Il beato propagandista del Paradiso
Uno dei suoi segni particolari è di avere tre distinti nomi. Il primo (suo nome anagrafico) è Guido di Pietro: inteso, in confidenza, Guidolino (forse perché, almeno da ragazzetto, cresceva fragile, e di statura piccola? per motivi simili uno dei suoi Padri, il domenicano Pierozzi Antonio, è diventato Antonino, e poi sant’Antonino).
Il secondo nome, Giovanni da Fiesole, fu assunto da lui nell’atto della sua vocazione religiosa: probabilmente per l’intenzione consapevole di onorare un altro dei suoi Padri, il domenicano Giovanni Dominici; ma forse anche per un’altra scelta inconsapevole e necessaria, come poi si vedrà.
Questi due nomi appartengono alla sua storia; ma il terzo, Beato Angelico, glielo ha dato, da vivo e da morto, la sua leggenda popolare. E non per niente è toccato proprio a quest’ultimo di restare il suo nome più consueto, familiare a tutto il mondo.
La leggenda del Beato Angelico, prima ancora che pittore, lo vuole santo; e i critici moderni, attenti a sistemarlo obiettivamente nella Storia, lavorano a rimuovere da lui certi ingombri leggendari. Ma io, come il popolo, non so adattarmi a una simile operazione: anche se proprio in quell’aureola sopraterrestre devo riconoscere il primo acido che ha prodotto certi miei pregiudizi scostanti sul conto del Beato.
In realtà, nella pittura, i miei santi portavano altri nomi: per esempio Masaccio, Rembrandt, Van Gogh. Difatti, i santi dell’arte mi si fanno riconoscere perché portano nel corpo i comuni segni della croce materna, la stessa che inchioda noi tutti. Solo per avere scontato in se stessi, fino alla consumazione, la strage comune, i loro corpi hanno potuto, a differenza dei nostri, rendersi al colore luminoso della salute; ma costui, invece, il Beato, si direbbe nato già col suo corpo luminoso.
Agli artisti, come ai santi, noi chiediamo la difficile carità di rispondere alle nostre domande più disperate e confuse; però solo alcuni fra loro sembrano prometterci una risposta, come parenti nostri che, di là dai confini e dalle date, ci parlino nella nostra stessa lingua materna. Altri ci scansano, trattandoci da stranieri: e uno di costoro, per me (fino dalle prime mie domande acerbe), è stato il pittore Angelico. Tanto che oggi, da questo punto presente in cui mi trovo, tornare nei ritiri dove lui beato vive, mi pare quasi un viaggio di fantascienza.
La povera mia (nostra) lingua materna è cresciuta nella fabbrica deformante delle città degradate, fra le lotte evasive dei meccanismi schiavistici, e le ripugnanti, continue tentazioni della bruttezza. Ricevendo per dottrina imposta – come cànoni di fede ecumenica – le tetre Scritture del Progresso tecnologico, i Messaggi ossessivi della Merce, e le spettrali Annunciazioni della Gerusalemme industriale, s’è ritratta a cercare le proprie immagini di salute nell’esclusione da qualsiasi chiesa. E forzata, fino dall’infanzia, a frequentare i gerghi obbligatorii dell’irrealtà collettiva, s’è ridotta a riinventare un proprio lessico, scavandolo, magari, da qualche vocabolario esotico, indecifrabile per i suoi contemporanei: e rifornendo il proprio tesoro magari dai loro rifiuti, piuttosto che dalle loro botteghe.
Come potrà, dunque, una nel mio-nostro stato, non dico capire, ma perdonare quella lingua beata e angelica? Forse, le mie resistenze al Beato pittore sono colpa, soprattutto, della mia invidia. In realtà, più che nel significato di ‘santo’, qui, a me, ‘beato’ suona piuttosto in quello di ‘fortunato’, o ‘beato lui’.
Per esempio. A noi pure certo gioverebbe di conoscere, in aggiunta al nostro padre naturale, un qualche padre di sapienza, vivo o defunto, a cui chiedere consiglio. Ma purtroppo, le voci dei defunti qua non riusciamo a udirle più, attraverso questo fracasso atomico che ci assorda. E quelle dei vivi, sono esse stesse troppo chiassose, per meritare la nostra fiducia. I sapienti, di regola, non fanno tanto rumore.
Così noi, qua, oggi, siamo tutti orfani. Mentre che Guido di Pietro, invece, di quei Padri-eroi ne aveva molti: e tutti santi, o beati, e tutti domenicani. Insieme ai due vivi e suoi conterranei già nominati prima, basterà nominare ancora, fra i defunti, Domenico di Guzman, che da Dante fu apparentato ai cherubini, per la sapienza; e Tommaso d’Aquino, detto Doctor Angelicus: il quale passò la vita a dimostrare la divina realtà con le ragioni di Aristotele; ma per il resto, poi, chiacchierava così poco, da venir soprannominato “il bue muto”.
Appunto negli scritti del Doctor Angelicus si legge: “Niente è nell’intelletto, che non sia stato prima nei sensi”. E naturalmente gli occhi fortunati di Guidolino di Pietro si sono aperti per la prima volta su una veduta dove lui poteva immediatamente riconoscere un modello sensibile del Paradiso.
Un privilegio comune dei terrestri di allora, anzi (fin quasi a ieri) di tutti i terrestri del passato, era questo: la bruttezza (che significa propriamente ‘negazione della realtà’, o – come oggi si direbbe – ‘alienazione’ totale dall’intelletto e dalla natura) non aveva ancora ramificato sulla terra. Difatti, tutti gli altri possibili mali esistenti sulla terra fino dagli inizi: i conflitti, le devastazioni, la malattia, la morte, sono sostanza della natura, movimenti della tragedia reale. La manifestazione dell’irrealtà, cioè la bruttezza, è un mostro recente.
Ma per quanto questa laida esperienza, nostra maledizione attuale, fosse dovunque e sempre risparmiata ai nostri predecessori terrestri, è certo che il momento storico e il luogo geografico assegnati dalla fortuna a Guidolino sono stati il punto di elezione e il centro radioso di un tale favore invidiabile. Si può affermare che i beati occhi di Guidolino non incontrarono mai niente di brutto. E quanto alla presenza inevitabile del male, lui ne aveva la spiegazione dai suoi Padri.
Grazie a costoro, tutto era chiaro, per Guido di Pietro: il male sussiste sulla terra, perché questa non è che una stazione inferiore del Cosmo; anzi, ne è la penultima bassura, giacché, subito sotto di essa, si trova l’Inferno. Però, diversamente da quest’ultimo, la terra mantiene tuttavia relazioni col Regno celeste, che abitualmente le invia i propri messaggeri, avendo istituito a questo incarico speciale gli Ordini angelici della terza categoria: Angeli, Arcangeli e Principati.
Al di sopra della bassura terrestre, e delle sue dipendenze, si espande per tutto il Cosmo, attraverso le sue successive altitudini, l’unica nazione celeste, suddivisa in nove regioni o sfere, sempre più illuminate e perfette via via che si procede nella salita. Dalla prima sfera di confine, la Luna, si sale a Mercurio e a Venere e alla quarta sfera del Sole; e di qui, passando per Marte, Giove e Saturno, si arriva al Cielo delle Stelle Fisse, e al Primo Mobile. Questa infinita nazione stellare è abitata e governata dagli Angeli della seconda categoria: Potestà, Virtù e Dominazioni. E, infine, ai tre gradi della prima categoria: Troni, Cherubini e Serafini, sono assegnate le funzioni supreme dell’Empireo, sommità dell’universo, dov’è la casa di Dio.
(N. B. – Nessuna scienza terrestre potrà mai presumere di contestare attendibilmente questa astronomia. Invero, come già i primi cosmonauti discesi sulla Luna, così gli altri venturi cosmonauti andranno vagando dalla Luna a Marte a Giove, senza scoprirvi mai altro che delle distese deserte. Ma ciò vale solo a dire, in realtà, che essi le stimeranno deserte: poiché le architetture sterminate e popolose delle Potestà, delle Virtù e delle Dominazioni non sono percepibili dai nostri strumenti ottici).
E così l’umanità, coi poveri animali suoi compagni, ha meritato l’infimo albergo del Cosmo: dove, appena al piano di sotto, si trova la cantina dei Dannati. Era logico che, da una simile vicinanza, il Male radicasse fino sulla terra. Ma come rimedio (assicurano i Padri) l’uomo ha ricevuto un Bene che lo distingue dalle creature inferiori o dannate, e lo riaccompagna agli Angeli.
È il bene dell’intelletto. E per suo mezzo, dalla bassura terrestre il pensiero può salire per tutte le sfere superiori, fino all’Empireo. La sfera più prossima, la Luna, e le altre seguenti fino alle Stelle Fisse, si possono perfino riconoscere con gli occhi, anche da Vicchio, nel sereno notturno. Ma anche dell’ultima sede, l’Empireo, il Paradiso invisibile, c’è sulla terra una testimonianza visibile, la luce: la quale non è una sostanza terrestre, ma una qualità propria del ciclo, che così rende alle cose esistenti la proprietà incorporea essenziale: non producendosi come effetto, ma significando la Causa. Guido di Pietro, fino dal giorno che ha aperto gli occhi, s’è innamorato della luce. Il suo è un affetto felice e corrisposto, giacché la luce lo aspetta ogni giorno, dichiarandogli, con la manifestazione dei colori, la presenza del primo amore in tutte le cose; e poi consegnandogli, per la fede del loro affetto reciproco, il segreto magistrale dell’arte visiva. Guidolino ha ricevuto nelle sue manucce ubbidienti gli strumenti del suo lavoro come un pegno della propria unione con la prima luce. E una simile unione è approvata senz’altro dall’autorità dei Padri, giacché può servire alla propaganda del Paradiso. Così, Guido di Pietro ha scoperto il suo mestiere. È un pittore, al servizio della propaganda.
I suoi Padri viventi (Dominici e Pierozzi) gli insegnano che la propaganda è il solo fine lecito dell’arte. Però una tale direttiva totalitaria ha già risentito le spinte della rivoluzione mondiale che intanto cresce intorno a loro con meravigliosa turbolenza. Questa rivoluzione (allora appena agli inizi) è la stessa che nel farsi adulta e matura arriverà fino a negare l’astorico Paradiso, contrapponendogli la Storia, di cui l’uomo definitivamente mortale (e non l’ipotetica anima immortale) è il solo protagonista e responsabile. Suo solo regno promesso è la terra; e per l’uso di questo regno concreto, più della filosofia serve la scienza. L’arte poi serve a glorificarlo, e a glorificarsi.
Ha partecipato, Guido di Pietro, alla rivoluzione? E se no, va dunque trattato da reazionario? Questo problema, che inquieterà i critici, non potrebbe far deviare il Beato. Per lui, tutte le rivoluzioni possibili non potranno mai essere che compromessi e approssimazioni della vera rivoluzione totale, già definita una volta per tutte in Galilea. Nel campo proprio della pittura, la sua grande rivoluzione lui l’ha già intrapresa; giacché, fino a lui, la luce, pure essendo, necessariamente, la sorgente della pittura, non ne era stata l’ascesi e l’argomento. E in quanto alla nuova scienza dei pittori suoi coetanei, s’intende che lui la impara: ringraziando, anzi, il suo primo e unico amore (la luce) perché gli manda certe istruzioni stupende attraverso di loro. Lui sa che questi suoi compagni rivoluzionari sono destinati a strumenti della luce, come lui. Sua sola differenza da loro: lui conosce l’ultima destinazione, promessa a lui dalla luce innamorata. E non vuole ritardarla.
Attento, però avvertito del rischio, come Ulisse nel mare delle sirene. E allora ha deciso, anche lui, di legarsi con le corde alla sua nave. “La lezione e l’orazione” gli insegna il maestro Antonino “sono due ali, che sempre trovano l’anima sospesa in cielo, e mai la lasciano posare in terra, cioè a cose terrene per affetto e per desiderio. E così, come gli uccelli non è possibile volare in aria con un’ala, così l’anima è quasi impossibile perfettamente a poter gustare di Dio senza lezione: l’una aiuta l’altra; e poi la santa contemplazione che la fa andare diritta…”.
Non è escluso che perfino il Beato possa aver conosciuto qualche conflitto simile ai nostri… Però, noi, qua, oggi, dove la troviamo una nave di fiducia a cui legarci, per non perdere la direzione? Qua non si riesce a vedere intorno che barchette o barconi alla deriva, o rotti, o semisommersi; o bastimentacci mercantili, o corsari; o galere di forzati. Pure le navi volanti, o missilistiche, o atomiche, o come siano, le quali ci promettono addirittura la velocità della luce, in realtà ci risultano poi dei carretti bombastici, che ci detengono sempre nel nostro solito albergo sul tetto dell’Inferno. Chi potrà condannare, qua, quelli che si buttano con le sirene, oppure si tappano gli orecchi al loro canto, come i non invidiabili compagni di Ulisse? Ma per il Beato, invece (ecco ancora la sua fortuna), non c’era che da muovere due passi. La sua nave di fiducia stava là ancorata ad aspettarlo: convento di San Domenico di Fiesole, fondato dal suo Padre Dominici e tenuto dal suo Padre Pierozzi. Là in mezzo al verde, che è il colore della resurrezione e del riposo; e al turchino, che è il colore della nascita.
È stato nel presentarsi là che lui ha scoperto il suo vero nome. Come si era chiamato colui che aveva detto: “Io non sono la luce, ma sono venuto per rendere testimonianza alla luce”? Giovanni: questo è il suo nome vero! Guidolino era soltanto un nomignolo.
Frate Giovanni da Fiesole.
Le opere dell’arte di propaganda sono un siero della verità. Se la propaganda è spontanea e sincera, riescono belle. Se no, riescono dei mostri.
Anche nell’epoca moderna, si è dato qualche caso di propaganda spontanea: per esempio il poeta Majakovskij, il quale credeva nella merce che vantava. Il giorno che non ha più creduto, ha preferito assassinarsi.
Dopo di lui, l’arte odierna della propaganda, in generale, ha prodotto dei mostri di bruttezza. Segno che gli oggetti della nostra propaganda, in massima parte, sono falsificati, e la propaganda obbligatoria o forzosa. Noi non abbiamo visto, e non crediamo.
“Beati quelli che non videro, e credettero”. Beati anche perché, dal momento stesso che hanno veramente creduto, hanno visto.
Frate Giovanni da Fiesole, propagandista del Paradiso, ci ha sempre creduto. E per questo, gli è stato concesso di vedere. Attraverso le gradazioni della scala cromatica, l’unica luce non solo gli ha fatto riconoscere la propria essenza divina, ma anche la differente qualità dei corpi, più o meno disposti a riceverla. Le creature angeliche sono diafane assolutamente, per cui la luce le riempie della propria intera essenza, non degradata nella scala; e a causa di ciò, il senso della vista non può percepirle, sebbene i tre Ordini della terza categoria angelica: Angeli, Arcangeli e Principati, percorrano abitualmente la terra.
Solo in certi casi eccezionali, come si legge nelle Scritture, esse si sono rese percettibili; o perfino, come Gabriele nell’Annunciazione a Maria, si sono fatte riconoscere nella loro unica specie (è noto che gli Angeli, non riproducendosi per la loro natura, sono, ciascuno, l’unico della propria specie).
Si può pensare che il Cristo, in quanto Uomo-Dio, fosse accompagnato sempre, anche sulla terra, dalla propria essenza di luce. La quale soltanto una volta diventò visibile: agli Apostoli sul monte Tabor.
La leggenda racconta che l’Angelico dipingeva in ginocchio. E alcuni critici, davanti al segreto di certe sue luci, si sono poi domandati: estasi, o scienza? Ma qui per lui potrebbe forse rispondere il Doctor Angelicus. Il quale un giorno, dopo una delle sue ultime messe, confidò al suo amico Reginaldo: “Non posso scrivere più. Ho visto cose, in confronto delle quali i miei scritti non sono che paglia”.
Però l’arte, anche se beata, è una tentazione irresistibile; e il Nostro, non essendo un Dottore della Chiesa, ma un pittore nato, ha seguitato la sua cara arte fino alla fine. Se ha conosciuto le visioni dell’estasi, questo è un argomento di silenzio e di pudore, su cui non è lecito interrogarlo. E solo ci sia permessa, tuttavia, una domanda: “Poiché la luce propria delle creature celesti (rivelata solo a pochi nella visione estatica) non si degrada nella scala visibile, come poteva lui raffigurare, nella pittura, Cristo e Maria in gloria, gli angeli e i santi nel cielo?”.
Anche su questo lo istruiva il suo maestro Antonino: avvertendolo che, per le chiese, si fanno “ le dipinture devote… le quali sono dette nel Decreto ‘libri degl’idioti’: i quali non sapendo leggere, per quello è loro rappresentato il fervore… onde l’animo si desta a seguitargli…”.
Ma allora, se ne dovrebbe dedurre che lui, dopo aver letto nel volume delle Intelligenze inesprimibili, si riduceva al “libro degli idioti” per un artificio propagandistico? No assolutamente. Difatti, in primo luogo c’era la parola del Doctor Angelicus: “scienza con carità”. E poi, c’è che dentro Giovanni da Fiesole stava sempre vivo Guidolino, pazzamente e irrimediabilmente innamorato del suo primo amore: la luce sensibile di ogni giorno.
Uno dei suoi primi dipinti, e il vero manifesto della sua propaganda, è stato il Giudizio Universale: dove la scelta definitiva fra la cittadinanza infernale e quella celeste viene proposta agli “idioti” in un documento smagliante. L’Impero del Male è un’osteria di cannibali, murati dentro la loro cantina, senz’altra illuminazione che quella dei loro fuochi nefandi. E la Repubblica del Bene, invece, è un ballo mattiniero all’aperto, su un bel prato da dove, per una salitella fiesolana, si arriva al piccolo uscio radioso che porta alle stanze della luce (molto simili al palazzo delle fate).
I colori sono un regalo della luce, che si serve dei corpi (come la musica degli strumenti) per trasformare in epifania terrestre la sua festa invisibile. Le Incoronazioni, gli Altari, le Maestà sono gli inni del pittore in lode e celebrazione di quella festa. Si sa che allo sguardo degli “idioti” (poveri o ricchi) la gerarchia degli splendori culmina nel segno dell’oro. Per quelli che non conoscono la vera, intima alchimia della luce, le miniere terrestri sono il luogo del tesoro nascosto. E così, per l’esaltazione dei loro occhi ignoranti, questo pittore dell’Ordine degli Accattoni costruisce alla Madre e al Bambino, come a due idoli, troni d’oro, camere pavesate d’oro, pavimenti marmorei, tappeti orientali. Ricama con una minuzia incantata le vesti degli angeli, e pettina i loro capelli con la cura di una sorella attenta.
Però, nel lavoro, anche tali vanità e mercanzie gli si restituiscono alla natura propria dei corpi luminosi, disinteressata e innocente. I suoi angeli non sono bambolette agghindate come credette lo scioccherello Olindo Guerrini (il quale, basta leggere le sue poesie per verificare quanto era stupidello), ma, al contrario, sono nati come nascono i fiori, con le loro ciocche e piume già ordinate e i loro eleganti vestiti non tessuti né cuciti da nessun operaio (“Guardate i gigli dei campi…”).
Nessun vizio retorico, nessuna unzione bigotta corrompe i suoi gesti innamorati. L’equivoco delle false religioni, o delle ‘epoche belle’, ha preteso di degradarlo ai propri usi, facendone un ‘santino’ o un genere da arredamento. Ma in realtà i suoi regali d’Epifania, lavorati con le sue mani, sono consegnati al domicilio della luce, dove gli occhi volgari o sofisticati non arrivano.
Oltre ai manifesti e agli inni, la propaganda richiede epopee ‘sceneggiate’ per commuovere il popolo, fedele o volubile, con le imprese dei suoi eroi. Nel mondo del Beato non c’è stata ancora l’industria dei massmedia, coi suoi genocidii aberranti. La proprietà sacrosanta e preziosa degli “idioti” – la loro cultura stupenda, la poesia popolare – è in quei giorni una creatura viva, respirante, piena di grazia e di salute. Le storie straordinarie ch’essa fornisce al Beato (fortunato) riferiscono la perfetta realtà della natura, più vera di qualsiasi ‘realtà’ storica. Le predelle degli altari, dei tabernacoli e delle pale sono il teatrino, anzi la sublime ‘televisione a colori’ del nostro cantastorie. Qui le partiture colorate della luce hanno variazioni più familiari, cantabili. Una popolazione minuta di artigianelli, di soldati e di mercantucci anima le piazze delle vocazioni, delle salvazioni e dei martirii. Le scene delle Presentazioni e dei miracoli sono piccoli chiostri e cortili fiorentini, terrazze melodiose, camerette arredate all’uso toscano o fiammingo. La casa della Visitazione si affaccia sul lago Trasimeno.
Tutto questo (manifesti, inni, spettacoli) è lavoro sociale e ‘impegnato’, dovuto alle chiese, alle Signorie, alle Compagnie, e insomma al pubblico degli “idioti”: gli stessi a cui Cristo spiegava la luce in parabole, perché i loro intelletti sono confinati nelle dimensioni dello spazio e del tempo. Predicare agli “idioti”, nella loro lingua, una libertà che non abita dentro quelle dimensioni, e che non si può definire nei termini di nessun vocabolario: questa è la ‘presenza’ nel mondo, insegnata dall’esempio del Vangelo. La santità-azione e l’arte-preghiera si apparentano in questo paradosso: d’essere sciolte dai limiti comuni, eppure di muoversi dentro questi limiti. E un tale paradosso assenza-presenza è vissuto doppiamente dall’Angelico: perché artista, e perché religioso.
Il luogo dell’ ‘assenza’, per i poeti, è la lirica: dove la conversazione non è più col mondo esterno, ma con un altro interlocutore intimo, punto ultimo e inaccessibile del sentimento o dell’intelletto. Per l’artista Beato, questo luogo, o rifugio, s’è identificato fisicamente nel convento di San Marco, che l’ha ospitato per gran parte della sua vita, prima come frate e poi come priore. E là, nella sua casa – dove ogni cameretta assegnata per i riposi era anche la singola cella consacrata alle meditazioni, e dove ogni pasto nel refettorio comune doveva rievocare il sacrificio del pane e del vino –, l’innamorato della luce ha dipinto sui muri le sue misteriose conversazioni con lei. Gli affreschi di San Marco sono le liriche del Beato Angelico: tali che lui poteva dipingerle (per così dire) a occhi chiusi, giacché stavolta i colori non glieli ha portati il senso della vista, ma la memoria, che è un’altra testimonianza della luce. Nell’assenza dal tempo e dallo spazio, tutto è memoria: l’evento presente, quello che è già accaduto e quello che deve ancora accadere. E così, in quegli affreschi anonimi (l’autografia non importa all’arte-preghiera) il pittore ‘si è ricordato’ dei Misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi: dell’annunciazione a Maria, della flagellazione e della sepoltura di Cristo, dell’incontro di Maddalena col suo Rabbi risorto, e del volo alla patria dell’ultimo cielo. Nella definitiva unità dei contrari assenza-presenza, tutto è già stato, tutto deve succedere ancora. E là finalmente i corpi si avvicinano a quell’assoluto ‘diafano’ in cui si rivelerà la luce essenziale, non degradata.
Però il destino di frate Giovanni non è di riposare nella lirica; Giovanni da Fiesole è un pittore del Rinascimento, e cattolico, e domenicano; e intorno al cinquantesimo anno della sua vita, il papa lo chiama a Roma. Così, dal suo paese natale di Vicchio, il nostro Guidolino è arrivato, nella sua tonaca bianca e mantelluccio nero, fino alla Corte pontificia: dove, in luogo della leggenda aurea del suo confratello Iacopo, lo aspetta la Storia. Il confronto con la Storia è un’altra delle prove necessarie che la ‘presenza’ nel mondo richiede agli artisti e ai religiosi intesi all’azione. E in tale confronto, il grande Giovanni quasi rimuove da dentro se stesso la immancabile piccola presenza di Guidolino, coi suoi giardini primordiali; come pure la nostalgia dell’intimità di San Marco. Non interroga più le luci della natura e della memoria. ma gli specchi monumentali dell’antico classicismo e del nuovo umanesimo: adeguando il suo canto d’amore alla loro eloquenza terrestre.
La Cappella Nicolina in Vaticano è il poema storico del Beato. Sono, oramai, gli ultimi anni della sua vita. Non molto lavoro gli resta ancora da fare.
Fra le ultime sue pitture, ci è rimasto l’Armadio degli Argenti: ciclo di storiette meravigliose, dove si racconta la biografia di Cristo. Di nuovo, in questi quadretti, riconosciamo il linguaggio proprio del “libro degli idioti”; ma nella sua parlata popolare c’è una specie di stupore incantato, come se l’Angelico, stavolta, volesse farsi lui stesso “idiota”, secondo il destino dei suoi poveri fratelli terrestri: per raccontare a se stesso, nella sua vecchiaia, la più bella storia della terra. Qua la sua amica luce gli ha sorriso con una specie di umorismo impareggiabile nel mantelluccio rosso del Bambino in partenza sull’asino verso l’Egitto; nelle ali di farfalla dell’arcangelo Gabriele; e nella carne del minuscolo infante che si porge, con le gambucce aperte, al sacerdote armato per la circoncisione. La sua compagna luce gli ha tinto d’indulgenza l’interrogatorio di Pilato; gli ha trasformato in una favola d’orchi la strage degli Innocenti, alla maniera d’una nonna che raccontasse una storia di spaventi a lieto fine; e per illuminargli l’Ultima Cena, gli ha tracciato un soffitto d’archi azzurri, come se quel piccolo refettorio dell’addio si trovasse situato già in un’altra Gerusalemme, al di là delle Stelle Fisse.
La sorte del pittore non è stata di morire nella sua casa fiorentina di San Marco; ma a Roma, che per lui doveva essere una lontana terra straniera. È sepolto nella chiesa romana della Minerva; e qui, scolpito sulla sua pietra tombale, e illuminato presentemente da una lampadina elettrica, si può vedere il suo ultimo ritratto. Certo, lui vi appare assai diverso che in quell’unico altro ritratto suo da me conosciuto, nel quale Luca Signorelli lo rappresentava con enfasi eroica. Però, nei tratti quasi contadini di questa povera maschera di vecchio malato, si può meglio decifrare, direi, la scrittura materna dei suoi tre nomi: Beato Angelico, nell’attenzione; Giovanni, nella disciplina; e Guidolino, nell’aspettazione interrogativa di quel promesso raggio amante che non si decompone nello spettro visibile.
Elsa Morante