gli altri. Già nella sezione di San Marco, questo sentimento del paesaggio si può vedere in tutta la sua pienezza, oltreché nella predella del Tabernacolo dei Linaioli, nelle due stupende tavolette dei Musei di San Domenico di Forlì, che tornano ora a Firenze dopo che erano state qui esposte nel 2021, e nell’Imposizione del nome al Battista. E il visitatore si può così preparare alla magnificenza del paesaggio da contemplare brano a brano che gli si paleserà davanti alla pala della Deposizione, esposta a Strozzi, in apertura della seconda sezione.

Beato Angelico, Dittico: Natività; Orazione nell’orto, Forlì, Museo di San Domenico, Pinacoteca civica
Beato Angelico, Imposizione del nome al Battista, Firenze, Museo di San Marco

Se è vero, come è vero, che lo stile non è un modo di fare, ma un modo di vedere, davvero beato il pittore che poté vedere con i suoi occhi un mondo siffatto. Chi può, vada dunque a San Marco e non tralasci di pagare il suo tributo anche al Capitolo, alle celle del convento e al chiostro.

Ricordo che Marco Ciatti, quando a noi studenti parlava della Pala di Fiesole, si accendeva parlando del lavoro di carpenteria senza pari con il quale nel 1501 il polittico gotico fu tramutato in una pala quadra ‘all’antica’. La finezza dell’operazione è davvero un commento a come il tempo e l’uomo abbiano accarezzato le opere dell’Angelico, mai veramente caduto in disgrazia nei secoli che ci separano dalla sua morte, in segno di riconoscenza per il fiore di purità che la sua arte non ha mai smesso di offrire al riguardante.

Francesco Suppa

Beato Angelico, Pala di Fiesole, dettaglio
retro della Pala di Fiesole

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